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Vendita del cane con patologia

Diritti e doveri di ciascuna parte
Akita Inu venduto con patologia
Akita Inu venduto con patologia

Può accadere che la gioia dell’arrivo di un cane all’interno di una famiglia lasci il posto allo sconforto di scoprire che il nuovo arrivato è affetto da una qualche patologia, magari severa. Dopo lo sconforto, inevitabile la scelta di un buon veterinario. Altrettanto inevitabile domandarsi se e quali diritti ha l’acquirente nei confronti del venditore, come ed entro quali termini può esercitarli.

 

Un caso concreto

Il cane è un cucciolo di Akita Inu al quale viene diagnosticata una grave patologia displasica bilaterale. L’acquirente richiede al venditore la riduzione del prezzo corrisposto per l’acquisto oltre al risarcimento di euro 6.650,00 quale danno originato dalle spese sopportate per l’esecuzione degli interventi chirurgici correttivi della displasia.

Il Tribunale accoglie entrambe le domande. Parte venditrice impugna la sentenza e la Corte d’appello di Milano, in parziale riforma, rigetta la (sola) domanda risarcitoria. La vicenda approda in Cassazione dove, come vedremo nel prosieguo, trova conferma la decisione del secondo giudice[1].

 

Considerazioni preliminari

Prima di esaminare la decisione della Corte di legittimità alcune preliminari precisazioni in tema di vendita di animali.

L’articolo di riferimento è il 1496 del codice civile per il quale «Nella vendita di animali la garanzia per i vizi è regolata dalle leggi speciali o, in mancanza, dagli usi locali. Se neppure questi dispongono, si osservano le norme che precedono». Un mero rinvio alle norme che si applicano per la compravendita di beni dal momento che mai stata approvata una legge speciale ad hoc. Quanto agli usi nonostante una antica disposizione normativa[2] attribuisca alle Camere di Commercio il compito di eseguirne periodicamente la revisione e l’aggiornamento, si tratta di aggiornamenti anacronistici e/o mai eseguiti.

Dunque ai sensi dell’articolo 1492 Codice Civile «il compratore può domandare a sua scelta la risoluzione del contratto ovvero la riduzione del prezzo se la cosa compravenduta presenta vizi che la rendano inidonea all’uso a cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore». Gli animali pur unanimemente e ridondandemente riconosciuti quali esseri senzienti, sono e restano per il nostro ordinamento giuridico res destinate di fatto e in modo prevalente alla realizzazione dell’interesse economico umano. Senza volere qui affrontare un tema divisivo e impegnativo quale è quello sulla soggettività in capo agli animali credo sia pacificamente difficile percepire l’animale come qualsiasi altro bene giuridico al pari di una lavatrice, di un tavolo, di un mobile, di una autovettura. E questo anche quando si parla di animali da reddito.

Un principio antropocentrico che viene ribadito dalla Cassazione civile con una recente sentenza[3] nella quale si legge che l’animale, per quanto sia un essere senziente, non può essere soggetto di diritti perché privo della c.d. “capacità giuridica” che l’ordinamento riserva alle persone fisiche e a quelle giuridiche. Motivo per il quale – prosegue la richiamata sentenza – nelle diatribe tra acquirente e venditore relative ad accertate patologie dell’animale compravenduto che siano gravi, occulte e pregresse si applicherà, ricorrendone i presupposti, non il codice civile bensì il codice del consumo[4].

L’idea consumeristica di chiedere la sostituzione o riparazione dell’animale d’affezione è forse risibile ma è altresì vero che l’applicazione del codice civile non sia meno discutibile tenuto conto della particolare natura del “bene compravenduto”.

 

La coesistenza di norme: codice civile e codice del consumo

Nel caso in commento l’acquirente ha esercitato una delle due possibili azioni che il codice civile prevede all’articolo 1492 e cioè la richiesta di riduzione del prezzo corrisposto. Avrebbe potuto domandare la risoluzione del contratto restituendo l’animale ma tale soluzione (di restituire il cane e riottenere il corrispettivo pagato) solitamente (e fortunatamente per il cane) non viene azionata nell’ambito di una compravendita ex articolo 1496 Codice Civile. Come anticipato, la Corte di Cassazione civile[5] ha riconosciuto che nella vendita di animali la tutela di cui al codice del consumo trova applicazione preferenziale rispetto a quella codicistica che rimane applicabile solo per quanto non previsto dalla prima (articolo 135, Codice del Consumo comma 2 e 1469 bis cc).

Un principio di favor nei confronti del contraente più debole che dispone di un termine di garanzia più ampio (due anni) come anche più ampio è il termine per formalizzare la denuncia (60 giorni). Un regime, quello consumeristico, attuabile solo se l’acquirente è definibile consumatore e il venditore abbia posto in essere il rapporto negoziale nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale. Nel caso in commento l’acquirente del cucciolo di Akita Inu avrebbe potuto optare per la richiesta di “sostituzione o riparazione” del cane secondo la tutela consumeristica oppure domandare la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto con indubbi vantaggi di termini più ampi come or ora ricordato per la denuncia della patologia e per la formalizzazione della domanda di garanzia.

 

La scoperta e denuncia della patologia

Prescindendo dal tipo di tutela azionata (codice civile o codice del consumo) quello della scoperta e denuncia della patologia è un momento decisivo. La patologia deve essere occulta, preesistente (o devono esserlo le cause da cui essa origina) e grave (se nota all’acquirente, questi non avrebbe, illo tempore, acquistato il cane). Diversamente, secondo quanto dispone l’articolo 1491 del codice civile, se al momento del contrato il compratore conosceva i vizi della cosa o quelli fossero stati facilmente riconoscibili, la garanzia non è più dovuta (salvo che il venditore avesse dichiarato che la cosa era esente da vizi).

L’articolo 1495 Codice Civile stabilisce che la denuncia al venditore deve essere fatta, a pena di decadenza, entro 8 giorni dalla scoperta del vizio. Perché si abbia “scoperta del vizio” (qui patologia) il compratore deve averne acquistato certezza obiettiva e completa, verosimilmente dopo una visita specialistica o finanche dopo avere esperito un accertamento tecnico preventivo oppure dal momento in cui la patologia si sia manifestata con sintomi inequivocabili.

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito che la denuncia non richiede speciali formalità né formule sacramentali e può essere effettuata con qualsiasi mezzo idoneo di trasmissione, quindi anche con una semplice comunicazione telefonica.

In ogni caso è sempre consigliabile una denuncia scritta e con data certa (raccomandata A/R, pec) così da acquisire maggior grado di certezza in ambito probatorio. Non è necessario indicare precisamente la patologia riscontrata potendosi presentare una denuncia sommaria rinviando ad un secondo momento la natura e l’entità della stessa. Lo scopo di tale denunzia è di mettere il venditore sull’avviso in ordine alle intenzioni del compratore. Anche una denuncia generica può essere idonea allo scopo se con essa il venditore è reso edotto che il compratore ha riscontrato, seppure in maniera non ancora chiara e completa, che il cane presenta una certa patologia (che renda il cane inidoneo all’uso eventualmente destinato e palesato o ne diminuisca in modo apprezzabile il valore).

Prendendo come riferimento invece il codice del consumo la denuncia del vizio deve essere svolta entro 60 giorni dalla scoperta e nel termine dei primi due anni dalla consegna, sapendo che ai sensi di quanto dispone l’articolo 132 comma 3 del codice del consumo il vizio di conformità che si manifesti entro sei mesi dalla consegna si presume essere allora già esistente. Due antiche sentenze della Cassazione civile[6] hanno sancito l’illegittimità e dunque non applicabilità degli usi locali che facciano decorrere il termine per la denuncia dei vizi occulti dalla consegna dell’animale.

 

Il termine entro il quale fare valere i propri diritti

Una volta scoperto e denunciato il vizio, individuata la tutela che si vuole azionare secondo uno dei rimedi previsti dal codice civile o da quello del consumo, valutato il comportamento del venditore che magari non intende ottemperare alle richieste dell’acquirente, non rimane che adire il giudice, previa negoziazione assistita quale condizione di procedibilità della futura azione giudiziale.

Quale che sia il termine di prescrizione del diritto alla garanzia secondo il codice civile (un anno) o due anni secondo il codice del consumo, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione civile[7] hanno sancito che al fine di interrompere il ricordato termine prescrizionale è sufficiente un atto stragiudiziale. Atto che legittimerebbe l’acquirente ad agire eventualmente e successivamente in via giudiziale per far valere la garanzia per vizi una volta fallita una tentata risoluzione stragiudiziale preventiva della controversia. Una pronuncia importante che dilata a favore di parte acquirente il periodo necessario per ogni più opportuna valutazione circa la strada da intraprendere e l’esatta individuazione della causa petendi in un settore dove non è sempre facile individuarla.

 

Irrilevanza dell’elemento soggettivo del venditore e onere della prova in capo all’acquirente

La garanzia per i vizi prescinde da ogni considerazione circa la colpevolezza di colui che ha venduto l’animale o dal fatto che l’impossibilità della prestazione sia dipesa da un fatto a lui non imputabile. Se leggiamo l’articolo 1491 Codice Civile il venditore non deve provare la propria mancanza di colpa potendo invece dimostrare che il vizio era conosciuto o facilmente riconoscibile dal compratore salvo avere (il venditore) espressamente dichiarato l’assenza di vizi.

Alla garanzia per i vizi si aggiunge una seconda tutela (risarcitoria) in forza della quale può essere fatto valere ogni pregiudizio subito dall’acquirente per la patologia riscontrata così completandosi la protezione di quello sia con riferimento alla azione redibitoria che estimatoria. Ai sensi dell’articolo 1492 Codice Civile primo comma l’acquirente può chiedere il risarcimento del danno conseguente la patologia oppure i danni derivati dai vizi della cosa (secondo comma dell’articolo 1494 Codice Civile).

Si pensi, con riferimento a questa seconda ipotesi, ad un’infezione originata dall’animale compravenduto che ha contagiato altri animali dell’acquirente.

Presupposto della tutela risarcitoria è la condotta colpevole del venditore per avere avuto conoscenza dei vizi o per averli ignorati per negligenza. Non è necessario provarne la mala fede. Il discrimine non è di poco momento se si considera che la (sola) riduzione del prezzo non poche volte è obiettivo assolutamente minimo e inidoneo a perseguire lo scopo della responsabilità civile che è quello di integrale riparazione del danno subito. Le spese veterinarie necessarie per la risoluzione della patologia riscontrata sono infatti quasi sempre importanti e non paragonabili in termini di riduzione del prezzo corrisposto. E questo senza prendere in considerazione gli eventuali stravolgimenti nella e per la vita dell’animale e del suo compagno umano (spesso privi di riconoscimento alcuno).

Spostando l’attenzione sull’acquirente questi, secondo un recente arresto delle alle Sezioni Unite[8], rimane gravato dell’onere probatorio relativamente alla sussistenza dei vizi. E lo è, si legge nella richiamata sentenza delle Sezioni Unite, in ossequio al principio di cui all’articolo 2967 cc per cui colui che vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Una rilettura delle Sezioni Unite dell’articolo 1490 Codice Civile per cui il venditore non deve provare la mancanza di vizio riferibile al bene compravenduto limitandosi a prestare una garanzia della quale è beneficiario l’acquirente laddove dimostri quest’ultimo la presenza di vizi o dei difetti che rendono il bene inidoneo all’uso destinato o ne diminuiscono in modo apprezzabile il valore.

 

L’ordinanza della Corte di Cassazione n.7285 del 2021

Torniamo al cucciolo di Akita Inu al quale viene diagnosticata una grave patologia displasica bilaterale.

La Cassazione conferma la riduzione del prezzo ma nega il risarcimento dei danni lamentati dall’acquirente. E lo fa basandosi sulla consulenza tecnica d’ufficio che aveva certificato come la predisposizione displasica non potesse costituire una circostanza nota al venditore al momento della vendita sul presupposto che si tratta di una malformazione congenita diagnosticabile solo dai tre mesi e mezzo-quattro di vita del cane. Pur essendone il cucciolo di Akita Inu già affetto già al momento della vendita, il venditore – comunque consapevole della predisposizione genetica della razza a contrarla – non poteva averne consapevolezza. E dunque inevitabile la non risarcibilità dei danni ex articolo 1494 Codice Civile.

A parere di chi scrive tale conclusione origina alcune necessarie riflessioni. Preso atto che, come si legge nella sentenza n. 7285, un diverso apprezzamento delle risultanze della CTU rappresenta una censura circa un giudizio sul fatto espresso dalla corte territoriale e come tale inammissibile, è proprio del tutto assente un qualsiasi profilo di colpa del venditore anche di natura precontrattuale proprio per non avere comunicato all’acquirente quella predisposizione displasia genetica tipica della razza Akita Inu?

Invero questa preclusione non è assoluta tanto che la stessa Corte ne riconosce la possibilità di costituire una causa pretendi di una azione ex articolo 1337 Codice Civile, azione che è cumulabile con quella di garanzia per vizi ma che, nel caso specifico, non risulta essere stata indicata nel ricorso da parte dell’acquirente che ha adito la corte di legittimità. Si tratta di un passaggio non trascurabile nei termini che seguono.

Venditore e acquirente hanno il dovere di comportarsi nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto con correttezza e lealtà (articolo 1337 Codice Civile). Una sorta di valigia quella indicata dall’articolo 1337 Codice Civile in cui solitamente si è soliti inserire di tutto e di più e non poche volte forse in dispregio dell’autonomia contrattuale privata.

Se però si intende la buona fede richiama dall’articolo 1337 Codice Civile (e da altre disposizioni codicistiche in cui viene richiamata) come equilibrio degli interessi che deve essere fatto secondo il leale gioco delle parti[9] non è secondario indagare se le parti (in questo caso il venditore-allevatore o colui che professionalmente vende animali) hanno comunicato ogni elemento utile all’altra parte senza per questo sacrificare il proprio interesse ma neanche l’interesse altrui.

Una buona fede quindi intesa come dovere di informazione di una parte nei confronti dell’altra: dovere di dare notizia delle circostanze che appaiono ignote all’altra e che possono essere determinanti del suo consenso (tali per cui l’altra parte, sapendole, non avrebbe contrattato o avrebbe contrattato a condizioni diverse)[10]. Inevitabile a questo punto tenere conto del livello medio di correttezza di quel dato settore economico o sociale cui il contratto si riferisce.

E dunque non sarebbe affatto sperequativo ritenere che in casi come questo (dove la patologia non costituisce una circostanza nota al venditore al momento della vendita perché riscontrabile solo una volta consegnato l’animale) la consapevolezza della predisposizione genetica della razza a contrarre quella determinata patologia possa avere un’efficienza nel senso che l’altra parte, avendone avuto contezza, non avrebbe contrattato o avrebbe contrattato a condizioni diverse. Una conoscenza, quella della predisposizione genetica di quella certa razza, che non può essere ignorata da colui che per attività professionale svolge l’attività di allevatore o venditore di animali. Soprattutto nella consapevolezza di quali possano essere le conseguenze negative, anche sotto il profilo delle spese veterinarie, che un eventuale manifestarsi di quella potenziale patologia può determinare.

Se è assolutamente ragionevole ritenere che l’acquirente (magari come spesso accade persona alla sua prima esperienza con un cane) non possa minimamente sospettare alcuna patologia soprattutto della natura di quella di cui al caso in commento, è altrettanto ragionevole attendersi che un simile sospetto debba essere preso in (seria) considerazione da chi si qualifica come allevatore della razza cui appartiene il cane in questione.

 

[1] Cass.civ. n. 7285/2021

[2] T.U. 20.9.1934 n. 2011

[3] Cass. civ. n. 22728/2018

[4] Decreto legislativo n. 206/205

[5] Cass. civ. n. 22728/2018

[6] Cass. civ. n. 1834/1942; Cass. civ. n. 599/1954

[7] Cass.civ. n.18672/2019

[8] Cass.civ. 11748/2019

[9] cit. Prof. Francesco Benatti

[10] Il dovere di buona fede e l’abuso del diritto, Francesco Galgano