Il consenso informato in veterinaria: che non resti un perfetto sconosciuto
Il consenso informato in veterinaria: che non resti un perfetto sconosciuto
Premessa sul consenso informato
L’interesse per gli animali è oggi comune al mondo scientifico, alla politica, al potere legislativo, finanche all’industria. Lo è in modo diversificato, a seconda degli interessi in gioco, del punto di osservazione, delle finalità a cui è rivolto secondo una gradazione di comportamenti ritenuti più o meno accettabili.
Uno stesso animale, che sia un cane, un maiale, un cervo è destinatario di differenti trattamenti normativi giustificati dal ruolo che hanno nella comunità. Che quest’ultima ha attribuito loro. Differenze per nulla trascurabili, alla base di quelle differenze di trattamento delle violazioni al benessere animale, qualora esista davvero una significativa definizione di benessere animale che non sia solo quello ritenuto tale dall’uomo.
Questo interesse, anche considerando l’(eccessivo) entusiasmo per la recente modifica costituzionale (articoli 9 e 41), non può non coinvolgere il tema del consenso informato in medicina veterinaria. Un tema delicato. Spesso ignorato. Forse dato per scontato. Temo poco conosciuto, anche tra gli addetti ai lavori. Magari solo erroneamente interpretato. Complici norme che contengono disposizioni rivolte a destinatari non bene individuati.
Un vulnus, la sottovalutazione del consenso informato, per la stessa categoria dei veterinari, verso la quale ne ho sempre sottolineato la lodevole perizia, ma anche per l’animale – quale esso sia – nei confronti del quale viene meno quel dovere di tutela tanto rivendicato. Una grande mancanza di rispetto verso il cliente, “umano”, del veterinario.
Il significato di consenso informato
Il consenso informato in medicina veterinaria si lega inevitabilmente al consenso informato in medicina umana. Medesimo il principio ispiratore dal momento che esso rende lecito ciò che diversamente non lo sarebbe. Non irrilevanti però le differenze di applicazione.
In medicina umana il consenso ha oggi una maggiore evidenza, pur con limiti importanti, che dovrebbe affrancarlo da quella percezione di appesantimento burocratico-amministrativo che invece, per quanto riguarda la medicina veterinaria, accompagna l’inizio di un percorso terapeutico altrettanto importante in favore di un animale.
Una firma, quella del modulo del consenso, non poche volte ancora confusa – se non associata – alla presa visione del preventivo di spesa per le imminenti prestazioni veterinarie. La storia del consenso informato e la sua attuale disciplina (legge n. 219/2017) esprime la storia della evoluzione della responsabilità medica.
Da quando la Cassazione di Napoli scriveva che il medico è responsabile solo per l’animo deliberato del malaffare (1871) sino all’approvazione della legge Gelli-Bianco che introduce il c.d., doppio binario (una responsabilità extracontrattuale per il medico e una responsabilità contrattuale della struttura). Il primato dell’ars medica (e di una consequenziale fisiologica impunità giuridica) si trasforma in quella che viene definita – non so invero quanto realmente percepita – alleanza terapeutica.
L’acquisizione del consenso all’atto terapeutico del sanitario (quindi anche del veterinario) deve essere preceduta da una adeguata informazione in assenza della quale non vi può essere valido consenso. Il vero nervo scoperto è tutto qui, nella adeguatezza della spiegazione. Forse è proprio il termine utilizzato, e cioè “consenso”, a trarre in inganno dal momento che consentire non equivale ad avere inteso cosa ti viene proposto. Quando l’informazione del medico diventa consenso cosciente? E ancora, l’informazione di cui detto viene fatta con il linguaggio di chi ascolta o di chi parla?
È il medico capace di porsi allo stesso livello culturale e ricettivo del paziente il quale, diversamente, continuerà a percepire quella brutta sensazione di essere considerato solamente un numero oppure un nominativo freddamente annotato in cartella clinica? Quel consenso manifestato è sempre attuale nonostante l’approccio terapeutico sia mutato nel corso di una prestazione sanitaria?
Le risposte a questi interrogativi ci danno l’idea di quanto sia complicato parlare di consenso informato.
Ancora di più quando si tratta di consenso informato in medicina veterinaria. Un consenso realmente informato – e quindi correttamente acquisito – trasferisce il rischio delle complicanze dal medico al paziente il quale, manifestatesi le complicanze rese note, non può rivendicare nulla nei confronti del sanitario il quale, conviene ricordarlo, non guadagna una sua immunità da responsabilità professionale per il solo fatto di avere fatto sottoscrivere un (anche) consenso informato.
Non sarà il paziente a dovere dimostrare di non essere stato informato quanto spetterà al medico dimostrare di avere correttamente informato il paziente. Dimostrazione garantita solo da un documento scritto e sottoscritto dal paziente.
La legge n. 219 del 2017 e il consenso informato
La legge che ha disciplinato il consenso informato (che tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona) parrebbe avere omesso qualsiasi riferimento alla professione veterinaria. Una dimenticanza “veniale” che non poche polemiche ha alimentato. Tale atto normativo ha di fatto cristallizzato principi già affermati dagli articoli 13 e 32 della Costituzione, da alcuna giurisprudenza di legittimità, dalla Corte Costituzionale, da alcuna dottrina.
Anche a volere considerare la prassi ospedaliera più ortodossa è difficile immaginare una fedele attuazione della ratio legis sol considerando i tempi che la sanità (pubblica e privata) è in grado di offrire e gestire. Una prospettiva che, applicata alla medicina veterinaria nei cui confronti, come ho già detto, chi scrive ha il massimo rispetto, conduce a riflessioni non trascurabili.
Una medicina veterinaria sempre più lontana dall’immagine poetica del veterinario che interviene nei posti più remoti ottenendo in cambio un amorevole bicchiere di amaro e che si avvicina – ormai eguagliandoli – agli standard organizzativi delle più avanzate strutture (private) per la medicina umana.
Quando si parla di consenso informato ci si riferisce a una serie di informazioni che preludono al consenso e prescindono dalla difficoltà del tipo di intervento terapeutico; una informazione che comprende la diagnosi elaborata, la prognosi riferibile alla prestazione terapeutica proposta e i rischi o complicanze di questa. Solo una informazione così strutturata rende il paziente libero di decidere in assoluta autonomia se sottoporsi o meno all’intervento o prestazione terapeutica.
La violazione di questo precetto sappiamo determinare due diversi tipi di danni. Un danno alla salute, quando sia ragionevole ritenere che il paziente – sul quale grava il relativo onere probatorio – se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento e un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione se, a causa dell’omessa informazione il paziente va incontro ad una situazione pregiudizievole di natura patrimoniale oppure non patrimoniale diversa dalla lesione del diritto alla salute.
Il consenso informato in medicina veterinaria
Evidenti alcune non trascurabili differenze con la medicina umana.
La prima: se in medicina umana l’atto medico è diretto allo stesso paziente che esprime il proprio consenso, nella medicina veterinaria il destinatario delle informazioni è il proprietario dell’animale mentre il destinatario della prestazione sanitaria l’animale.
La seconda: in medicina umana il consenso informato trova la sua legittimazione in fonti costituzionali (articoli 2, 3, 13 e 32 della nostra Costituzione) e (oggi) anche ordinarie (legge n. 219/2017); in medicina veterinaria esso rimane limitato entro (e dal solo) codice deontologico non essendoci una norma giuridica che faccia riferimento al consenso informato come principio.
Inevitabile interrogarsi se il consenso in ambito veterinario esprima solo il perfezionamento del rapporto contrattuale (e professionale) tra veterinario e cliente con l’unica conseguenza “sanzionatoria” di natura deontologica. La tendenza ad adire con frequenza la magistratura anche per malpratica veterinaria rende non sottovalutatile la domanda.
Per alcuni commentatori il consenso informato in medicina veterinaria, lungi dal presupporre una tutela costituzionale quale è quella del diritto alla salute ed alla autodeterminazione rappresenta il momento in cui s’incontrano la proposta terapeutica del veterinario e l’accettazione del cliente. Concetto sintetizzato in modo davvero efficace da alcuno laddove ha scritto che il consenso informato nasce in medicina umana trasformandosi come varca la soglia dell’ambulatorio veterinario, perdendo il crisma che lo consacra espressione di un bene superiore riconosciuto alla persona umana, per diventare, molto pragmaticamente, l’elemento su cui si fonda la validità del contratto tra veterinario e cliente.
Due sono e restano i soggetti coinvolti, veterinario e suo cliente. L’animale resta il destinatario della prestazione. Un non soggetto. Si ripropone, a ben vedere, l’eterno dilemma della soggettività in capo agli animali. Se sia possibile immaginare e sostenere che la titolarità di un diritto sia indipendente dalla condizione di persona umana superando il limite imposto dal nostro ordinamento per cui la condizione di effettività di un diritto è che esso possa esser fatto valere in giudizio nei confronti di coloro che non intendono rispettarlo: che sia cioè – giustiziabile.
Sempre secondo alcuni la via di uscita da questa impasse sarebbe quella dell’istituto della rappresentanza. Pur non intravedendo in questa analogia il tratto dirimente a favore della soggettività in capo agli animali ne riconosco un necessario pregio. E dunque parimenti come accade con i minori o coloro che transitoriamente o in via permanente sono privi di capacità di prestare valido consenso, anche il proprietario di un animale, essere senziente, ma non in grado di esprimere la propria volontà, potrà dare o meno la propria approvazione ad un determinato trattamento veterinario.
Invero credo che un pregio maggior possa avere un’altra interpretazione. Quella alla base del riconoscimento, allo stato solo giurisprudenziale, del danno non patrimoniale nel caso di morte dell’animale d’affezione. Una interpretazione estensiva del principio ormai spesso sancito dalle corti di merito applicato a questa specifica situazione per cui se il diritto del paziente di formulare un consenso informato all’intervento appartiene ai diritti inviolabili della persona, ed è espressione del diritto all’autodeterminazione in ordine a tutte le sfere ed ambiti in cui si svolge la personalità dell’uomo, anche il consenso in medicina veterinaria non può più intendersi come mera e burocratica sorta di liberatoria per il medico quanto invece espressione di tutela massima della autodeterminazione proprio del cliente del veterinario stesso.
La Corte Costituzionale (sent. n. 438 del 2008) espressamente ci dice che il consenso informato è espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, vero e proprio diritto della persona» che trova fondamento nei principi espressi nell’articolo 2.
Gli animali, il riferimento è a quelli d’affezione, sono ormai riconosciuti in diverse sentenze quali componenti dei sistemi sociali e partecipi alle dinamiche affettive degli ambienti familiari, capaci di influenzarne equilibrio e stabilità. Un rapporto senza dubbio coperto da tutela costituzionale dove si inserisce proprio una di quelle attività realizzatrici della persona umana che il richiamato articolo 2 tutela (si veda, tra le tante, sent. n. 191/2020 del Trib. civ. di Novara).
Quelli che restano incerti sono i risultati pratici se, con particolare riferimento alla medicina veterinaria, solo affidati ad asettici e poco intelligibili moduli che non veicolano al destinatario una informazione idonea a porlo nella possibilità di valutarla e di autorizzare o meno la prestazione medica. Così realizzandosi quell’inaccettabile vulnus di cui anticipato nella maniera in cui non si rispetta la dignità dell’animale sottoposto a cure veterinarie, quale essere senziente e dunque capace di provare, come il proprio compagno umano, ogni tipo di sofferenza.