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Il consenso come scriminante nei reati colposi

Matera
Ph. Maria Cristina Sica / Matera

Cosa si intende per consenso nel diritto penale in riferimento ai reati colposi

Si discute in dottrina ed in giurisprudenza circa la rilevanza della scriminante del consenso con riguardo ai reati colposi. Ci si chiede, in particolare, se il consenso, non alla lesione ma all' esposizione al pericolo, può avere un'efficacia scriminante.

La giurisprudenza prevalente ne rimarca l'inefficacia invocando sia l'indisponibilità dei beni della vita e della integrità fisica normalmente presidiati con l'incriminazione di fattispecie colposa, al di là dei limiti stabiliti dall'articolo 5 del codice civile, sia l'incompatibilità tra il consenso, concepito come volontà di lesioni ed il carattere involontario del fatto colposo. Pertanto, si afferma che, anche nei casi in cui taluno abbia consapevolmente affrontato, d'accordo con altre persone, un'attività altamente rischiosa da cui sia derivata la sua morte o una sua lesione, deve restare ferma la scriminante in questione.

In dottrina si registrano opinioni diverse. Per un orientamento, si deve ammettere la rilevanza del consenso scriminante solo rispetto alla colpa generica e non per la colpa specifica.

Ulteriore indirizzo sottolinea l'incompatibilità strutturale tra la colpa ed il consenso, sul rilievo per cui questo deve investire il fatto previsto dalla legge come reato e quindi anche l'evento dannoso o pericoloso: nel dettaglio, si sottolinea, se consentire una condotta dalla quale derivi un evento dannoso non equivale anche a consentire pure la lesione del diritto.

In questi protesi, infatti, il consenziente non intende affatto accettare l'eventualità che si verifichi un evento lesivo, ben si intende solo autorizzare l'attività altrui nei limiti segnati dalle norme cautelari che regolano l'attività stessa al fine di prevenire il verificarsi di eventi lesivi. Così, il pugile che affronta un incontro e il paziente che acconsente ad un'operazione chirurgica rischiosa esprimono il loro consenso ad un'attività pericolosa nella misura in cui però vengano compiute nel rispetto delle regole cautelari.

Laddove si verifichi poi in concreto l'evento lesivo, la responsabilità dell'agente dovrà essere valutata non in base al consenso previsto dall’articolo 50 del codice penale, ma sul piano della colpa.

Diverso è il caso in cui, invece, il consenso dell'interessato sia finalizzato proprio a porre in essere violazioni delle norme cautelari prescritte per l'esercizio di attività intrinsecamente pericolose, assumendo così il titolare il rischio della verificazione dell'evento dannoso.

In questo caso l'efficacia del consenso, quale scriminante, potrebbe semmai essere ammesso a condizione che la possibile lesione sia realmente disponibile e sempre che il titolare del diritto, se è stato preventivamente informato o si sia reso conto dell'entità del possibile evento lesivo, sia indice di probabilità della sua materializzazione.

 

Il consenso presunto

Le cause di giustificazione e quindi il consenso (ex articolo 50 codice penale) operano oggettivamente, per cui non è necessario che l’agente sia consapevole del consenso effettivamente manifestato dal titolare del bene giuridico.

Al consenso putativo, si realizza allorquando colui che agisce ritiene che il titolare abbia prestato il consenso, ovviamente, tale consenso putativo non è idoneo a scriminare il fatto, che rimane quindi illecito. 

Secondo un indirizzo dottrinario, una condotta può essere scriminata dal consenso presunto quando il soggetto si trovi nella impossibilità materiale di consentire e si possa ragionevolmente presumere, in assenza di contrarre indicazioni e sulla base di un giudizio obiettivo, che egli avrebbe consentito se avesse potuto.

Diversi, per vero, i percorsi seguiti in dottrina nell'argomentare la ritenuta rilevanza del consenso presunto. Sul primo fronte, c’è chi sostiene come la presunzione di consenso possa incidere sul dolo, elidendolo. Tesi, tuttavia, non condivisa da chi osserva che, sul tenore dell'articolo 59 del codice penale, il dolo è escluso solo nelle diverse ipotesi del consenso putativo.

Si ritiene pertanto, che la presunzione del consenso possa assumere rilievo scriminante sulla scorta di un'applicazione analogica in bonam partem dell'articolo 50 del codice penale, condizione che possa riscontrarsi, ove sussistano condizioni idonee a fungere da equipollente rispetto all'abbandono espresso dall'interesse da parte del titolare.

Il consenso può essere sempre revocato fino a che il fatto consentito non si sia compiutamente realizzato.

Quest'ultima affermazione, in linea generale condivisibile, richiede tuttavia qualche precisazione per i casi in cui il consenso sia prestato in ordine e compressioni o limitazioni dei diritti dotati di una certa durata nel tempo.

La giurisprudenza infatti, ha voluto adattare il principio della revocabilità del consenso ai casi in più diverse occasioni, occupandosi anche dell'aspetto formale.

Un'apparente lieve attenuazione di tale principio è stata espressa in una vicenda giudiziaria di grande risonanza pubblica, ovvero nel caso Muccioli.

Si tratta delle ipotesi del tossicodipendente che accetta di farsi segregare, per un certo periodo in una comunità chiusa. In tale contesto, afferente ad una imputazione di sequestro di persona, la corte di merito, ovvero la corte di appello di Bologna del 1988, aveva ritenuto che il delitto, commesso in danno di tossicodipendenti sottoposti in comunità chiusa a programmi terapeutici, comprendenti la restrizione della libertà personale, e scriminato dal consenso anticipatamente prestato dal ricoverato all'atto di ammissione comunità, sia condizione che la privazione della libertà non si protragga oltre il tempo strettamente necessario al recupero del soggetto e non venga attuata con modalità tali da ledere la dignità di persona umana.

In particolare, si è ritenuto opportuno a emettere una, sia pure temporanea, irrevocabilità del consenso prestato, per due ragioni: perché già sul piano logico concettuale non ci sarebbe nessuna limitazione alla libertà personale con il consenso. Sia perché se il tossicodipendente potesse già sin dall'inizio, in ogni momento chiedere di riacquistare la sua libertà; è ragionevole supporre che, se un tossico dipendente chiede di essere ricoverato in una comunità chiusa, lontano dai contatti con l'esterno, lo fa per essere aiutato a non tornare a drogarsi, soprattutto nei momenti in cui, in crisi di astinenza vorrà assumere nuovamente la sostanza allontanandosi della comunità.

Tuttavia, tale assunto è stato criticato nella parte in cui si invoca, a sostegno della irrevocabilità, il cosiddetto contratto terapeutico.  Ciò appare in realtà il frutto di una superata teoria negoziale e si scontra con la considerazione che il potere dispositivo del soggetto può essere azionato solo entro determinati limiti non attribuendo diritti irreversibili.

Il consenso, rimarrebbe un atto giuridico, come tale revocabile anche da parte di un soggetto che non abbia la piena capacità di intendere e di autodeterminarsi, tale che la prestazione anticipata del consenso non esclude che possa intervenire una decisione contraria.

In dottrina è stata proposta una differente soluzione ricostruttiva in forza del quale, al momento del suo ingresso in comunità, il tossicodipendente concluderebbe un contratto con il responsabile del centro, che assumerebbe così una posizione derivata di garanzia, un vero e proprio obbligo di protezione della salute del paziente.

Il responsabile sarebbe quindi tenuto a persistere nel trattamento di disintossicazione finché permane la situazione di pericolo che lo rende necessario: potrebbe così invocare la scriminante dell'adempimento del dovere di quella prevista dall’articolo 51 codice penale, quando anche il soggetto receda dal contratto al momento dell'ingresso.

 

La giurisprudenza più recente

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 18283/2021, è tornata sul tema del consenso Informato, accogliendo il ricorso di un paziente che aveva chiesto il risarcimento del danno contro l’Azienda Ospedaliera e il medico che lo aveva in cura.

Anche la Cassazione, più di recente con l’ordinanza n. 27109/2021 pubblicata il 6 ottobre 2021, torna nuovamente ad esprimersi in tema di consenso informato.

I principi di riferimento, ribaditi nell’ordinanza, pongono il complesso ordine sistematico, più volte esaminato dai Supremi Giudice, sotto una luce rischiarante.

La vicenda era stata sollevata dai congiunti di una donna, deceduta dopo un intervento di angioplastica coronaria eseguito presso la struttura ospedaliera ove si era recata per sottoporsi a coronarografia, ricorrevano per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello che aveva respinto il gravame dagli stessi interposto avverso la pronunzia del Tribunale che aveva, solo parzialmente, accolto la domanda di risarcimento dei danni lamentati nei confronti della Azienda Sanitaria Provinciale. I ricorrenti si dolevano che la Corte di appello avesse posto alla base della propria decisione la consulenza, svolta in sede penale, che, nell’escludere la responsabilità penale dei sanitari, aveva accertato che la defunta era portatrice di una grave forma di cardiopatia e che l’intervento di angioplastica era stato eseguito correttamente, senza considerare che, in caso di procedura medica non assentita, il sanitario e la struttura sono tenuti a rispondere dell’esito infausto, ancorché ad essi non imputabile, giacché è sul medico e sulla struttura che grava il rischio delle complicanze non imputabili, ma comunque prevedibili, dell’atto non assentito.

La Suprema Corte accoglieva le doglianze sopra esposte, statuendo che, nella sentenza impugnata, erano stati disattesi, dalle corti di merito, i principi relativi al diritto all’autodeterminazione. La Corte di legittimità ritiene che la motivazione dell’impugnata sentenza sia del tutto apodittica ed intrinsecamente illogica, nella parte in cui afferma che, ove effettivamente informata della situazione organizzativa della struttura, nonché della realistica prospettiva dell’esito infausto dell’operazione, la donna avrebbe scelto di farsi operare lo stesso presso il nosocomio. Emerge, con tutta evidenza, come la corte di merito pretenda di trarre dalla gravità delle condizioni di salute della paziente, la conseguenza che, in luogo di rinunziare a farsi ivi operare (optando per altra struttura dotata, quanto meno, di reparto di cardiochirurgia), la medesima si sarebbe addirittura indotta ad accelerare la realizzazione di quella realistica prospettiva, poi inesorabilmente verificatasi.

La Corte di cassazione ribadisce, quindi, nuovamente, che l’assenso ad una procedura medica non può, in nessun caso, ritenersi presuntivo stante la gravità delle condizioni cliniche del paziente e costituisce prestazione altra e diversa rispetto a quella dell’intervento medico, assumendo, la mancata acquisizione del consenso da parte del paziente, autonoma rilevanza ai fini dell’eventuale responsabilità risarcitoria.

 

Conclusioni

In conclusione, il consenso informato, deve basarsi su informazioni dettagliate, idonee a fornire la piena conoscenza della natura, della portata e dell’estensione dell’intervento medico-chirurgico, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative, non essendo, all’uopo, idonea la sottoscrizione, da parte del paziente, di un modulo del tutto generico, né rilevando, ai fini della completezza ed effettività del consenso, la qualità del paziente, che incide unicamente sulle modalità dell’informazione, le quali vanno adattate al suo livello culturale, mediante espressioni allo stesso comprensibili, secondo il suo stato soggettivo ed il grado delle conoscenze specifiche di cui dispone (Cass. n. 2177/2016).

L’informazione deve, inoltre, comprendere il possibile verificarsi, in conseguenza dell’esecuzione del trattamento, dei rischi di un esito negativo dell’intervento e/o di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente, ma anche di un possibile esito di mera “inalterazione”, e, pertanto, della relativa, sostanziale, inutilità, con tutte le conseguenze di carattere fisico e psicologico che ne possano derivare per il paziente.

Ne consegue che la risarcibilità di tale danno-conseguenza non richiede una prova specifica, essendo integrato dalla sofferenza e dalla contrazione della libertà di disporre di sé, secondo un criterio di regolarità causale (Cass. n. 16503/2017 e Cass. n. 11749/2018).