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Art. 50 - Consenso dell’avente diritto

1. Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne.

Rassegna di giurisprudenza

Ai fini della configurazione di una causa di giustificazione, l’imputato è gravato da un mero onere di allegazione, essendo tenuto a fornire all’ufficio le indicazioni e gli elementi necessari all’accertamento di fatti e circostanze altrimenti ignoti che siano in astratto idonei, ove riscontrati, a configurare in concreto la causa di giustificazione invocata; ove tale onere di allegazione sia positivamente adempiuto dall’imputato, l’onere di dimostrare la non configurabilità della causa di giustificazione invocata grava sulla parte pubblica e, nei casi in cui residui il dubbio sull’esistenza di essa, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato (nella fattispecie, avente ad oggetto l’occupazione abusiva di un alloggio di edilizia popolare, la Corte, in applicazione del principio enunciato, ha disposto l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata) (Sez. 2, 35024/2020).

L’esimente del consenso dell’avente diritto, quantomeno nella forma putativa è rinvenibile solo quando sussista un’obiettiva situazione che possa ragionevolmente indurre in errore l’agente sull’esistenza delle condizioni fattuali corrispondenti alla configurazione della scriminante (Sez. 3, 7186/1990, richiamata da Sez. 5, 50497/2018).

Non integra il reato di lesione personale, né quello di violenza privata, la condotta del medico che sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, nel caso in cui l’intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle "leges artis", si sia concluso con esito fausto, essendo da esso derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute del paziente, in riferimento anche alle eventuali alternative ipotizzabili e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte dello stesso (SU, 2437/2008).

È noto tutto il travaglio dottrinario e giurisprudenziale circa il ruolo del consenso  espresso o non espresso dal paziente – intorno all’atto medico cui è sottoposto o si sottopone. A partire dalla innovativa sentenza 5639/1992, che sanzionò  a titolo di omicidio preterintenzionale  l’attività del chirurgo che sottopose il paziente, in assenza di necessità ed urgenza terapeutiche, ad un intervento operatorio di più grave entità rispetto a quello meno cruento e comunque di più lieve entità del quale lo aveva informato preventivamente e che solo era stato da quegli consentito, ritenendo irrilevante  sotto il profilo psichico  la finalità pur sempre curativa della sua condotta, numerose sono state le decisioni che si sono occupate delle conseguenze  sotto il profilo penale  dell’attività medica "arbitraria", perché svolta contro o senza la volontà del paziente, spesso divergendo sulla soluzione da prediligere. Infatti, a meno di dieci anni dalla precedente pronuncia, la sezione quarta di questa Corte aveva  capovolgendo il precedente indirizzo  esclusa la configurabilità dell’omicidio preterintenzionale qualora, in assenza di urgente necessità, fosse stata eseguita un’operazione chirurgica demolitiva, senza il consenso del paziente, prestato per un intervento di dimensioni più ridotte rispetto a quello poi eseguito, che ne avesse determinato la morte, poiché, per integrare l’omicidio preterintenzionale, era richiesta una condotta consapevolmente ed intenzionalmente diretta a provocare un’alterazione lesiva dell’integrità fisica della persona offesa (28132/2001, che aveva ritenuto sussistente, nel caso esaminato, il diverso reato di omicidio colposo). In senso ancora più liberatorio per il medico si era espressa la sezione prima con la sentenza 26446/2002, sul presupposto che il medico fosse sempre legittimato ad effettuare il trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute del paziente affidato alle sue cure, anche in mancanza di esplicito consenso, dovendosi invece ritenere insuperabile l’espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal medesimo paziente, ancorché l’omissione dell’intervento potesse cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e, persino, la sua morte (solo in caso di dissenso espresso la Corte aveva ritenuto configurabile  in caso di morte del paziente  il diverso reato di violenza privata). Indirizzo confermato da Sez. 4, 11335/2008, sul rilievo che  a parte situazioni anomale e patologiche  la finalità curativa comunque perseguita dal medico è da ritenere concettualmente incompatibile con la consapevole intenzione di provocare un’alterazione lesiva dell’integrità fisica della persona offesa invece necessaria per l’integrazione degli atti diretti a commettere il reato di lesioni richiesti dall’art. 584. Sul punto sono poi intervenute, come è noto, le Sezioni unite (SU, 2437/2009), le quali hanno escluso la responsabilità del chirurgo  che abbia operato senza il consenso del paziente  sia sotto il profilo della violenza privata che delle lesioni volontarie, a fronte di un esito fausto dell’intervento. Questa sentenza, che ha affrontato un caso parzialmente diverso da quello per cui è processo (caratterizzato, invece, da esito infausto), ha però sviluppato argomenti  già accennati nelle precedenti decisioni  che servono alla risoluzione della questione sottoposta all’attenzione del collegio. Le Sezioni unite, con la sentenza sopra richiamata, hanno attuato il sostanziale recepimento  in sede penale  della tesi civilistica della cosiddetta autolegittimazione dell’attività medica, "la quale rinverrebbe il proprio fondamento, non tanto nella scriminante tipizzata del consenso dell’avente diritto, come definita dall’art. 50, quanto nella stessa finalità, che le è propria, di tutela della salute, come bene costituzionalmente garantito". L’attività sanitaria  ha precisato la Corte  proprio perché destinata a realizzare in concreto il diritto fondamentale di ciascuno alla salute ed attuare la prescrizione contenuta nell’art. 2 della Carta, ha base di legittimazione "direttamente nelle norme costituzionali, che, appunto, tratteggiano il bene della salute come diritto fondamentale dell’individuo". Ne è prova il fatto  ha aggiunto la Corte  che l’art. 359 inquadra fra le persone esercenti un servizio di pubblica necessità proprio i privati che esercitano la professione sanitaria, ritenuta "di pubblica necessità", cosicché sarebbe davvero eccentrico che una professione siffatta abbisogni, per legittimarsi, di una scriminante tipizzata, che escluda l’antigiuridicità di condotte strumentali al trattamento medico. A tali riflessioni  che il collegio fa proprie  si aggiunge il rilievo che le scriminanti tipizzate  a cui si appellano le tesi imperniate sulla esclusivistica natura "liberatrice" del consenso  sono volte a neutralizzare gli effetti penali di condotte altrimenti illecite, perché contrarie a norme di convivenza (come postulata dall’ordinamento), sicché ancor più eccentrico appare il loro accostamento all’attività medica, che rappresenta una della massime espressioni del genio e della solidarietà umana, oltre che una della arti più nobili e utili all’uomo. Da qui la prima conclusione che il trattamento medico-chirurgico  compiuto nel rispetto delle leges artis  costituisce un’attività intrinsecamente lecita, in quanto non offensiva dell’interesse protetto da alcuna delle norme incriminatrici contemplate dal nostro ordinamento, anche se, per attuarsi, abbisogna di "maltrattare" la persona che ad esso si sottopone, giacché le incisioni (e le altre attività manipolatorie) praticate sulla persona del paziente sono connaturate, in maniera ineliminabile, all’attività chirurgica e perdono, nella valutazione unitaria dell’intervento, la loro carica lesiva, per essere funzionali alla cura del soggetto che vi si sottopone. Gli effetti penali di questa scelta si traducono  nell’ordinario dell’attività terapeutica  nella esclusione dell’attività suddetta dalla tipicità delle lesioni personali o di altri reati; essa non abbisogna, per legittimarsi, né di scriminanti né di cause di esclusione della punibilità, anche se il concreto esercizio della stessa può essere subordinato, per l’attuazione di altri interessi ugualmente rilevanti, a condizioni e adempimenti prescritti da altre fonti. Altro passaggio  che contrassegna, anch’esso, l’iter logico delle Sezioni unite nella sentenza sopra richiamata  e che si appalesa utile alla risoluzione della res iudicanda, è costituito dalla definizione del concetto di "malattia", che rileva, pur’esso, nella valutazione della condotta incriminata (sotto l’aspetto, che verrà esaminato nel prosieguo, della riconduzione dell’operato dei medici alla fattispecie delle lesioni personali volontarie). Le Sezioni unite, aderendo ad un più recente orientamento manifestatosi nella giurisprudenza di legittimità, hanno accolto, infatti, un concetto "funzionale" di malattia (necessario per la sussistenza del reato di cui all’art. 582, siccome evento naturalistico di detto reato), intesa come "processo patologico evolutivo necessariamente accompagnato da una più o meno rilevante compromissione dell’assetto funzionale dell’organismo", con la conseguenza che non sono state ritenute rilevanti  per l’integrazione del reato di cui all’art. 582  le mere alterazioni anatomiche che non hanno interferenza con il profilo funzionale della persona. Hanno inoltre adottato un concetto "oggettivo" di malattia, disancorato dalla personale valutazione della vittima. A tale lettura dell’art. 582 il collegio senz’altro aderisce, perché si tratta di lettura aderente alla lettera e alla funzione della norma (volta a sanzionare le aggressioni più significative all’incolumità personale e a rimarcare la distanza dal reato di percosse, praticamente abrogato dall’interpretazione estensiva dell’art. 582) e perché garantisce una oggettività necessaria al delitto di lesioni personali, esposto, altrimenti, a una forte soggettivizzazione (sarebbe rimessa alla vittima la decisione sulla esistenza della "malattia", e quindi del reato, qualora la valutazione clinica divergesse dalla valutazione personale del paziente. Il reato di lesioni personali verrebbe posto a tutela non solo della incolumità personale, ma anche della libertà di determinazione, indebitamente inglobata nella oggettività giuridica delle lezioni personali). Inoltre, tale lettura tiene conto degli apporti della giurisprudenza  richiamata nella stessa sentenza delle Sezioni unite  più sensibile all’applicazione del principio costituzionale di colpevolezza. La conseguenza, sul piano dell’attività medico-chirurgica "arbitraria", di tale impostazione, è che, se una soluzione di continuo operata sul derma del paziente e sui suoi tessuti può integrare la nozione di "lesione", ciò è ancora inconferente agli effetti della integrazione del precetto, se ad essa non consegua una alterazione funzionale dell’organismo. Ma è soprattutto sul terreno dell’elemento soggettivo che si apprezza il mutamento di prospettiva, giacché è in relazione alla "malattia" conseguente all’intervento chirurgico (assentito in modo viziato, per quanto si è detto) che va apprezzato l’atteggiamento psicologico dell’agente, al fine di individuare il nesso che occorre per l’imputabilità dell’eventoIl riconoscimento di una fonte autonoma di legittimazione dell’attività medico-chirurgica non ha  ad ogni modo  impedito alle Sezioni unite di sottolineare la necessarietà del consenso del paziente nel concreto espletarsi dell’attività suddetta. Attraverso il richiamo e l’analisi di numerose fonti di produzione normativa: la Costituzione (artt. 2 e 32), la legislazione sovranazionale (Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata dall’Italia con legge 28 marzo 2001; Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989; Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000), la legislazione nazionale (legge 21 ottobre 2005, n. 219, Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale di emoderivati; legge 19 febbraio 2004, n. 40, Norme in materia di procreazione medicalmente assistita; L. 833/1978, Istituzione del servizio sanitario nazionale), il codice di deontologia medica, le Sezioni unite di questa Corte hanno ribadito  come già fatto dalla totalità della dottrina e della giurisprudenza  che il presupposto indefettibile di ogni trattamento sanitario risiede nella scelta, libera e consapevole  salvo i casi di necessità e di incapacità di manifestare il proprio volere  della persona che a quel trattamento si sottopone. Tanto perché tutta la normativa sopra richiamata mostra di considerare la "persona" non più destinataria di prestazioni etero-determinate, ma soggetto attivo e partecipe dei processi decisionali che lo riguardano; e perché appare ormai superata la visione del medico come depositario e detentore di una "potestà" di curare, dovendosi invece inquadrare il rapporto medico-paziente (al di fuori di qualsiasi visione paternalistica) in termini di "alleanza terapeutica", che veda entrambi i protagonisti impegnati a collaborare per l’attuazione del diritto alla salute. Le conseguenze  sotto il profilo giuridico  di questa impostazione dogmatica non possono che essere rappresentate dalla tendenziale "illiceità" dell’atto medico compiuto senza il consenso del paziente (o con consenso viziato)La violazione di regole deontologiche e, prima ancora, legislative, quali sopra richiamate, rimanda sicuramente ad una responsabilità del medico per l’attività non assentita, perché spezza il circuito virtuoso necessario al perseguimento del miglior risultato possibile per la salute del paziente. Ed infatti la giurisprudenza civile è consolidata nel ravvisare un inadempimento contrattuale a carico del medico che ometta di fornire un’informazione completa ed esaustiva intorno alla diagnosi effettuata, ai rischi cui il paziente è esposto, alle cure praticabili e alle possibili alternative terapeutiche, ponendo a carico del medico l’onere della prova di aver adempiuto all’obbligo relativo (Cass. Civ. 14642/2015; Sez. 3, 2854/2015; Sez. 3, 19731/2015; Sez. 3, 27751/2013; Sez. 3, 19220/2013). Ciò non vuol dire, però, che sia sempre ravvisabile  a carico dal sanitario  una responsabilità penale, per la semplice e ovvia ragione che il diritto penale è informato al principio di tipicità, per cui solo le condotte coincidenti con la previsione normativa possono assurgere a fonte di responsabilità. Per la punizione del medico che attui un intervento "arbitrario" è quindi necessario che la sua condotta sia inquadrabile in una delle fattispecie penali tipizzate, che possono essere interpretate estensivamente, ma non analogicamente, e che la condotta imputata al medico sia offensiva proprio dell’interesse tutelato dalla norma penalePertanto, se è consolidata l’opinione che considera illecita, anche dal punto di vista penale, la condotta del medico che abbia operato  quasi in corpore vili  "contro" la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata, e ciò a prescindere dall’esito, fausto o infausto, del trattamento sanitario praticato, "trattandosi di condotta che quanto meno realizza una illegittima coazione dell’altrui volere" (2437 del 18/12/2008); e se è da ritenere illecita  anche dal punto di vista penale  la condotta del medico che attui una informazione volutamente lacunosa o decipiente al fine di perseguire scopi altrimenti illeciti (21799 del 20/4/2010, che ha sanzionato  a titolo di lesioni volontarie  il chirurgo che aveva praticato un intervento diverso da quello assentito, ingannando il paziente)  giacché in questo caso egli si pone volontariamente fuori del contesto (terapeutico) entro cui è, per norma, legittimato ad operare  a conclusione diversa deve pervenirsi allorché  come nella specie  il consenso all’intervento, prestato dal paziente in un ambito caratterizzato comunque da finalismo terapeutico, sia da ritenere viziato, perché non preceduto da adeguata informazione. Situazioni siffatte non appaiono inquadrabili, infatti, in nessuna delle fattispecie penali codificate. Infatti, per quanto si vogliano estendere ed ampliare le nozioni di violenza e minaccia sottese all’art. 610, giammai è possibile ricondurre ad esse la condotta del medico che attui una informazione superficiale in vista di un intervento operatorio da lui consigliato, giacché manca ad essa il connotato che più la caratterizza: la prospettazione di un male  la cui verificazione dipende dall’agente  o lo spiegamento di una energia fisica o morale diretta a coartare il volere della vittima. Nemmeno può il reato di lesioni personali volontarie (aggravate, nella specie), giacché tale reato presuppone  come è già stato evidenziato in fattispecie analoghe  una attività diretta a cagionare un male alla persona, da cui deriva una malattia nel corpo o nella mente. Richiede, cioè, secondo principi noti, che non occorre richiamare, il verificarsi di una malattia (elemento oggettivo) e la coscienza e volontà di provocarla (elemento soggettivo, con le modulazioni proprie del dolo). Ebbene, è fuori discussione che il medico, allorché agisce per fini terapeutici (e non per fini sperimentali, di lucro, di prestigio o per altri fini altrimenti speculativi), non pone in essere alcuna attività diretta a procurare un "male", ma agisce (bene o male, non è questa la sede per discuterne) per risolvere una patologia.

Egli  tanto più se è prudente ed esperto nella sua arte  "prevede" la possibilità di aggravare le condizioni del paziente (cioè, di procurargli una lesione di cui derivi una malattia, ulteriore rispetto a quella per cui è stato investito: elemento oggettivo del reato di lesioni), ma non la "vuole"; anzi, è disvolente rispetto ad essa ed opera perché non si concretizzi. Se, nonostante i suoi sforzi, la "malattia" sopravviene, non gli può essere imputata, in ragione della cattiva informazione fornita al paziente (è questo, infatti, il rimprovero che gli è mosso), perché manca il rapporto di derivazione con l’addebito  essendo conseguenza dell’evoluzione del male, che egli non è riuscito a contrastare  e perché manca un profilo di imputazione a livello soggettivo. Non è, quindi, solo nella fattispecie esaminata dalle Sezioni unite (esito fausto dell’intervento) che l’assenza di consenso al trattamento terapeutico  non maliziosamente procurato  non è idoneo a fondare la responsabilità del medico a titolo di lesioni personali volontarie, giacché è proprio il finalismo terapeutico che esclude il dolo di lesioni, per la logica incompatibilità tra essi esistente (perché, come è stato messo in evidenza in altre pronunce e come le stesse Sezioni Unite hanno mostrato di condividere, «una condotta "istituzionalmente" rivolta a curare e, dunque, a rimuovere un male non può essere messa sullo stesso piano di una condotta destinata a cagionare quel "male"). In questa maniera non si trasforma il reato di cui all’art. 582, pacificamente a dolo generico, in reato a dolo specifico, come opinato nella sentenza impugnata e da taluni commentatori, giacché la "specificità" attiene ai motivi dell’agere e agli scopi dell’agente, mentre, nella specie, la finalità curativa pone la volontà del medico in rapporto di contraddizione con l’evento tipico. Egli, infatti, non vuole né accetta di procurare una "malattia", anche se la prevede o può prevederla; opera ugualmente, per obbligo professionale e perché "costretto" dalla natura del male che è chiamato a curare. In ciò sta, infatti, la fondamentale differenza tra il medico e qualsiasi volgare attentatore alla incolumità altrui: che il medico, chiamato a confrontarsi col male, non può sottrarsi all’obbligo di cooperare per risolverlo; il soggetto attivo nel reato di lesioni non è mosso da nessuna necessità (anzi, contravviene ad un obbligo di astensione) ed opera per infliggere una sofferenza (per questo, ogni energia da lui spiegata sul corpo o la mente della vittima gli è addebitabile e l’eventuale malattia che ne consegue rientra nel fuoco della volontà). Deve convenirsi, pertanto, con quanto affermato in altre pronunce di questa Corte, secondo cui la valutazione del comportamento del medico sotto il profilo che qui interessa (sussistenza del reato di lesioni personali dolose) "non ammette un diverso apprezzamento a seconda che l’attività sia stata prestata con o in assenza di consenso, non presentando il giudizio sulla sussistenza della colpa e sul nesso di causalità differenze di sorta a seconda che vi sia stato o meno il consenso informato del paziente"Affermazione, questa, che il collegio ritiene di sottoscrivere alla fondamentale condizione  più volte espressa e che qui viene ulteriormente rimarcata  che l’opera del medico sia inequivocabilmente sorretta da un "finalismo curativo" non inquinato da scopi e interessi diversi, come sono quelli rimarcati nella sentenza impugnata (scopi di lucro, di carriera, o sperimentali, che vanno  comunque  pur sempre provati), i quali, se sussistenti, inciderebbero proprio sulla fonte di legittimazione dell’attività medica (Sez. 5, 16678/2016).

In tema di lesioni personali cagionate durante una competizione sportiva, non sussistono i presupposti di applicabilità della causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto con riferimento al cosiddetto rischio consentito (art. 50), né ricorrono quelli di una causa di giustificazione non codificata ma immanente nell’ordinamento, in considerazione dell’interesse primario che l’ordinamento statuale riconnette alla pratica dello sport, nell’ipotesi in cui, durante una partita di calcio ma a gioco fermo, un calciatore colpisca l’avversario con una gomitata al naso, in quanto imprescindibile presupposto della non punibilità della condotta riferibile ad attività agonistiche è che essa non travalichi il dovere di lealtà sportiva, il quale richiede il rispetto delle norme che regolamentano le singole discipline, di guisa che gli atleti non siano esposti ad un rischio superiore a quello consentito da quella determinata pratica ed accettato dal partecipante medio; ne deriva che la condotta lesiva esente da sanzione penale deve essere, anzitutto, finalisticamente inserita nel contesto dell’attività sportiva, mentre ricorre l’ipotesi di lesioni volontarie punibili nel caso in cui la gara sia soltanto l’occasione dell’azione violenta mirata alla persona dell’antagonista. (Sez. 5, 45210/2005).

In tema di lesioni personali cagionate durante una competizione sportiva che implichi l’uso della forza fisica e il contrasto anche duro tra avversari, l’area del rischio consentito è delimitata dal rispetto delle regole tecniche del gioco, la violazione delle quali, peraltro, va valutata in concreto, con riferimento all’elemento psicologico dell’agente il cui comportamento può essere  pur nel travalicamento di quelle regole  la colposa, involontaria evoluzione dell’azione fisica legittimamente esplicata o, al contrario, la consapevole e dolosa intenzione di ledere l’avversario approfittando della circostanza del gioco (Sez. 4, 9559/2016).

In tema di lesioni colposamente cagionate a terzi nell’esercizio di attività sportive, ai finì dell’affermazione di penale responsabilità è necessario accertare se l’evento lesivo si sia o meno verificato nel corso di una tipica azione di gioco, specificamente ricostruita in punto di fatto, non potendo essere desunta la natura colposa della condotta unicamente dalla circostanza della rilevazione di un "fallo" fischiato dall’arbitro (Sez. 4, 28772/2011).

La cosiddetta scriminante del rischio consentito è operativa nell’ambito delle competizioni sportive, che si svolgono secondo regole stabilite dagli organismi di categoria  se ed in quanto quelle regole vengono rispettate – e ricevono protezione statuale in considerazione dei benefici che la pratica sportiva è suscettibile di arrecare ai praticanti, e non già nell’ambito di manifestazioni più o meno folkloristiche imperniate sulla violenza pura e gratuita, che mette a rischio l’incolumità delle persone e di trascinare nel suo vortice manifestanti e spettatori. Del tutto arbitraria è, infatti, l’assimilazione di manifestazioni del genere a quelle sportive e del tutto improprio è, di conseguenza, il richiamo delle scriminanti, codificate o non codificate (Sez. 5, 15170/2016).

Nessuna efficacia esimente può attribuirsi alla causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto, quando i beni che costituiscono oggetto della condotta delittuosa appartengono alla pubblica amministrazione o comunque rientrino in una destinazione di rilievo pubblicistico (SU, 19054/2013).

Non è applicabile la scriminante putativa del consenso dell’avente diritto ove debba escludersi, in base alle circostanze, la ragionevole persuasione di operare con l’approvazione della persona che può validamente disporre del diritto. Ai fini dell’applicabilità dell’art. 50 cod. pen., è necessario il requisito della effettività e a nulla vale la convinzione ipotetica ed eventuale che il consenso sarebbe stato dato se richiesto (Sez. 6, 20944/2011).