Dà della “sgallettata” alla giornalista: condannata per diffamazione
Indice:
1. Il caso in esame
2. La decisione della Suprema Corte
È diffamazione utilizzare espressioni che si concretizzino in gratuiti attacchi alla persona e in arbitrarie aggressioni al patrimonio morale della stessa. Applicando tale principio di diritto, la Corte di Cassazione, con sentenza 20 aprile 2020, n. 12460, ha confermato la condanna inflitta ad una blogger per aver apostrofato una giornalista, rivolgendosi alla stessa con l’appellativo di “sgallettata”.
1. Il caso in esame
La pronuncia trae origine dal ricorso proposto da una blogger, condannata dai giudici di merito per il reato di diffamazione aggravata in quanto, nel commentare sul suo blog un articolo apparso su un quotidiano online, riportante notizie non corrette, aveva definito l’autrice dell’articolo come “una giornalista sgallettata con la fissa dello scoop”.
Per quanto di interesse in questa sede, la ricorrente aveva lamentato violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla valutazione dell’esistenza dell’elemento oggettivo del reato di diffamazione, sostenendo che la Corte territoriale avesse “omesso di esaminare la qualificazione di “sgallettata” […] nel contesto complessivo dell’articolo a sua firma”, e in relazione al diniego di riconoscimento della scriminante dell’esercizio di un diritto, in particolare quello di critica, ex articolo 51 Codice Penale.
2. La decisione della Suprema Corte
Per quanto concerne la valutazione dell’esistenza dell’elemento oggettivo, la Corte di Cassazione, confermando quanto sostenuto nella sentenza impugnata, ha affermato che l’imputata, con il qualificare la persona offesa come “una giornalista sgallettata con la fissa dello scoop”, espressione peraltro utilizzata sia nel testo che nel titolo dell’articolo, aveva inteso sminuirne e ridicolizzarne le qualità professionali e la dignità di giornalista donna.
L’espressione “sgallettata”, alludente ad una “donna che ostenta la propria sensualità in modo sguaiato; che si dimostra eccessivamente disinvolta”, secondo la definizione che ne dà il “Dizionario della lingua italiana De Mauro” citata dalla Corte territoriale e dagli stessi giudici di legittimità nella sentenza qui commentata, accostata al sintagma “con la fissa dello scoop”, secondo la Suprema Corte lascerebbe emergere “la gratuita attribuzione alla persona offesa di qualità dispregiative atte a metterne in cattiva luce sia il profilo professionale che umano”.
Di qui, l’integrazione, e la corretta contestazione secondo la Suprema Corte, del reato di diffamazione, il cui elemento oggettivo consiste nell’uso di espressioni che si traducano “in gratuiti attacchi alla persona ed in arbitrarie aggressioni al suo patrimonio morale, anche mediante l’utilizzo di argumenta ad hominem”, strategia di retorica che consiste nell’aggredire la persona che propone una certa tesi, piuttosto che la tesi stessa.
Relativamente al diniego di riconoscimento della scriminante dell’esercizio del diritto di critica, la Cassazione ha affermato che la causa di giustificazione in parola non può trovare applicazione quando “l’espressione utilizzata consista non già in un dissenso motivato, manifestato in termini misurati e necessari, bensì in un attacco personale, con espressioni direttamente calibrate a ledere la dignità morale, professionale ed intellettuale dell’avversario”, costituendo il rispetto della dignità altrui un limite immanente all’esercizio del diritto di critica.
Per tali ragioni, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto, confermando la sentenza impugnata e condannando la ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione di quelle sostenute dalla parte civile costituita in giudizio.