Art. 595 - Diffamazione
1. Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032 (1).
2. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065 (1).
3. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516 (1).
4. Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.
(1) Multa così aumentata dall’art. 113 della L. 689/1981.
Rassegna di giurisprudenza
In generale
In materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare la frase che si assume lesiva della altrui reputazione perché è compito del giudice di legittimità procedere, in primo luogo, a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell'imputato (Sez. 5, 22119/2022).
In tema di diffamazione a mezzo stampa, il significato delle parole dipende dall’uso che se ne fa e dal contesto comunicativo in cui si inseriscono (Sez. 5, 6062/1995).
Il delitto di diffamazione è integrato da comportamenti comunicativi di apprezzamenti negativi sul conto di altri, che si dirigano più che sull’azione censurata, sulla figura morale stessa della persona da cui l’azione promana; ciò in quanto i detti apprezzamenti – pur se espressi in forma allusiva o dubitativa –, traducendosi in un attacco personale sul piano individuale, risultano dotati di un’intrinseca valenza mortificatrice del patrimonio di valori spirituali e intellettuali della persona, e, perciò, travalicano ogni ammissibile facoltà di critica (Sez. 5, 6758/2009).
Integra il reato di diffamazione a mezzo stampa la condotta del giornalista che, in un articolo pubblicato, utilizzando insinuazioni generiche, attribuisce alla persona offesa la commissione di fatti illeciti non meglio specificati e privi di qualsiasi riferimento determinato, in maniera idonea ad ingenerare nel lettore medio la convinzione che il soggetto diffamato si sia reso autore di una qualsiasi condotta connotata da illiceità (Sez. 5, 4298/2016).
Anche le accuse generiche – anzi, proprio perché tali – sono idonee a ledere il prestigio e la reputazione di una persona, allorché venga alla stessa imputata la violazione delle regole della convivenza, ovvero di quelle che regolano l’esercizio della professione, dal momento che, in tal modo, viene insinuato il sospetto che si tratti di persona scorretta, e perciò inaffidabile. Non è in discussione, quindi, il diritto di criticare il legale di controparte ed anche di denunciare le scorrettezze da questi poste in essere, quando ciò sia funzionale alla tutela di un proprio diritto; ciò che non è consentito è farlo gratuitamente o genericamente. La gratuità dell’attribuzione lede, infatti, sic et simpliciter, la reputazione. La genericità delle accuse può essere, essa stessa, segno della gratuità delle attribuzioni, allorché non dipenda dalla remora a rivelare fatti disdicevoli, di cui il denunciante intenda riservare la propalazione. In tal caso il giudice non può esimersi dall’indagare le ragioni della critica (sia pur generica) mossa al diffamato – sulla scorta di quanto allegato, nel processo, dal denunciante – al fine di verificare se e in che misura l’accusa di scorrettezza abbia fondamento e se essa sia funzionale alla tutela delle ragioni del denunciante (Sez. 5, 12556/2019).
In tema di diffamazione, esula dalla scriminante del diritto di critica l’accusa, rivolta ad un pubblico funzionario, di asservimento della funzione ad interessi diversi da quelli pubblici, in ragione dei doveri istituzionali connessi all’operato del pubblico agente, risolvendosi questa non nell’espressione di un dissenso, più o meno fondato e motivato, sulle scelte amministrative, ma in un attacco gratuito alla persona (Sez. 5, 7905/2019).
In materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare la frase che si assume lesiva della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e quindi della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell’imputato. Nel fare ciò non si può avere esclusivo riguardo all’astratto tenore letterale e semantico del vocabolo “sciacquetta” ma occorre valutare l’espressione nella sua concreta articolazione e nella sua complessiva portata anche alla luce del contesto in cui si inserisce (Sez. 5, 2682/2019).
La manipolazione della rappresentazione di un fatto posto a fondamento della critica, che sebbene contenga un nucleo di verità, stravolga il fatto medesimo inteso come accadimento di vita puntualmente determinato, integra parimenti il reato di diffamazione (Sez. 5, 7798/2019).
Diritti di critica e di cronaca
Il giornalista può beneficiare dell'esimente del diritto di cronaca con riferimento al contenuto delle dichiarazioni ingiuriose o diffamatorie a lui rilasciate, se riportate fedelmente ed in modo imparziale, senza commenti e chiose capziose a margine - tali da renderlo dissimulato coautore - e sempre che l'intervista presenti profili di interesse pubblico all'informazione, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti (dunque dell'intervistato, ma anche della persona offesa dalla diffamazione), al suo oggetto e al contesto delle dichiarazioni rilasciate (Sez. 5, 19889/2021).
È configurabile l'esimente putativa dell'esercizio del diritto di critica nei confronti di chi abbia la ragionevole e giustificabile convinzione della veridicità dei fatti denunciati, lesivi dell'altrui reputazione, anche se di essa non sussista certezza processuale (Sez. 5, 18689/2021).
L'esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e senza trasmodare nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione, tuttavia la stessa non vieta l'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, hanno anche il significato di mero giudizio critico negativo, del quale si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui i termini stessi vengono utilizzati: n tal senso, non integra il delitto di diffamazione la condotta di colui che invii un esposto al Consiglio dell'Ordine degli Avvocati contenente dubbi e perplessità sulla correttezza professionale del proprio legale, considerato che, in tal caso, ricorre la generale causa di giustificazione di cui all'art. 51, "sub specie" di esercizio del diritto di critica, preordinato ad ottenere il controllo di eventuali violazioni delle regole deontologiche (Sez. 5, 18689/2021).
È compatibile con il disposto dell'art. 10 CEDU l'applicazione dell'aggravante ex art. 3, comma 1, L. 205/1993 (ora art. 604-quater), in relazione al reato di cui all’art. 3, comma 1, lett. a), L. 654/1975 (ora art. 604-bis) commesso da un parlamentare mediante dichiarazioni rese nel corso di un’intervista radiofonica, volgari ed irridenti nei confronti di esponenti dell’etnia Rom, ripetutamente associati ad una condizione di illegalità condivisa, per via genetica, dall’intero popolo, configurandosi in tal caso una manifestazione d’odio funzionale alla compressione dei principi di eguaglianza e libertà rientrante nelle "ipotesi eccezionali" individuate dalla giurisprudenza della Corte EDU, in presenza delle quali si giustifica l’ingerenza statuale punitiva nei confronti della libertà di espressione (Sez. 5. 32862/2019).
Nell’ambito del cd. giornalismo di inchiesta è possibile una meno rigorosa verifica di attendibilità delle fonti, direttamente contattate dal giornalista, venendo meno in tal caso l’esigenza di valutare la veridicità della provenienza della notizia, che non è mediata dalla ricezione “passiva” di informazioni esterne ma ricercata, appunto, direttamente dall’autore del servizio che, comunque, nell’attingere la notizia deve pur sempre ispirarsi ai criteri etici e deontologici della sua attività professionale (Sez. 6, 43569/2019).
Non integra il delitto di diffamazione la condotta di chi invii una segnalazione, ancorché contenente espressioni offensive, alle competenti autorità, volta ad ottenere un intervento per rimediare ad un’illegittimità amministrativa, mediante attivazione dei poteri di autotutela, considerato che, in tal caso, ricorre la generale causa di giustificazione di cui all’art. 51, “sub specie” di esercizio del diritto di critica, anche in forma putativa, laddove l’agente abbia esercitato il diritto di critica ed assolto l’onere di deduzione di fatti nella convinzione, anche erronea, del rilievo dei medesimi ai fini richiesti (Sez. 5, 34831/2020).
La scriminante del diritto di critica non è configurabile qualora manchi il requisito della verità del fatto riferito e costituente oggetto della valutazione critica, il quale sia, pertanto, privo di riscontro nella realtà, posto che la critica si articola in due distinti momenti: l’uno, rappresentato dall’«esposizione del fatto attribuito all’uomo pubblico»; l’altro, costituito dalle «critiche che alle parole pronunciate o ai comportamenti assunti dalla persona oggetto di attenzione vengono rivolte». Donde, è certo che «il fatto che costituisce il presupposto delle espressioni critiche debba essere vero, perché non può essere assolutamente consentito attribuire ad una persona comportamenti mai tenuti o frasi mai pronunciate e poi esporlo a critica come se quelle parole e quei fatti fossero davvero a lui attribuibili»: di conseguenza, «in ordine alla verità del fatto che costituisce il presupposto della critica non è ravvisabile nessuna differenza apprezzabile tra l’esercizio del diritto di cronaca e di critica, dal momento che entrambe le esimenti richiedono la verità del fatto narrato».
Fermo restando, dunque, che «il diritto di critica si differenzia da quello di cronaca essenzialmente in quanto il primo non si concretizza, come l’altro, nella narrazione di fatti, bensì nell’espressione di un giudizio o, più genericamente, di un’opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su un’interpretazione, necessariamente soggettiva, di fatti e comportamenti», va affermato che anche con riferimento alla scriminante dell’esercizio del diritto di critica «un nucleo di veridicità è comunque esigibile, in quanto, diversamente, la critica sarebbe pura congettura e possibile occasione di dileggio e mistificazione».
Perciò, ai fini dell’operatività della scriminante, non si richiede che la critica sia formulata con riferimento a precisi dati fattuali, ma che «il nucleo ed il profilo essenziale di essi non sia stato strumentalmente travisato e manipolato»; con la conseguenza che presupposto imprescindibile per l’applicazione dell’esimente dell’esercizio del diritto di critica è, comunque, la verità del fatto storico posto a fondamento della elaborazione critica.
Nei termini indicati, peraltro, il diritto vivente è del tutto in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, espressasi di recente sul tema con la sentenza del 30/06/2015, Peruzzi/Italia (§ 48). Corrisponde, infatti, all’indicata distinzione tra fatto costituente il presupposto della critica e lo stesso giudizio critico quella operata dalla Corte di Strasburgo tra «dichiarazioni fattuali» e «giudizi di valore», nel senso che «se la materialità dei fatti si può provare, i giudizi di valore non si prestano ad alcuna dimostrazione per quanto riguarda la loro esattezza»: donde il giudice convenzionale ha affermato che la necessaria e veridicità del nucleo essenziale del fatto oggetto della critica s’impone perché, altrimenti, la stessa risulterebbe «eccessiva», ossia ingiustificabile (Sez. 5, 562/2019).
L’esercizio del diritto di critica richiede la verità del fatto attribuito e assunto a presupposto delle espressioni criticate, in quanto non può essere consentito attribuire ad un soggetto specifici comportamenti mai tenuti o espressioni mai pronunciate. Ne consegue che, limitatamente alla verità del fatto, non sussiste alcuna apprezzabile differenza tra l’esimente del diritto di critica e quella del diritto di cronaca, costituendo per entrambe presupposto di operatività della scriminante (Sez. 5, 8721/2018).
In tema di diffamazione a mezzo stampa, in tanto si può invocare l’esimente putativa del diritto di cronaca, in quanto l’agente abbia assolto l’onere di scegliere le fonti informative con grande oculatezza, esaminandone con diligenza l’attendibilità e controllando e verificando i fatti appresi. Lo stesso deve inoltre offrire la prova della cura posta negli accertamenti svolti per vincere dubbi ed incertezze prospettabili in ordine alla verità della notizia (Sez. 5, 12024/1999).
In tema di diffamazione a mezzo stampa, in tanto si può invocare l’esimente putativa del diritto di cronaca, in quanto l’agente abbia assolto l’onere di scegliere le fonti informative con grande oculatezza, esaminandone con diligenza l’attendibilità e controllando e verificando i fatti appresi. Lo stesso deve inoltre offrire la prova della cura posta negli accertamenti svolti per vincere dubbi ed incertezze prospettabili in ordine alla verità della notizia (Sez. 5, 12024/1999).
Non è possibile parlare di legittimo esercizio di diritto di critica sindacale allorquando la notizia riportata dal sindacalista si connoti come assolutamente falsa e volta solo alla denigrazione personale della persona offesa (Sez. 5, 6744/2019).
Alcune espressioni perdono la loro carica offensiva se pronunciate in un contesto politico in cui la critica assume spesso toni aspri e vibrati e che può assumere forme tanto più incisive e penetranti quanto più elevata è la posizione pubblica del destinatario. Tuttavia, neppure la critica politica può legittimare l’affievolimento del requisito della verità del fatto oggetto di critica, che sia descritto con la rappresentazione di fatti non corrispondenti al vero, in quanto oggetto di deliberata manipolazione e/o stravolgimento, fraudolentemente eseguiti allo scopo di influenzare sapientemente, in modo negativo, il giudizio dei cittadini potenziali elettori (Sez. 5, 7798/2019).
Casistica
Accusare un professionista, presso l'Organo delegato al controllo del rispetto dei canoni della deontologia professionale, di comportamenti che integrino violazioni di tali regole è un fatto astrattamente privo di antigiuridicità, venendo in rilievo l'esercizio di un diritto e, finanche, rendendosi un servigio alla categoria professionale alla quale il "denunciato" appartiene, perché la pone in grado di mettere in atto meccanismi di autotutela. Il C.O.A., infatti, è il soggetto istituzionalmente preposto a raccogliere le eventuali lamentele sull'operato di uno avvocato professionista, a cui, quindi, legittimamente inoltrare una missiva, un esposto, una segnalazione. Il ricorrente nel rivolgersi a tale organismo per segnalare quello che, a suo modo di vedere, era stato un comportamento non condiviso dell'avvocato difensore, chiedendo risposte jure suo utitur, egli ha posto in essere una condotta scriminabile ex art. 51. Naturalmente, tale discorso è valido sempre che i fatti portati a conoscenza dell'organo professionale siano veri (o, nei limiti ex art. 59, siano ritenuti tali dall'agente) (Sez. 5, 22119/2022).
Non integra il delitto di diffamazione (art. 595) la condotta di colui che invii un esposto al Consiglio dell’ordine degli avvocati contenente dubbi e perplessità sulla correttezza professionale del proprio legale, considerato che, in tal caso, ricorre la generale causa di giustificazione di cui all’art. 51, sub specie di esercizio del diritto di critica, preordinato ad ottenere il controllo di eventuali violazioni delle regole deontologiche (Sez. 5, 33994/2010).
In senso contrario: sussiste il requisito della comunicazione con più persone atto ad integrare il delitto di diffamazione nella condotta di colui che invii una lettera denigratoria al Presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati, considerato che la destinazione alla divulgazione può trovare il suo fondamento oltre che nella esplicita volontà del mittente-autore anche nella natura stessa della comunicazione, in quanto propulsiva di un determinato procedimento (giudiziario, amministrativo, disciplinare) che deve essere “ex lege” portato a conoscenza di altre persone, diverse dall’immediato destinatario, sempre che l’autore della missiva prevedesse o volesse la circostanza che il contenuto relativo sarebbe stato reso noto a terzi (Sez. 5, 23222/2011).
Il carattere diffamatorio di un articolo di stampa, il cui contenuto intrinseco sia immune da espressioni offensive, può essere circoscritto al solo titolo, anche per la sua efficacia suggestiva rispetto al testo dell’articolo, in particolare ove esso ne travisi ed amplifichi il contenuto. In tema di diffamazione a mezzo stampa, non sussiste dunque l’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca (nella specie giudiziaria) qualora il titolo dell’articolo attribuisca alla persona offesa – nei cui confronti penda un procedimento penale – una condotta sostanzialmente diversa da quella avente riscontro negli atti giudiziari e nell’oggetto dell’imputazione; né, a tal fine, rileva l’estraneità del titolo al resoconto giudiziario esposto nell’articolo, in quanto il titolo di un articolo di stampa può assumere carattere diffamatorio non solo per il suo contenuto intrinseco ma anche per la sua efficacia suggestiva rispetto al testo dell’articolo, in specie ove esso ne travisi e amplifichi il contenuto (Sez. 5, 4558/2011).
La valutazione della portata diffamatoria di un articolo, infatti, deve essere effettuata prendendone in esame l’intero contenuto, sia sotto il profilo letterale sia sotto il profilo delle modalità complessive con le quali la notizia viene data, potendo assumere significato decisivo, tra l’altro, anche l’esame del titolo (Sez. 5, 5738/2000).
L’affermazione circa la natura diffamatoria di un articolo di stampa implica la valutazione del contenuto complessivo dello stesso, anche in riferimento al titolo, soprattutto quando sia imposto dalla specificità del capo di imputazione), ed il reato di diffamazione commesso col mezzo della stampa può consistere anche nella autonoma efficacia e suggestione del titolo rispetto al testo, specie quando il titolo travisi ed amplifichi un testo veritiero (Sez. 5, 1298/1983).
Integra il reato di diffamazione a mezzo stampa la condotta dell’articolista che, selezionando fatti accaduti nel tempo reputati rilevanti per illustrare la personalità dei soggetti criticati, manipola le notizie o le rappresentata in modo incompleto, in maniera tale che, per quanto il risultato complessivo contenga un nucleo di verità, tale operazione tuttavia stravolge il fatto, inteso come accadimento di vita puntualmente determinato, riferito a soggetti specificamente individuati (Sez. 5, 36838/2016).
Non sussiste la violazione del principio di correlazione qualora, come nella fattispecie, l’imputazione si concreti nella sostituzione dell’addebito di natura dolosa di cui all’art. 595 (diffamazione) con l’addebito di natura colposa di cui all’art. 57 (omissione dell’obbligo di controllo sul contenuto del periodico), in quanto detta modifica del titolo della responsabilità non può essere ritenuta di per sé lesiva del diritto di difesa dell’imputato e non lo è in concreto qualora - ancorché si ipotizzi la responsabilità dell’imputato a titolo di concorso nel delitto di diffamazione - si faccia riferimento anche al suo ruolo di direttore del giornale, idoneo ad includere anche la responsabilità a titolo di colpa (art. 57) e, quindi, si strutturi l’addebito in modo tale da consentire la difesa anche in relazione alla fattispecie di cui all’art. 57 (Sez. 5, 46203/2004).