x

x

Danno da nascita indesiderata e danno da omessa informazione delle malformazioni fetali

danno da nascita indesiderata
danno da nascita indesiderata

Danno da nascita indesiderata e danno da omessa informazione delle malformazioni fetali

Abstract

L’ordinamento italiano non riconosce un diritto ad abortire, ma ammette il diritto ad una procreazione cosciente e responsabile. Qualora leso, tale diritto merita di essere risarcito e la giurisprudenza ha elaborato l’apposita figura del “danno da nascita indesiderata”, di cui risulta particolarmente discusso il profilo del riparto dell’onere probatorio. La Cassazione ha di recente affermato che tale danno è distinto da quello da “omessa informazione delle malformazioni fetali”.

Abstract

The Italian legal system does not recognize a right to abortion, but admits the right to conscious and responsible procreation. In case of infringement, this right deserves to be compensated and the jurisprudence has developed the specific figure of “wrongful birth damage”, of which the profile of the distribution of the burden of proof is mainly discussed. The Italian Supreme Court has recently stated that this damage is distinct from that of “omitted information on foetal malformations”.

Indice

La non configurabilità di un “diritto all’aborto”

Il feto non è un soggetto di diritto

Il danno da nascita indesiderata

I presupposti del danno da nascita indesiderata

Il danno da nascita indesiderata è differente dal danno da omessa informazione delle malformazioni del feto

 

La non configurabilità di un “diritto all’aborto”


A seguito della pubblicazione della sentenza Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization della Corte Suprema degli Stati Uniti, con la quale è stata esclusa la rilevanza costituzionale del diritto all’aborto, il tema della liceità della scelta abortiva è tornato al centro del dibattito pubblico.

A ben vedere, neppure l’ordinamento italiano riconosce un vero e proprio “diritto all’aborto”: l’art. 1, legge 22 maggio 1978, n. 194 prevede espressamente che «lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio». Con questa espressione pregna di significati, il legislatore non riconosce un vero e proprio “diritto ad abortire” azionabile tout court, ma, garantendo il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, ammette la libertà di scelta dei singoli, esercitabile solo con consapevolezza e in presenza dei presupposti previsti dalla legge.

Neppure la Corte Costituzionale ha mai dato copertura costituzionale ad un “diritto all’aborto” lato sensu inteso. Lo stesso può dirsi con riferimento alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani, la quale nel caso A, B e C c. Irlanda nel 2010 ha escluso che all’interno dell’art. 8 della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo possa essere individuato un “diritto all’aborto”, dovendosi escludere che il diritto alla vita privata e familiare riguardi anche l’embrione.
 

Il feto non è un soggetto di diritto

Posto che ex art. 1 codice civile la capacità giuridica si acquista al momento della nascita, il feto non può essere considerato soggetto di diritto e, di conseguenza, non può essergli riconosciuta alcuna tutela giuridica. Non può, quindi, darsi luogo ad alcun bilanciamento tra gli interessi della gestante e quelli del feto, non dovendosi ritenere il feto titolare di alcun interesse giuridicamente rilevante. Tanto emerge anche avendo riguardo al dettato del già ricordato art. 1, l. 22 maggio 1978, n. 194, laddove si precisa che lo Stato «tutela la vita umana dal suo inizio», escludendosi che possa esservi una tutela della vita umana anche prima che questa esista. Una simile affermazione non rileva solo da un punto di vista squisitamente teorico, ma ha seri risvolti sul piano pratico: la tutela della donna deve prevalere rispetto a quella del feto, sotto una pluralità di aspetti. In questo senso, tra l’altro, non possono essere imposti alla donna comportamenti contrari alla salute del feto, né questa può essere costretta a portare a termine una gravidanza contro la sua volontà.
 

Il danno da nascita indesiderata

La donna è libera di scegliere se portare a termine una gravidanza ovvero di interromperla volontariamente, entro i limiti fissati dalla legge. Qualsiasi comportamento lesivo di tale diritto può essere considerato un fatto illecito, fonte di un danno risarcibile.

Partendo da questo assunto, la giurisprudenza ha nel tempo elaborato la figura del “danno da nascita indesiderata”, individuandone due differenti ipotesi:

  1. non corretta esecuzione di un atto medico volto all’interruzione volontaria di gravidanza;
  2. erronea o omessa informazione relativa allo stato di salute del feto.

Nel primo caso la nascita avviene contro la volontà della madre, mentre nel secondo caso avviene secondo una volontà viziata della madre, la quale avrebbe scelto di non portare a termine la gravidanza qualora avesse tempestivamente conosciuto le malformazioni del feto.
 

I presupposti del danno da nascita indesiderata

Affinché possa essere risarcito il “danno da nascita indesiderata” è necessario che sussistano alcuni presupposti.

In primo luogo, deve sussistere una colpa del sanitario, che può consistere sia in una condotta attiva (negligente esecuzione dell’intervento di interruzione volontaria di gravidanza), sia in una condotta omissiva (non corretta informazione circa lo stato di salute del feto) e deve essere valutata in relazione alle linee guida del settore di riferimento condivise al tempo dell’intervento. Inoltre, la colpa del medico è sempre presunta, non essendo la donna chiamata a provare la condotta negligente, imprudente o imperita, ma essendo questo tenuto a dimostrare di aver tenuto una condotta diligente per liberarsi dalla responsabilità.

In secondo luogo, la nascita deve essere indesiderata, ossia, come già affermato, contro la volontà della donna o derivante da una volontà viziata della stessa. Questo presupposto è certamente quello che comporta il più difficoltoso onere probatorio, soprattutto, nella seconda ipotesi. Nel caso di non corretta esecuzione dell’atto medico di interruzione volontaria della gravidanza non è particolarmente difficile dimostrare che la donna non avrebbe voluto portare a termine la gravidanza; le maggiori difficoltà probatorie si presentano nel caso in cui la donna non avrebbe scelto di portare a termine la gravidanza qualora avesse conosciuto lo stato di salute del feto (Cass. civ., Sezioni Unite, 22 dicembre 2015, n. 25767).

Segue: la prova del nesso causale tra nascita indesiderata e deficit informativo

Nella seconda ipotesi è fondamentale l’accertamento del nesso causale tra nascita indesiderata e deficit informativo.

La violazione del diritto all’autodeterminazione della donna risiede nel fatto che questa, a causa dell’omessa diagnosi, non ha potuto esercitare il proprio diritto ad una procreazione cosciente e responsabile, scegliendo, eventualmente, di procedere con l’interruzione volontaria della gravidanza. Di conseguenza, per poter chiedere e ottenere il risarcimento del danno deve essere dimostrata la volontà abortiva della donna, la quale deve essere indagata ex ante, per mezzo di un giudizio di prognosi postuma, di indubbia difficoltà concreta. Alla donna spetterà, quindi, l’onere di provare:

  • la sussistenza dei requisiti previsti dalla l. 22 maggio 1978, n. 194 per poter legalmente effettuare un’interruzione volontaria di gravidanza;
  • il fatto che la stessa avrebbe scelto di interrompere la gravidanza qualora avesse conosciuto le condizioni del feto.

Se la prova della sussistenza dei presupposti di legge per il lecito esercizio dell’interruzione volontaria di gravidanza può essere tendenzialmente semplice, particolarmente difficoltosa appare la prova del secondo dei considerati elementi, ossia la “volontà abortiva”.

A tal fine la giurisprudenza ha più volte ribadito la necessità di ricorrere a una prova presuntiva ex art. 2729 c.c., ossia di ricercare circostanze idonee a dimostrare la volontà della donna, in applicazione della regola del “più probabile che non”. Il giudice può utilizzare anche circostanze contingenti, risultanti dagli atti istruttori, quali il ricorso ad un consulto medico specialistico per conoscere anticipatamente lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni fisiche o psichiche della donna o le sue pregresse manifestazioni di pensiero, espressione di una propensione a effettuare la scelta di interrompere volontariamente una gravidanza nel caso in cui il feto presenti malformazioni.

Sul medico grava la prova contraria, ossia questi ha l’onere di dimostrare che la donna non avrebbe fatto ricorso a un’interruzione volontaria di gravidanza nel caso in cui avesse conosciuto in tempo utile le malformazioni del feto. Si tratta, evidentemente, di un onere probatorio particolarmente gravoso, in quanto al medico spetterebbe dare prova di un elemento riconducibile al foro interno della paziente, relativo a scelte totalmente personali. Anche in quel caso, sarà strettamente necessario fare ricorso alla prova presuntiva.

Segue: l’onere della prova in caso di interruzione volontaria di gravidanza dopo i primi 90 giorni

Ancora con riferimento al riparto dell’onere probatorio è necessario prendere in considerazione un altro elemento degno di nota. L’art. 6, l. 22 maggio 1978, n. 194 riconosce la possibilità di eseguire un’interruzione volontaria di gravidanza anche oltre il termine di 90 giorni fissato dall’art. 4, purché ci si trovi in presenza di almeno una delle due situazioni contemplate dalla norma, ossia:

  • quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
  • quando siano accertati processi patologici, tra i quali quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

Se con riferimento al primo dei due presupposti non si pongono particolari problemi probatori, essendo medicalmente accertabili gravi pericoli per la salute della donna, più discusso è il secondo dei presupposti.

Il legislatore non ha – volutamente – predeterminato quali siano le rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro che possono determinare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. La questione è particolarmente rilevante, poiché dalla sua soluzione discende la possibilità o meno per la donna di procedere all’interruzione volontaria di gravidanza e può risultare particolarmente controversa, poiché riguarda elementi valutativi che richiedono una particolare sensibilità da parte del giudice chiamato a decidere il caso concreto.

Recentemente la Cassazione ha escluso che la mancanza di una mano del nascituro possa determinare un danno alla salute della donna (Cass. civ., sez. III, 11 aprile 2017, n. 9251), ma tale danno è stato ammesso nel caso di un feto che sarebbe nato senza entrambi gli arti superiori (Cass. civ., sez. III, 31 ottobre 2017, n. 25849). In simili casi spetterà al giudice di merito valutare le circostanze del caso concreto, tenendo in particolare considerazione la sensibilità della madre, alla quale spetterà dimostrare che lo stato di salute del nato avrebbe potuto cagionarle malattie fisiche o psichiche.


Il danno da nascita indesiderata è differente dal danno da omessa informazione delle malformazioni del feto

Un’ulteriore questione di indubbia rilevanza riguarda la precisa individuazione delle voci risarcitorie che rientrano all’interno del “danno da nascita indesiderata”.

Si discute, in particolare, se l’omessa informazione circa lo stato di salute del nascituro possa costituire un’autonoma voce di danno.

Sul punto è intervenuta una recente sentenza della Cassazione (Cass. civ., sez. III, 25 giugno 2019, n. 16892), la quale ha affermato che la violazione del diritto ad essere informati è una violazione altra e diversa da quella della non corretta esecuzione di una prestazione medica dalla quale possono derivare specifiche conseguenze.

La Cassazione critica le pronunce dei giudici di merito laddove non hanno valutato espressamente il danno derivante dall’omessa informazione, che i ricorrenti avevano qualificato come l’impossibilità di «prepararsi psicologicamente e, se del caso, anche materialmente all’arrivo di un figlio menomato», ammettendo, di conseguenza, che il danno da omessa informazione possa costituire una specifica voce di danno all’interno di quello che viene genericamente definito come “danno da nascita indesiderata”. In presenza di un cumulo tra le due voci risarcitorie, spetterà al giudice di merito prestare particolare attenzione al quantum risarcitorio, al fine di evitare indebite duplicazioni risarcitorie.

Accogliendo la ricostruzione effettuata dalla Corte di Cassazione, è possibile affermare che il danno da omessa informazione delle malformazioni fetali potrebbe essere azionato anche in via autonoma rispetto al “danno da nascita indesiderata”. Questo potrebbe avvenire, ad esempio, nel caso in cui la gestante, anche se avesse conosciuto tempestivamente le malformazioni del feto, avrebbe comunque scelto di portare a termine la gravidanza. In tal caso, l’omessa informazione non avrebbe leso il suo diritto di scegliere se interrompere la gravidanza, ma il suo diritto a conoscere anticipatamente lo stato di salute del feto, al fine di prepararsi, materialmente e psicologicamente, ad accogliere il nuovo nato con tutte gli accorgimenti necessari per rispondere alle problematiche delle quali questo è portatore.

L’onere probatorio per il “danno da mancata informazione delle malformazioni fetali” è differente da quello del “danno da nascita indesiderata”.

In accordo con quanto previsto dalla legge 8 marzo 2017, n. 24 (meglio nota come “Legge Gelli-Bianco”), la donna che agisce nei confronti della struttura sanitaria per il risarcimento del danno derivante dalla lesione del diritto ad essere informata delle malformazioni del feto può limitarsi ad allegare l’inadempimento del medico; spetterà poi alla struttura sanitaria, in quanto soggetto debitore della prestazione, dimostrare il proprio adempimento, ossia dare prova del fatto che il medico aveva correttamente e adeguatamente informato la donna in merito allo stato di salute del nascituro.

Se la donna agisce contro il medico, nei confronti del quale sorge una responsabilità di tipo extracontrattuale, deve provare la violazione da parte dello stesso dell’obbligo di diagnosticare la malformazione del feto e di informarla di tutte le anomalie riscontrate. Non potendosi considerare tale danno in re ipsa, spetterà alla donna la prova del nesso causale tra omissione del medico e lesione del suo diritto a predisporre tutti gli accorgimenti necessari per accogliere adeguatamente il nuovo nato.

In ultima analisi, è necessario chiarire che tale voce di danno non deve essere confusa con la lesione del diritto al consenso informato, corollario del fondamentale diritto alla salute, in forza del quale il paziente deve essere correttamente informato dell’atto medico al quale egli stessi necessita di sottoporsi e delle conseguenze, certe o eventuali, che potrebbe subire, affinché possa liberamente e consapevolmente scegliere per la propria salute.