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L'infermità mentale dell'infrattore

infermità mentale
infermità mentale

L' infermità mentale dell'infrattore

 

Le nozioni di base

Ex comma 1 Art. 220 Cpp, “la perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche” Da citare è pure il comma 1 Art. 225 Cpp, a norma del quale “disposta la perizia, il pubblico ministero e le parti private hanno facoltà di nominare propri consulenti tecnici in numero non superiore, per ciascuna parte, a quello dei periti”. Nel solco precettivo degli Artt. 220 e 225 Cpp, s'innesta pure la perizia in materia psicopatologica. Anche sotto il profilo civilistico, la perizia psichiatrica ha il fine di accertare se l'individuo soffra di una “abituale infermità di mente”, tale per cui egli vada interdetto (Art. 414 CC), inabilitato (Art. 415 CC), oppure affiancato da un amministratore di sostegno. In terzo luogo, la perizia e le correlate consulenze tecniche vengono utilizzate, nella Procedura Civile, per accertare ed eventualmente risarcire un danno psichico permanente cagionato da un evento psicofisico traumatico doloso, colposo o accidentale.

Nel Codice Penale, la perizia psicopatologica è indispensabile pure il Procedimenti per circonvenzione di incapace e per lo stupro di soggetti con minorazioni mentali. Infatti, ex Art. 643 CP, risulta necessario che il CTU acclari lo “stato di infermità o di deficienza psichica” dell'individuo circonvenuto. Similmente, alla luce dell'Art. 609 bis CP, il Magistrato, in tema di violenza sessuale, è tenuto all'analisi dell'abuso, se sussiste, “delle condizioni di infermità fisica o psichica della persona offesa” (n. 1 comma 2 Art. 609 bis CP).

Ognimmodo, tanto nella Procedura Penale quanto in quella Civile, lo psicopatologo è chiamato a valutare la “capacità d'intendere e di volere” in chiave giuridica e non soltanto medica. Tale commistione tra Medicina e Diritto comporta che sia, successivamente, il Magistrato ad operare una libera valutazione forense dei dati raccolti dal CTU e dai consulenti di parte. Il rischio è sempre quello di “psicologizzare” il Diritto, sopravvalutando i profili sanitari. P.e., le neuroscienze, negli Anni Duemila, ipostatizzano ed universalizzano la malattia psichica, recando ad una pericolosa esaltazione dell'aspetto neuro-patologico. Esiste anche una psichiatria forense assai tracotante che sminuisce il profilo giuridico. Inoltre, perlomeno nella mentalità nazional-popolare, si è soliti associare sempre e comunque la malattia mentale alla commissione di delitti estremamente violenti. Viceversa, la Criminologia contemporanea ha, finalmente, negato il sinallagma lombrosiano tra criminalità violenta e deficienza psichica. L'anormalità psicologica non è automaticamente connessa alla delittuosità ed all'aggressività etero-lesiva. Grazie alla Riforma di Basaglia, la psicopatologia forense è giunta a negare la presunta, maggiore pericolosità fisica e criminologica del soggetto affetto da disturbi mentali.

La sussistenza, o meno, ed il grado della “imputabilità” sono regolati, nell'Ordinamento italiano, dagli Artt. 85, 88 ed 89 CP. Ex Art. 85 CP, “nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile (comma 1). E' imputabile chi ha la capacità d'intendere e di volere (comma 2)”. A sua volta, l' Art. 88 CP, in tema di vizio totale di mente, asserisce che “non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità d'intendere o di volere”. Correlatamente, con afferenza alla fattispecie intermedia del vizio “parziale” di mente, l'Art. 89 CP dispone che “chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d'intendere o di volere, risponde del reato commesso, ma la pena è diminuita”. E' indispensabile notare che, negli Artt. 88 ed 89 CP, si utilizza l'espressione disgiuntiva “capacità d'intendere o di volere”, dunque la “non imputabilità” o la “non piena imputabilità” può derivare dalla mancanza anche del solo “intendimento” o della sola “volontà”.

In maniera assai pertinente, la priorità del Diritto sulla Medicina, negli Artt. 85, 88 ed 89 CP, è ribadita pure da Bandini (1989)[1], a parere del quale “il dettato legislativo configura l'imputabilità come una costruzione a due piani, il cui primo livello è relativo al substrato psicologico (l'infermità), mentre il secondo livello è relativo all'eventuale, conseguente incapacità d'intendere o di volere. La valutazione dell'imputabilità prende, quindi, in considerazione, nel contempo, un aspetto psicologico ed oggettivo (la descrizione del substrato psicologico) ed un aspetto normativo (la valutazione della capacità d'intendere o di volere al momento del reato)”. Come si può notare, pure Bandini (ibidem)[2] nega che il CTU e le neuroscienze possano o, peggio, debbano sostituirsi al Magistrato. La valutazione degli Artt. 85, 88 ed 89 CP è e rimane, anzitutto e soprattutto, una qualificazione giuridica dei fatti. Tutti i Dottrinari, nella Criminologia degli Anni Duemila, mettono in guardia da una psichiatria onnipotente ed onnipresente che lede il livello dell'interpretazione “puramente” giuridica. Quindi, viene fatta salva l'indipendenza epistemologica del Diritto.

Un altro passaggio alquanto importante è dato dall'inciso “nel momento in cui ha commesso il fatto”. Tale espressione sta ad indicare che non è sufficiente, ex Artt. 88 ed 89 CP, la presenza di una malattia o deficienza mentale, bensì è necessario che tale patologia, sotto il profilo del contesto eziologico, abbia cagionato il fatto delittuoso. In buona sostanza, l'incapacità deve possedere una connessione causale con il reato; viceversa, la capacità d'intendere o di volere rimane intatta. A tal proposito, Sezioni Unite 9163/2005 ha precisato che “è necessario che, tra il disturbo mentale ed il fatto di reato, sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo”. Pertanto, gli Artt. 88 ed 89 CP, grazie all'inciso “nel momento in cui ha commesso il fatto” negano che l'infermità o la seminfermità costituiscano tratti perenni della condotta del reo. Nel Diritto Penale, non conta la malattia tout court, bensì la criminogenesi provocata dalla malattia medesima. Dunque, pure Sezioni Unite 9163/2005 nega il mito lombrosiano del pazzoide costantemente incline alla delittuosità violenta, poiché è necessario anche, anzi soprattutto, che la deficienza abbia “attivato” l'atto delittuoso in uno specifico lasso temporale. Il grande merito di Sezioni Unite 9163/2005 è quello di imporre al Magistrato del merito una scrupolosa “contestualizzazione” della patologia psichica, la quale, di per sé, potrebbe anche risultare penalmente irrilevante, qualora non abbia determinato volontà etero-lesive.

La causalità e la precettività non indipendente degli Artt. 88 ed 89 CP è rimarcata pure da Merzagora (2009)[3], ovverosia “l'aver riguardo anche del rapporto tra le caratteristiche dell'infermità e quelle del reato commesso è conseguenza logica del sistema a due livelli: se, infatti, vi è necessità di un duplice accertamento dell'infermità e della sua incidenza sulla capacità d'intendere o di volere, è proprio perché occorre un'indagine crimino-genetica e crimino-dinamica che correli la patologia alla capacità, relativamente ad uno specifico comportamento”. In Merzagora (ibidem)[4] l'espressione “relativamente ad uno specifico comportamento” sta a significare che, sotto il profilo giuridico, non conta una incapacità “perenne”, ma un'incapacità “nel momento in cui [il reo] ha commesso il fatto”. Per conseguenza, altri episodi delittuosi passati non recano, necessariamente ed automaticamente, alla vigenza degli Artt. 88 ed 89 CP. Al limite, gli antefatti servono al CTU per contestualizzare una personalità borderline e disturbata, ma ciò che conta è la capacità di autodeterminarsi nel momento di commissione di quel determinato reato. Nuovamente, dunque, il Diritto Penale, anche nelle fattispecie ex Artt. 88 ed 89 CP, si dimostra bisognoso della ratio della “contestualizzazione”. L'infrazione giuridica è limitata ad uno “specifico” ambito spazio-temporale, pur se è vero che eventuali precedenti condotte sono utili al fine di valutare l'intera personalità dell'infrattore psichicamente instabile.

La “contestualizzazione” giudiziale è necessaria anche in Manacorda (2003)[5], in tanto in quanto “l'esigenza del nesso causale e l'evitamento di qualsiasi automatismo tra diagnosi e conclusione peritale è necessaria […]. Un soggetto -poniamo- schizofrenico non è detto che agisca sempre e comunque in maniera schizofrenica; e, viceversa, nel caso di un soggetto psicotico con delirio lucido, cronico e sistematizzato che borseggi un passante, bisognerà valutare se quello che appariva a noi come un semplice passante non era per caso, per il soggetto con psicosi, una persona in qualche modo conglobata nel suo delirio, magari un suo presunto persecutore e, dunque, in tal caso, il borseggio trovava alla sua base motivazioni psicopatologiche”. Come si nota, anche Manacorda (ibidem)[6] respinge l'idea semplicistica di un Magistrato del merito ridotto ad un semplice calcolatore elettronico. Ogni variabile del fatto illecito va inserita in un ben preciso contesto giuridico e comportamentale. Gli Artt. 88 ed 89 CP non costituiscono per nulla norme ad applicazione automatica, poiché il Diritto Penale richiama sempre alla fattualità e non alla formalità. Manacorda (ibidem)[7] ha inteso ricordare all'interprete quella necessità di “concretizzazione” propria della Giuspenalistica e, viceversa, assente all'interno degli automatismi della Procedura Civile.

D'altra parte, anche la ratio rieducativa ex comma 3 Art. 27 Cost. non può tollerare interpretazioni generiche e sbrigative afferenti alla delicata nozione di “capacità d'intendere o di volere”. Inoltre, il nesso tra, da un lato, gli Artt. 88 ed 89 CP e, dall'altro lato, l'Art. 13 Cost. non consente di “automatizzare” le modalità ed il grado della privazione del bene basilare della libertà personale; ossia, contestualizzare eziologicamente gli Artt. 88 ed 89 CP significa tutelare lo svolgimento equo e democratico del Procedimento Penale. Anzi, il predetto Dottrinario, nel proprio manuale del 2003, specifica che non sempre e non necessariamente una perizia psichiatrica deve concludersi con una diagnosi di infermità/seminfermità psichica. E' forse da contestare radicalmente e vigorosamente quella parte delle neuroscienze che ipotizza sempre e comunque una deficienza psicologica. La Rems non è la risposta universale alla criminalità. Similmente, Carrieri & Catanesi (2001)[8] invitano anch'essi a plasmare il lavoro peritale calandolo nello specifico contesto criminoso da valutare; p.e., “non deve stupire che uno stesso soggetto, con una medesima diagnosi, possa essere considerato imputabile per un reato e non per un altro, commesso in un diverso momento, ma, soprattutto, sostenuto da una diversa motivazione”. Ecco, pertanto, che Carrieri & Catanesi (ibidem)[9] ricordano la non casualità e la non ridondanza, negli Artt. 85, 88 ed 89 CP, del fondamentale inciso “[...] nel momento in cui ha commesso il fatto [...]”. Ciò significa, in ultima analisi, che l'infrazione penale non è mai astrattamente e teoricamente avulsa da uno specifico contesto, definito da Merzagora (ibidem)[10] “crimino-genetico e crimino-dinamico”. L'atto criminale non è una verità assoluta. Perciò, spetta al Magistrato del merito il compito di “fattualizzare” la normativa, pure nella fattispecie degli Artt. 85, 88 ed 89 CP. Ogni reato reca una soggettività crimino-genetica e, di conseguenza, può darsi che il deficit psicopatologico non sia perenne e, dunque, non vada ad inficiare qualunque condotta illecita del soggetto agente. La malattia mentale, specialmente nella fattispecie della sola seminfermità, non sempre conduce ad una disabilità perenne e totalizzante. Dunque, Carrieri & Catanesi (ibidem)[11] invitano il giurista e lo psicopatologo forense ad affrancarsi dalla distorta immagine lombrosiana del “folle” costantemente privo di lucidità.

La malattia mentale, anche negli Artt. 88 ed 89 CP, non è né perenne né insanabile; viceversa, si commetterebbe l'errore di sganciare la tematica dell'infermità dalla clausola rieducativa suprema imposta dal comma 3 Art. 27 Cost. . Lombroso e Ferri, purtroppo, hanno abituato ad una visione assolutizzante dello psicopatico, che, però, tale potrebbe non essere “ nel momento in cui ha commesso il fatto”. Merzagora (ibidem)[12] precisa, infatti, che “se occorre rapportare l'esistenza dell'incapacità d'intendere o di volere non solo ad un criterio cronologico, ma anche ad un criterio di relazione con il fatto specifico, se non basta la presenza di una qualsivoglia, per quanto grave, infermità al momento del fatto, ma l'infermità deve presentare caratteristiche tali da aver partecipato alla genesi ed alla dinamica di quel particolare reato, questo significa operare un'indagine di crimino-genesi e di crimino-dinamica”. A parere di chi redige, i preziosi asserti di Merzagora (ibidem)[13] nonché di Carrieri & Catanesi (ibidem)[14] aiutano a non negare, nell'ambito degli Artt. 88 ed 89 CP, la piena ed intatta precettività della ratio riabilitativa ex comma 3 Art. 27 Cost. . In altre parole, anche l'infermo ed il seminfermo possono ricevere un percorso di rieducazione, sebbene quest'ultima sia affiancata pure da cure psicoterapeutiche e farmacologiche.

Merzagora (ibidem)[15] parla di “crimino-dinamica” e, per conseguenza, rifiuta lo stereotipo novecentesco del “criminale pazzo” irrecuperabile ed illimitatamente etero-lesivo. Anche Basaglia, negli Anni Settanta del Novecento,  ha recuperato, seppur implicitamente, il nesso tra, da una parte, gli Artt. 88 ed 89 CP e, dall'altra parte, il principio della rieducazione dell'infrattore penale. Se “dinamica” è stata la crimino-genesi, altrettanto “dinamica” potrà essere la rimozione o, perlomeno, la cura del vizio mentale che è stato alla base della crimino-genesi. All'opposto, l'interpretazione assolutistica ed oltranzistica di Lombroso e Ferri è manifestamente contraria ai valori della democraticità e della proporzionalità della pena. Si può affermare che gli Autori contemporanei recano una visione plastica del cervello umano, mentre, nei primi del Novecento, prevaleva un'erronea prospettiva “crimino-statica”, che contraddice il principio della recuperabilità pedagogica dell'infrattore, anche se infermo/seminfermo “[solo, ndr] nel momento in cui ha commesso il fatto” ex Artt. 85, 88 ed 89 CP.
 

Le regole fondamentali della perizia psichiatrica: l'esempio della cleptomania

La cleptomania è una fattispecie che si colloca a metà strada tra la malattia ed il reato. Si tratta, dunque, di un'azione o, meglio, di una serie di azioni che mettono a dura prova il CTU nell'applicazione corretta degli Artt. 85, 88 ed 89 CP.  Oltretutto, come riferito da Merzagora (ibidem)[16], i cleptomani non sanno indicare, con la debita precisione auto-coscienziale, il motivo della loro condotta “e già l'assenza di una motivazione razionale è un elemento degno di attenzione in ambito criminologico […]. [Di solito] la cleptomania è fortemente irrazionale e contraria a qualsiasi valutazione costi/benefici. Il cleptomane sa bene di rischiare, quantomeno in termini di buon nome, […] e poi anche di andare incontro all'esperienza del carcere, se reitera il comportamento criminoso […]. Ciò non di meno, il soggetto non è in grado di resistere a quello che va definito [nella psicopatologia forense] come un irresistibile impulso”.

Secondo Ferrio (1959)[17] il cleptomane non è o non è del tutto capace d'intendere e di volere, in tanto in quanto “la cleptomania, o furto patologico, indica la tendenza a rubare ripetutamente per motivi inconsci. Essa è dovuta ad un irresistibile impulso interiore […]. E' una tendenza al furto contro il volere del soggetto, che non può resistere all'impulso ossessivo […]: Costituisce, in ultima analisi, un disturbo della volontà ed incide sull'imputabilità [ex Artt. 88 od 89 CP]. Il furto è commesso in uno stato di tensione ansiosa”. Tale “disturbo della volontà” è presente anche nella fattispecie della “asfissia autoerotica”, in cui il soggetto consuma “in uno stato di tensione ansiosa” molta pornografia e si abbandona ad un onanismo esasperato.

Simile è pure la qualificazione effettuata dal DSM-V (American Psychiatric Association, 2013[18]) secondo cui “la cleptomania è fra i disturbi del comportamento dirompente, del controllo degli impulsi e della condotta […] La diagnosi deve riscontrare i seguenti criteri:

a.   ricorrente incapacità di resistere all'impulso di rubare oggetti di cui non c'è bisogno per        l'uso personale o per il loro valore economico

b.   crescente sensazione di tensione immediatamente prima di commettere il furt

c. piacere, gratificazione o sollievo nel momento in cui il furto viene commesso”

Di nuovo, il DSM-V, nell'incasellare la cleptomania tra i “disturbi dirompenti” della volontà, non soltanto apre la strada alla potenziale precettività degli Artt. 88 ed 89 CP, ma avvicina anche la condotta qui in parola ai “disturbi sessuali irrefrenabili” dell'asfissia autoerotica e dello stupro seriale o privo di razionale spiegazione.

Nella Criminologia degli Anni Duemila, la cleptomania, anche alla luce del DSM-V, reca le seguenti caratteristiche tipiche:

  1. è un comportamento prevalentemente femminile
     
  2. riguarda beni non di prima necessità
     
  3. è solitamente commesso senza correi
     
  4. è consumato in supermercati di notevoli dimensioni e meno in piccole botteghe
     
  5. cagiona nella cleptomane un senso di colpa unito alla ricerca di una punizione alternativa alla restituzione degli oggetti

Una spiegazione in chiave psicanalitica della cleptomania è stata proposta da Cuman & Fontana & Merzagora Betsos (2002)[19], ovverosia “la cleptomania trova alimento da deprivazioni affettive in età precoce. L'atto del rubare è comprensibile in termini di compensazione: essendo le prime soddisfazioni libidinali di carattere orale, in quanto dovute all'esaudimento di un desiderio di cibo (dal seno materno), esse rappresentano una sorta di pegno dell'amore della Madre; se questo amore è sentito come carente, l'atto del rubare diviene, inconsciamente, un'azione rivolta a compensare la mancanza, impossessandosi del simbolo (cibo o denaro per procurarselo) equivalente all'affetto ricercato. La spiegazione psicanalitica coniuga colpa e deprivazione affettiva […] e i cleptomani possono diventare dei delinquenti per senso di colpa, in conseguenza dei loro furti: sono spinti a rubare dal sentimento di non essere stati sufficientemente amati, ciò, però, non evita il senso di colpa per il furto, che -in una spirale perversa- li spinge a continuare a rubare”

Pure Merzagora Betsos (ibidem)[20] ammette che il cleptomane trasformi l'oggetto rubato nell'affetto mai avuto dalla propria Madre, poiché “la deprivazione affettiva è un modo psicologico di percepire il rapporto, non è necessariamente la risposta ad un effettivo comportamento di incuria della Madre; il che non toglie che abbia conseguenze, posto che, se un fatto psicologico è sentito come vero, avrà comunque degli effetti”. A parere di chi scrive, la spiegazione psicanalitica della cleptomania rischia, come sempre, di debordare in un ridicolo pansessualismo. Le interpretazioni psicanalitiche forse recano un certo fascino culturale, ma esse sono poi prive dei necessari sbocchi rieducativi richiesti dal comma 3 Art. 27 Cost. . In effetti, a livello di trattamento penitenziario, la psicanalisi non risulta per nulla né riabilitativa né curativa.


Il concetto di “malattia mentale” negli Artt. 85, 88 ed 89 CP.

Nei Lavori Preparatori del Codice Penale italiano, il lemma “infermità” indica “la condizione che può incidere sull'imputabilità” ex Artt. 88 od 89 CP. In realtà, come sottolineato da svariati Autori, un conto è il concetto medico di infermità mentale, un altro conto è la “traduzione” giuridica di tale ratio. Dunque, una delle problematiche maggiori è quella di sussumere l'interpretazione psichiatrica della “malattia” mentale all'interno della tripartizione normativa “capace / totalmente incapace (Art. 88 CP) / parzialmente incapace (Art. 89 CP)”.

Come riferisce Gerin (1970)[21], “in passato, la Dottrina prevalente sosteneva che tutte le malattie mentali sono infermità e che, in linea generale, le anomalie, soprattutto se caratterizzate da una deviazione della struttura intrinseca della personalità (p.e., l'indole particolarmente malvagia prevista dall' Art. 109 CP), non sono infermità, intendendosi con il termine malattie mentali le psicosi, i gravi difetti intellettivi ed i disturbi ad allora nota eziologia organica”. Dunque, come evidenziato da Gerin (ibidem)[22], la psicopatologia forense, per buona parte del Novecento, ha reputato non invalidanti / non parzialmente invalidanti i disturbi del carattere e molte altre alterazioni caratteriali reputate alla stregua degli ininfluenti “stati emotivi o passionali”. Attualmente, la Medicina legale ha rigettato tale rigida impostazione lombrosiana. Ovverosia, come precisato da Bertolino (1990)[23] esistono centinaia di disturbi mentali a-tipici, perché “non vi è la possibilità di tradurre immediatamente una determinata diagnosi psichiatrica in una delle tre possibilità offerte dal codice penale [capacità piena, infermità totale, infermità parziale] […] non è possibile, cioè, affermare che la psicosi comporti sempre e soltanto assenza di capacità d'intendere o di volere, o la nevrosi semi-imputabilità, o il disturbo di personalità imputabilità piena. Tale progressivo mutamento, o forse, meglio, tale oscillazione era particolarmente evidente nella Giurisprudenza, che ha esigenza di certezza del Diritto”. Del pari, Fioravanti (1988)[24] riconosceva, un anno prima dell'entrata in vigore del nuovo Codice di Procedura Penale, che esistono disturbi del carattere e della personalità che, sebbene non sistematicamente catalogati, recano all'infermità/seminfermità del reo. Può darsi, infatti, che l'infrattore patologico soffra di una deficienza psichica non evidente, ancorché importante alla luce degli Artt. 88 ed 89 CP. D'altra parte, consta che, prima degli Anni Duemila, la psicopatologia forense non ha mai tenuto nella debita considerazione le alterazioni invalidanti del carattere.

Dopo mezzo secolo di aporie interpretative, finalmente, Sezioni Unite 9163/2005 ha statuito che “per quanto concerne l'ampiezza da attribuire al termine infermità, anche i disturbi della personalità [e del carattere, ndr], come quelli da nevrosi e psicopatie, possono costituire causa idonea ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità d'intendere o di volere del soggetto agente ai fini degli Artt. 88 od 89 CP, sempre che siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla stessa […] [Bisogna] mettere fine alle oscillazioni interpretative ed al disorientamento giurisprudenziale […] cioè a confusioni ed ambiguità che non giovano alla certezza del Diritto e, dunque, alla sua credibilità; ciò in adempimento della funzione [delle Sezioni Unite ex Art. 618 Cpp, ndr] di assicurare l'uniformità degli indirizzi giurisprudenziali […]. [Bisogna recuperare] il compito di nomofilachia della Corte di Cassazione, al fine di garantire l'unità del Diritto oggettivo nazionale”. Come si nota, Sezioni Unite 9163/2005 ha aperto la potenziale precettività degli Artt. 88 ed 89 CP a forme di deficit psichico (semi)invalidanti, a-tipiche ed afferenti a profili solitamente poco o nulla indagati in sede peritale, come la personalità ed il carattere dell'infrattore.

Sezioni Unite 9163/2005 pone fine alla dittatura troppo catalogica e formalistica del DSM-V. Quindi, anche gli “stati emotivi o passionali”, sebbene ignorati de jure condito dal Legislatore, possono recare ad una diagnosi di infermità. Giustamente, Bertolino (2005)[25] nota che “le oscillazioni non sono state certo solo giurisprudenziali, bensì anche peritali. Anzi, uno dei motori di Sezioni Unite 9163/2005 è probabilmente proprio quello del richiamo all'ordine dei periti, che da tempo dicevano -e facevano dire all'AG- tutto e il contrario di tutto. Ciò non di meno, la preoccupazione espressa da alcuni è che la cittadinanza acquisita, in particolare, dai disturbi della personalità nel novero delle ipotesi di infermità, ampli, in modo incontrollato, le valutazioni di difetto dell'imputabilità; e, in questo senso, la cautela suggerita da Sezioni Unite 9163/2005, che cioè le forme patologiche siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla capacità d'intendere o di volere, è quantomai opportuna, tanto più che si chiarisce ulteriormente: deve, perciò, trattarsi di un disturbo idoneo a determinare (e che abbia, in effetti, determinato) una situazione di assetto psichico incontrollabile e ingestibile (totalmente o in grave misura), che, incolpevolmente, rende l'agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti e di percepirne il disvalore sociale”

 

[1]Bandini, Riflessioni critiche sulla nozione di infermità in psichiatria forense, in Dell'Osso & Lomi (a cura di), Diagnosi psichiatrica e DSM-III-R, Giuffrè, Milano, 1989

[2]Bandini (ibidem)

[3]Merzagora, Imputabilità, pericolosità sociale, capacità di partecipare coscientemente al procedimento, in Giusti (a cura di), Trattato di medicina legale e scienze affini, Vol. 4, CEDAM, Padova, 2009

[4]Merzagora (ibidem), op. cit.

[5]Manacorda, La perizia psichiatrica nel processo penale, CIC Edizioni Internazionali, Roma, 2003

[6]Manacorda (ibidem), op. cit.

[7]Manacorda (ibidem), op. cit.

[8]Carrieri & Catanesi, La perizia psichiatrica sull'autore di reato: evoluzione storica e problemi attuali, in Rivista italiana di medicina legale, 23, 2001

[9]Carrieri & Catanesi (ibidem), op. cit.

[10]Merzagora (ibidem), op. cit.

[11]Carrieri & Catanesi (ibidem), op. cit.

[12]Merzagora (ibidem), op. cit

[13]Merzagora (ibidem), op. cit.

[14]Carrieri & Catanesi (ibidem), op. cit.

[15]Merzagora (ibidem), op. cit.

[16]Merzagora (ibidem), op. cit.

[17]Ferrio, Trattato di psichiatria clinica e forense, Vol. 2, UTET, Torino, 1959

[18]American Psychiatric Association, (a cura di), Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Traduzione italiana: Raffaello Cortina, Milano, 2014

[19]Cuman & Fontana & Merzagora Betsos, Cleptomania, disturbi dell'alimentazione e imputabilità, in Rivista italiana di medicina legale, 24, 1, 2002

[20]Merzagora Betsos (ibidem), op. cit.

[21]Gerin, Medicina legale e delle assicurazioni, Schirru, Roma, 1970

[22]Gerin (ibidem), op. cit.

[23]Bertolino, L'imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Giuffrè, Milano, 1990

[24]Fioravanti, Le infermità psichiche nella giurisprudenza penale, CEDAM, Padova, 1988

[25]Bertolino, Privato e pubblico nella rappresentazione mediatica del reato. In Forti & Bertolino (a cura di), La televisione del crimine. Vita e Pensiero, Milano, 2005