Furto d’identità: no alla diffamazione senza denuncia

Corte di Cassazione , Sezione Quinta Penale, sentenza n. 40309 del 22.06.2022
Furto d’identità
Furto d’identità

Furto d’identità: no alla diffamazione senza denuncia

La Corte di Cassazione , Sezione Quinta Penale con sentenza n. 40309 del 22.06.2022, torna ad occuparsi della questione relativa alla configurabilità del reato di diffamazione, ai sensi dell’art. 595 cod. pen., con riferimento ai casi in cui il titolare del profilo social ometta di presentare rituale denuncia-querela perché non responsabile della pubblicazione dei contenuti diffamatori.
 

Furto d’identità: la vicenda

La vicenda giudiziaria in esame prende avvio da un ricorso avverso la decisione della Corte d’Appello di Napoli che, con riferimento al disconoscimento della condotta diffamatoria operato dal titolare di un account Facebook, aveva confermato le statuizioni del Giudice di Prime cure e dunque, aveva condannato il ricorrente ai sensi dell’art. 595 comma 3 del cod. pen., per aver pubblicato frasi diffamatorie sul predetto social network, lesive della dignità e del decoro di un ufficiale di polizia.

Il ricorrente, dunque, si rivolgeva al Supremo Consesso sostenendo che non vi fosse stata -da parte della Corte Partenopea- una attività investigativa così incisiva da eliminare qualsivoglia ragionevole dubbio sulla paternità della condotta diffamatoria e vieppiù, di non aver operato i consoni accorgimenti al fine di poter fugare ogni perplessità circa l’analisi dell’indirizzo IP da cui erano partite le gravi offese rivolte all’ufficiale di polizia.

Orbene, secondo il presunto colpevole, il Decidente aveva ritenuto apoditticamente spiegata la sua responsabilità sulla base della mancanza di una denuncia- querela che attestasse l’abusivo utilizzo del proprio profilo.


Furto d’identità: le motivazioni della Cassazione

In ordine alle censure mosse dal ricorrente, la Suprema Corte evidenzia come l’omessa denuncia di “furto di identità”, da parte dell’intestatario della bacheca su cui era stato pubblicato il post incriminato potesse costituire un valido elemento indiziario (ex multis Cass. nn. 4239/2021; 45339/2018; 8328/2015) e dunque, a nulla valessero le rimostranze del ricorrente che sottolineava come non vi fosse un chiaro intento diffamatorio negli epiteti adoperati a danno della persona offesa.

Inoltre, emerge con lapalissiana evidenza- secondo la Corte di Cassazione- l’insufficienza delle motivazioni addotte dal ricorrente per “scagionarsi” atteso che lo stesso si limitava sic et simpliciter a disconoscere la paternità delle predette affermazioni, senza apportare alcun concreto intervento utile a dimostrare la propria estraneità ai fatti oggetto di causa.