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Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o documenti relativi a operazioni inesistenti e assenza di soglie di punibilità: la norma è costituzionalmente legittima?

Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o documenti relativi a operazioni inesistenti e assenza di soglie di punibilità: la norma è costituzionalmente legittima?
Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o documenti relativi a operazioni inesistenti e assenza di soglie di punibilità: la norma è costituzionalmente legittima?

Il corpus dei reati tributari si compone di due sottocategorie normative, quella dei delitti in materia di dichiarazione (Titolo I) e quella dei delitti in materia di documenti e pagamento di imposte (Titolo II). Nel panorama delle diverse fattispecie incriminatrici che trovano cittadinanza all’interno dei delitti in materia di dichiarazione, al reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti è riservato uno statuto peculiare – come emerge già da una prima e rapida lettura della disposizione di cui all’articolo 2 – il quale si compendia nella circostanza che, a differenza di quanto preveduto agli articoli 3, 4 e 5, l’operatività del delitto delineato all’articolo 2 del Decreto Legislativo 74/2000 non è subordinata al superamento di alcuna soglia di punibilità: ogniqualvolta il contribuente faccia uso di fatture o di altri documenti per dichiarare passività inesistenti in una delle dichiarazioni richiamate dalla norma, tale condotta fraudolenta assumerà sempre rilevanza penale a prescindere dal quantum dell’imposta evasa.

Il sistema sanzionatorio degli illeciti tributari tra offensività ed extrema ratio: cenni.

La repressione degli illeciti tributari è stata tradizionalmente affidata alla previsione tanto di sanzioni amministrative, quanto di sanzioni penali, e la creazione di un doppio livello di intervento ha sollecitato ampie riflessioni in ordine alle modalità con le quali garantire un adeguato coordinamento tra l’attivazione dello strumentario amministrativo e dell’arsenale penale: ciò nella prospettiva di calibrare un meccanismo sanzionatorio ispirato a un canone di proporzionalità della reazione ordinamentale dinanzi a condotte che, pur incidendo sempre sull’interesse erariale alla corretta percezione dei tributi, presentano di volta in volta un differente indice di gravità[1].

Tenuto conto della diversa invasività con cui le due tipologie sanzionatorie – penale e amministrativa – incidono sulla sfera individuale, nonché dei fondamentali criteri dell’offensività e della extrema ratio che dovrebbero guidare il legislatore nelle scelte di politica criminale, la coerente definizione dei rapporti tra sanzione amministrativa e sanzione penale impone di restringere l’area di intervento di quest’ultima ai soli casi connotati da un maggior grado di disvalore, ricorrendo invece alla sanzione amministrativa nelle altre ipotesi[2].

In buona sostanza è questa la logica che sottende all’introduzione delle soglie di punibilità nei reati tributari: fermo restando che tutte le condotte evasive incidono astrattamente sul medesimo bene giuridico (la corretta percezione dei tributi), tuttavia non ogni evasione di imposta è concretamente idonea ad arrecare un’offesa tale da giustificare il ricorso alla sanzione penale. Di qui, l’utilizzo delle soglie di punibilità quale vero e proprio metronomo della rilevanza penale delle evasioni commesse, come si evince da una lettura complessiva degli interventi legislativi succedutisi nel settore degli illeciti tributari, connotati da un andamento “sinusoidale” del quantum della soglia: innalzando o abbassando l’entità della medesima, il legislatore ha di volta in volta ampliato o ristretto l’area di intervento del giure punitivo.

Va peraltro segnalato che la tendenza legislativa più recente – lungi dal riflettere quei canoni dell’offensività e dell’extrema ratio che dovrebbero presiedere la materia penale – era orientata verso l’abbassamento delle soglie di punibilità, con parallela enfatizzazione della funzione general-preventiva della sanzione penale, intesa quale unico fattore idoneo a indurre i contribuenti ad adempiere agli obblighi tributari. L’allargamento del penalmente rilevante e il contestuale restringimento dell’area di intervento amministrativa ha recato con sé una forte sperequazione tra gravità delle condotte realizzate e severità della sanzione irrogata, al punto che il legislatore stesso ha ritenuto necessario intervenire per ricalibrare il sistema sanzionatorio degli illeciti tributari[3].

Con l’articolo 8, comma 1, della Legge Delega n. 23 del 11/03/2014, il Governo è stato infatti chiamato a procedere a una «revisione del sistema sanzionatorio penale tributario secondo criteri di predeterminazione e di proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti», in particolare prevedendo «la punibilità con la pena detentiva compresa fra un minimo di sei mesi e un massimo di sei anni, dando rilievo, tenuto conto di adeguate soglie di punibilità, alla configurazione del reato per i comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all'utilizzo di documentazione falsa». Il legislatore delegato ha quindi disposto – con il Decreto Legislativo 24 settembre 2015, n. 158 – un generalizzato innalzamento delle soglie di punibilità prevedute per i reati di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (articolo 3: ferma la soglia sub a), pari a 30.000 euro, l’innalzamento ha riguardato la soglia sub b), elevata da 1 milione di euro a 1 milione e 500.000 euro), dichiarazione infedele (articolo 4: da 50.000 euro a 150.000 euro per singola imposta e, per la seconda soglia da 2.000.000 milioni a 3.000.000 di elementi attivi sottratti all’imposizione), di omessa dichiarazione (articolo 5: da 30.000 euro a 50.000 euro, anche nell’ipotesi di cui al comma 2), di omesso versamento delle ritenute dovute o certificate (articolo 10-bis: la soglia passa da 50.000 a 150.000 euro) e di omesso versamento Iva (articolo 10-ter: la soglia sale da 50.000 a 250.000 euro). Invariate sono rimaste le soglie di punibilità stabilite per i delitti di indebita compensazione (articolo 10-quater) e di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (articolo 11). Infine, nessuna modificazione ha toccato la struttura dei delitti preveduti agli articoli 2 e 8 del Decreto Legislativo 74/2000, i quali continuano a non prevedere alcuna soglia di punibilità.

Il delitto di dichiarazione

Il delitto di dichiarazione infedele ex articolo 2 rappresenta (assieme al delitto “inverso” dell’articolo 8) la fattispecie più gravemente sanzionata tra quelle contemplate dal Decreto Legislativo 74/2000, in quanto alla severa cornice edittale stabilita dal legislatore (pena della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni) si accompagna l’assenza di soglie minime di punibilità.

Tale assetto strutturale della fattispecie è tradizionalmente giustificato argomentando dalla peculiare modalità con la quale la condotta evasiva viene realizzata, ossia mediante l’uso di fatture o altri documenti relativi ad operazioni inesistenti: questo modus operandi del contribuente sarebbe infatti idoneo a creare un grave ostacolo all’attività di accertamento tributario svolta dall’Amministrazione finanziaria, sicché l’insidiosità della condotta delineata all’articolo 2 sarebbe sintomatica di una offensività intrinseca tale da legittimare il ricorso alla sanzione penale, a prescindere dall’entità – anche irrisoria – dell’importo evaso.

Tale discrasia tra «“disvalore di evento” (che rimane confinato, tutt’al più, ad un semplice pericolo concreto, richiamato dal dolo specifico di evasione) e “disvalore di condotta” (insito nella connotazione fraudolenta del comportamento del soggetto attivo)» trovava peraltro un parziale temperamento nell’originaria previsione del comma 3 dell’articolo 2, in virtù del quale «se l’ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a euro 154.937,07, si applica la reclusione da sei mesi a due anni»: pur senza intaccare la rilevanza esclusivamente penale della condotta tipizzata, il legislatore aveva così ridimensionato «la tensione con i principi di offensività e di sussidiarietà, determinata dalla scelta di prescindere […] da soglie di punibilità»[4].

Nel solco del generale inasprimento sanzionatorio che ha ispirato il Decreto Legge 138/2011 (convertito con modifiche con Legge 14 settembre 2011, n. 148), il comma 3 dell’articolo 2 (e analoga sorte ha investito il comma 3 dell’articolo 8) è stato oggetto di intervento abrogativo da parte del legislatore. La volontà di approntare un corredo sanzionatorio più intenso è stata dunque realizzata mediante l’eliminazione dell’unico elemento normativo in grado di “salvare” la disposizione da eventuali stimmati di irrazionalità, sub specie della violazione dei principi di offensività e sussidiarietà, specialmente laddove la fattispecie di cui all’articolo 2 fosse stata comparata con quelle limitrofe degli articoli 3 e 4: nella stessa Relazione dell’Ufficio del Massimario era stato del resto osservato che «l’eliminazione delle ipotesi attenuate non potrà non esaltare la vistosa differenza esistente, quanto meno in astratto, tra il trattamento sanzionatorio riservato al reato di presentazione di una dichiarazione fraudolenta con utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, anche di modestissimo importo e quello previsto per il delitto di omessa dichiarazione»[5], la cui punibilità era all’epoca ancorata a un importo di evasione pari almeno a 30.000 euro.

L’assetto strutturale dell’articolo 2, così come risultante dall’intervento del 2011, è rimasto pressoché immutato a seguito della revisione del sistema sanzionatorio tributario[6], di talché, considerato che per gli altri delitti preveduti dal Decreto Legislativo 74/2000 è stato invece disposto un generalizzato innalzamento delle soglie di punibilità – con parallela riduzione dell’area di operatività dei delitti preveduti –, risulta ancor più accentuata la severità del trattamento sanzionatorio, di matrice esclusivamente penale, stabilito per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Con l’ulteriore conseguenza che, in relazione a ipotesi di evasione quantitativamente minimali, la fattispecie di cui all’articolo 2 rischia di porsi in tensione con i principi di offensività ed extrema ratio dell’intervento penale, declinati nella prospettiva della necessaria proporzionalità tra gravità dell’offesa ed severità della reazione sanzionatoria.

La questione di legittimità costituzionale

Nel contesto delle sintetiche osservazioni ora svolte si colloca la notizia della formulazione – dinanzi al Tribunale monocratico di Venezia – di una questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2, Decreto Legislativo 74/2000, per violazione degli artt. 3 e 76 Cost., nella parte in cui non prevede alcuna soglia di punibilità, al superamento della quale ancorare l’applicazione della sanzione penale.

La vicenda giudiziaria che ha occasionato la questione concerneva la contestazione del reato di dichiarazione fraudolenta ex articolo 2 in capo a un soggetto che, in qualità di legale rappresentante di una ditta individuale e avvalendosi di documenti attestanti operazioni inesistenti, indicava nella dichiarazione dei redditi per il 2008 costi passivi fittizi pari a circa 20 mila euro e, nella dichiarazione dei redditi per il 2009, costi passivi fittizi per una cifra di circa cinquecento euro. Considerato che la prima evasione, quella del 2008, risultava ormai prescritta, l’intera contestazione ha finito per orbitare attorno all’evasione del 2009.

La questione di legittimità trae origine dalla sproporzione che intercorre tra l’esiguità dell’offesa arrecata agli interessi erariali – compendiata in una evasione di poche centinaia di euro – e la gravità delle conseguenze sanzionatorie previste dall’ordinamento – consistenti nell’esclusiva attivazione del giure punitivo –. Il difensore ritiene in particolare che la struttura ed il trattamento sanzionatorio stabiliti per l’articolo 2 prestino il fianco a una stimmate di irragionevolezza – ex articolo 3 Cost. – la quale emergerebbe non solo in base alla mancanza di proporzionalità tra offensività della condotta concreta e afflittività della sanzione irrogata, ma altresì da un raffronto con la disciplina sanzionatoria delineata nelle fattispecie incriminatrici limitrofe, tipizzate agli articoli 3, 4 e 5 del Decreto Legislativo n. 74/2000.

In quest’ultima direzione, si ritiene che il legislatore, nell’esercitare la propria discrezionalità normativa, abbia ecceduto il perimetro della ragionevolezza poiché, pur a fronte di fattispecie poste a presidio della medesima oggettività giuridica – l’interesse erariale alla corretta percezione dei tributi –, ha preveduto un corredo sanzionatorio estremamente diversificato allorché si ragioni di evasioni di imposta di entità assolutamente minimale. Prendendo a confronto i due delitti contemplati, rispettivamente, agli articoli 2 e 3 del Decreto Legislativo 74/2000, il proponente sottolinea un’evidente disparità: nel caso di indebito risparmio di imposta complessivamente inferiore ai 30.000,00 euro (soglia limite preveduta dall’articolo 3), l’evasione realizzata mediante «altri artifici» comporta una violazione adeguatamente sanzionabile in via solo amministrativa, laddove al contrario un’evasione della medesima entità, commessa però «mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti», determina l’irrogazione della sola ed esclusiva sanzione penale. A fronte di una lesione sostanzialmente omogenea dell’interesse statale alla percezione dei tributi, non pare che le differenti modalità con le quali è commesso il fatto presentino dei tratti differenziali così marcati da poter giustificare una risposta sanzionatoria a tal punto diversificata da parte dell’ordinamento. E l’irrazionalità della discrasia sanzionatoria si palesa anche qualora si dovesse volgere l’attenzione ai differenti requisiti quantitativi postulati dall’articolo 4 – in relazione al quale la sanzione penale opera solo qualora l’imposta evasa superi i 150.000 euro – o dall’articolo 5 – ipotesi avente rilevanza penale solo laddove venga superata la soglia di 50.000 euro –.

Tale disparità di trattamento si tradurrebbe in una violazione dell’articolo 3 Cost., nella misura in cui l’articolo 2, non prevedendo una soglia minima di punibilità, rimette in via esclusiva al giure punitivo – per definizione lo strumento maggiormente afflittivo dell’intero repertorio sanzionatorio ordinamentale – la repressione di fatti veicolanti una carica offensiva modesta – se non del tutto irrisoria, come nel caso di specie – nei confronti del bene giuridico tutelato, rinunciando all’attivazione della meno afflittiva sanzione amministrativa, al contrario pur preveduta agli articoli 3, 4 e 5 per evasioni di imposta inferiori – rispettivamente – a 30.000 euro, 150.000 euro e 50.000 euro.

In una diversa prospettiva, la difesa trae ulteriore argomento a sostegno dell’illegittimità costituzionale dell’articolo 2 ragionando sui criteri di revisione del sistema sanzionatorio tributario, così come delineati dal Parlamento nella succitata legge delega e così come poi attuati dal legislatore delegato. La delega parlamentare individuava infatti nella «proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti» un canone fondamentale che avrebbe dovuto guidare il Governo nell’opera di revisione, precisando che, nella delimitazione dell’area di intervento del diritto penale – in particolare al fine di configurare i reati concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all'utilizzo di documentazione falsa – avrebbe dovuto tener conto di adeguate soglie di punibilità.

Dall’angolo visuale del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, tali principi-guida non hanno trovato riscontro in sede di attuazione della legge delega. Il Governo non ha infatti ritenuto di introdurre una soglia di punibilità per il delitto in esame, al superamento della quale ancorare l’attivazione della sanzione penale: scelta ancor più eccentrica, qualora si consideri il generalizzato innalzamento delle originarie soglie di punibilità previste per gli altri reati tributari.

Per tale via, oltre a risultare corroborata l’impressione che il legislatore abbia rinunciato a uniformare il delitto di cui all’articolo 2, Decreto Legislativo 74/2000, al principio di proporzionalità – posto che la reazione sanzionatoria resta compresa nei limiti edittali attualmente previsti a prescindere dalla quantificazione dell’evasione e, quindi, dall’intensità dell’offesa arrecata con la condotta delittuosa – pare profilarsi altresì una violazione dell’articolo 76 Cost. per mancato esercizio della delega legislativa sugli elementi citati.

L’organo giudicante non ha tuttavia ritenuto di condividere le argomentazioni della difesa, dichiarando infondata la questione di legittimità prospettata[7].

Il giudice veneziano osserva, in particolare, che la scelta legislativa di affidare la reazione ordinamentale alla sola sanzione penale nelle ipotesi disciplinate all’articolo 2 sarebbe giustificata alla luce della peculiare insidiosità della condotta ivi tipizzata: di qui il rispetto del canone di proporzionalità tra offesa e sanzione. Inoltre – a parere del giudicante – il principio di offensività risulta salvaguardato, non solo in quanto la cornice edittale fissata dall’articolo 2 si estende tra un minimo ed un massimo “ragionevoli”, ma altresì considerando che ai reati fiscali può essere applicato l’istituto della particolare tenuità del fatto.

Pare opportuno soffermarsi, pur brevemente, su quest’ultima affermazione. L’istituto delineato dall’articolo 131-bis del codice penale opera con riferimento ai soli reati «per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni»: platea all’interno della quale non rientra il delitto di dichiarazione infedele ex articolo 2, per il quale il legislatore ha fissato in sei anni la pena detentiva massima. Conseguentemente, non sembrerebbe del tutto puntuale il richiamo alla particolare tenuità del fatto quale istituto astrattamente in grado di riallineare la fattispecie in esame ai dettami del principio di offensività.

Infine, per quel che concerne la mancata previsione di soglie di punibilità all’articolo 2, l’infondatezza della questione di legittimità viene argomentata richiamando – non senza alcune ambiguità nella redazione materiale del punto, tali da far residuare alcune incertezze di decifrazione – la sentenza n. 80 del 2014, con la quale il Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 nella parte in cui, con riferimento ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, punisce l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi non superiori, per ciascun periodo di imposta, ad euro 103.291,38. La Corte costituzionale – afferma il giudice di Venezia – ha ravvisato l’illegittimità del regime sanzionatorio dell’articolo 10-ter proprio alla luce della peculiarità degli elementi costitutivi dell’articolo 2, che si connotano per una maggiore gravità rispetto ai reati di cui all’articolo 5, oltre che ai delitti disciplinati agli articoli 10-ter e 10-bis.

In realtà non sembra che la pronuncia della Consulta sia stata correttamente citata. Nell’arresto del 2014 il giudice di Palazzo della Consulta giunge a una declaratoria di illegittimità costituzionale valorizzando il difetto di coordinamento intercorrente tra la soglia di punibilità prevista dall’articolo 10-ter e quelle dei delitti di infedele e omessa dichiarazione (artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 74 del 2000): tale distonia sarebbe infatti foriera di sperequazioni sanzionatorie che, per la loro manifesta irragionevolezza, rendevano censurabile l’esercizio della discrezionalità pure spettante al legislatore nella configurazione delle fattispecie astratte di reato. La rilevata discrasia determinava, infatti, una conseguenza palesemente illogica e lesiva del principio di eguaglianza (articolo 3 Cost.) nel caso in cui l’IVA dovuta dal contribuente si situasse nell’intervallo tra l’una e le altre soglie. In tale evenienza, veniva trattato in modo deteriore chi avesse presentato regolarmente la dichiarazione IVA senza versare l’importo di cui si era riconosciuto debitore, rispetto a chi non avesse presentato affatto la dichiarazione, o avesse presentato una dichiarazione inveritiera, evadendo del pari l’imposta: nel primo caso, il contribuente avrebbe dovuto rispondere del delitto di omesso versamento dell’IVA; nel secondo sarebbe andato invece esente da pena, non risultando superate le soglie di punibilità previste per l’omessa o infedele dichiarazione. Esito evidentemente poco coerente, posto che gli illeciti previsti dagli articoli 4 e 5 risultano più gravi del primo, sul piano dell’attitudine lesiva degli interessi del fisco, in quanto idonei – diversamente da quello – ad ostacolare l’accertamento dell’evasione da parte dell’amministrazione finanziaria.

Tanto premesso, la Corte costituzionale riconosce che «una disparità di trattamento similare si riscontra, in verità, anche con riferimento al delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, previsto dall’articolo 3 del Decreto Legislativo n. 74 del 2000»: disparità che, invece, non si ravvisa «con riguardo al delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, di cui all’articolo 2, che è privo di soglia». A ben vedere, il Giudice delle leggi si è qui limitato a riscontrare il dato normativo dell’assenza di soglie di punibilità nella struttura dell’articolo 2, senza tuttavia soffermarsi a ragionare sul perché tale delitto non contempli alcuna soglia di punibilità: non vi è dunque alcun riferimento alla particolare gravità che connota la condotta di dichiarazione fraudolenta ex articolo 2.

Ma, anche a voler ipoteticamente abbracciare la lettura della sentenza n. 84/2014 offerta dal giudice veneziano, resta non convincente il ragionamento da quest’ultimo seguito. Se infatti si può eventualmente concordare che l’assenza di soglie di punibilità nell’articolo 2 possa trovare giustificazione qualora tale delitto venga comparato con gli illeciti di cui agli articoli 10-bis e 10-ter, a tal fine risultando dirimente la maggior insidiosità della condotta preveduta dalla prima disposizione, il medesimo argomento sembra meno pregnante allorché si restringa la comparazione dell’articolo 2 con il delitto di cui all’articolo 3. Si tratta infatti di reati assai simili, non solo a livello strutturale[8] ma anche dal punto di vista dell’offesa arrecata, i quali differiscono unicamente in punto a concreta modalità attraverso la quale si realizza la condotta fraudolenta: mediante «fatture o altri documenti per operazioni inesistenti», nell’articolo 2; attraverso «operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti» nell’articolo 3[9]. In tal senso non sembra che il Tribunale abbia addotto elementi sufficienti a superare l’osservazione formulata dalla difesa, allorché quest’ultima ha posto l’attenzione sulla discrasia intercorrente tra la vicinanza “sostanziale” delle due fattispecie – rispettivamente disciplinate agli artt. 2 e 3 – e la parallela, notevole, divergenza sanzionatoria statuita dal legislatore.

 

[1] Sulle evoluzione del diritto penal-tributario, ex multis, Coppa-Sammartino, voce Sanzioni tributarie, in Enc. Dir., vol. XLI, Milano, 1989, 415 ss; Martini, Reati in materia di finanze e tributi, in Grosso-Padovani-Pagliaro (a cura di), Trattato di diritto penale. Parte speciale, Milano, 2010, 1 ss.; Perini, voce Reati tributari, in Dig. disc. pen., Agg. VII, Torino, 2013, 479 ss.

[2] Cfr. Marello, Evanescenza del principio di specialità e dissoluzione del doppio binario: le ragioni per una riforma del sistema punitivo penale tributario, in Riv. dir. trib., 2013, 13, 269.

[3] Sul punto, Perrone, La nuova disciplina dei reati tributari: “luci” ed “ombre” di una riforma appena varata, in Riv. dir. trib., 2015, 4, 62-64.

[4] Lanzi-Aldrovandi, Diritto penale tributario, Cedam, Padova, 2014, 225-226.

[5] Ufficio del Massimario, Relazione n. III/13/2011, 20 settembre 2011, 6.

[6] L’unica modifica che ha toccato la disposizione in esame concerne l’ampliamento del novero delle dichiarazioni rilevanti al fine del reato ivi previsto, mediante l’eliminazione dell’aggettivo “annuale”. Come osservato nella Relazione del Massimario (Relazione n. III/05/2015, 28 ottobre 2015, 11) «il delitto in questione può dunque ora perfezionarsi con qualunque dichiarazione, fra le quali rientrano, a titolo meramente esemplificativo, le dichiarazione dei redditi ed IRAP infra-annuali conseguenti alla messa in liquidazione di una società, le dichiarazioni nell’ipotesi di trasformazione, fusione e scissione societaria, le dichiarazione di operazioni intracomunitarie relative agli acquisti, le dichiarazioni mensili di acquisti di beni e servizi compiuti da enti o altre associazioni non soggetti passivi di imposta. Il campo di applicazione della norma risulta dunque ampliato, ma non, naturalmente, con efficacia retroattiva, trattandosi di nuova incriminazione, anche se parziale».

[7] Trib. Venezia, 12 luglio 2016.

[8] Sulla sostanziale coincidenza strutturale dei delitti preveduti agli artt. 2 e 3, d.lgs. 74/2000, cfr. Cass., sez. III, 15 dicembre 2015, n. 8668, con nota di Fontana, La Cassazione tratteggia i confini delle fattispecie di cui agli artt. 2, 3 e 11 d.lgs.74/2000, dopo la recente novella, in Dir. giust., 2016, 13, 38 ss.

[9] Si noti peraltro che in entrambi i casi la condotta realizzata si traduce in un rallentamento delle attività di indagine poste in essere dall’Amministrazione finanziaria, dal momento che il contribuente finisce per rendere più difficoltoso l’accertamento tributario. Tale ostacolo risulta essere – per così dire – in re ipsa, allorché l’agente faccia uso di documenti o fatture per operazioni inesistenti (art. 2), mentre è espressamente richiesto per l’integrazione del delitto ex art. 3: la condotta ivi delineata postula o il ricorso a operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente, oppure l’utilizzo di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti che siano «idonei ad ostacolare l'accertamento e ad indurre in errore l'amministrazione finanziaria».

Il corpus dei reati tributari si compone di due sottocategorie normative, quella dei delitti in materia di dichiarazione (Titolo I) e quella dei delitti in materia di documenti e pagamento di imposte (Titolo II). Nel panorama delle diverse fattispecie incriminatrici che trovano cittadinanza all’interno dei delitti in materia di dichiarazione, al reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti è riservato uno statuto peculiare – come emerge già da una prima e rapida lettura della disposizione di cui all’articolo 2 – il quale si compendia nella circostanza che, a differenza di quanto preveduto agli articoli 3, 4 e 5, l’operatività del delitto delineato all’articolo 2 del Decreto Legislativo 74/2000 non è subordinata al superamento di alcuna soglia di punibilità: ogniqualvolta il contribuente faccia uso di fatture o di altri documenti per dichiarare passività inesistenti in una delle dichiarazioni richiamate dalla norma, tale condotta fraudolenta assumerà sempre rilevanza penale a prescindere dal quantum dell’imposta evasa.

Il sistema sanzionatorio degli illeciti tributari tra offensività ed extrema ratio: cenni.

La repressione degli illeciti tributari è stata tradizionalmente affidata alla previsione tanto di sanzioni amministrative, quanto di sanzioni penali, e la creazione di un doppio livello di intervento ha sollecitato ampie riflessioni in ordine alle modalità con le quali garantire un adeguato coordinamento tra l’attivazione dello strumentario amministrativo e dell’arsenale penale: ciò nella prospettiva di calibrare un meccanismo sanzionatorio ispirato a un canone di proporzionalità della reazione ordinamentale dinanzi a condotte che, pur incidendo sempre sull’interesse erariale alla corretta percezione dei tributi, presentano di volta in volta un differente indice di gravità[1].

Tenuto conto della diversa invasività con cui le due tipologie sanzionatorie – penale e amministrativa – incidono sulla sfera individuale, nonché dei fondamentali criteri dell’offensività e della extrema ratio che dovrebbero guidare il legislatore nelle scelte di politica criminale, la coerente definizione dei rapporti tra sanzione amministrativa e sanzione penale impone di restringere l’area di intervento di quest’ultima ai soli casi connotati da un maggior grado di disvalore, ricorrendo invece alla sanzione amministrativa nelle altre ipotesi[2].

In buona sostanza è questa la logica che sottende all’introduzione delle soglie di punibilità nei reati tributari: fermo restando che tutte le condotte evasive incidono astrattamente sul medesimo bene giuridico (la corretta percezione dei tributi), tuttavia non ogni evasione di imposta è concretamente idonea ad arrecare un’offesa tale da giustificare il ricorso alla sanzione penale. Di qui, l’utilizzo delle soglie di punibilità quale vero e proprio metronomo della rilevanza penale delle evasioni commesse, come si evince da una lettura complessiva degli interventi legislativi succedutisi nel settore degli illeciti tributari, connotati da un andamento “sinusoidale” del quantum della soglia: innalzando o abbassando l’entità della medesima, il legislatore ha di volta in volta ampliato o ristretto l’area di intervento del giure punitivo.

Va peraltro segnalato che la tendenza legislativa più recente – lungi dal riflettere quei canoni dell’offensività e dell’extrema ratio che dovrebbero presiedere la materia penale – era orientata verso l’abbassamento delle soglie di punibilità, con parallela enfatizzazione della funzione general-preventiva della sanzione penale, intesa quale unico fattore idoneo a indurre i contribuenti ad adempiere agli obblighi tributari. L’allargamento del penalmente rilevante e il contestuale restringimento dell’area di intervento amministrativa ha recato con sé una forte sperequazione tra gravità delle condotte realizzate e severità della sanzione irrogata, al punto che il legislatore stesso ha ritenuto necessario intervenire per ricalibrare il sistema sanzionatorio degli illeciti tributari[3].

Con l’articolo 8, comma 1, della Legge Delega n. 23 del 11/03/2014, il Governo è stato infatti chiamato a procedere a una «revisione del sistema sanzionatorio penale tributario secondo criteri di predeterminazione e di proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti», in particolare prevedendo «la punibilità con la pena detentiva compresa fra un minimo di sei mesi e un massimo di sei anni, dando rilievo, tenuto conto di adeguate soglie di punibilità, alla configurazione del reato per i comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all'utilizzo di documentazione falsa». Il legislatore delegato ha quindi disposto – con il Decreto Legislativo 24 settembre 2015, n. 158 – un generalizzato innalzamento delle soglie di punibilità prevedute per i reati di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (articolo 3: ferma la soglia sub a), pari a 30.000 euro, l’innalzamento ha riguardato la soglia sub b), elevata da 1 milione di euro a 1 milione e 500.000 euro), dichiarazione infedele (articolo 4: da 50.000 euro a 150.000 euro per singola imposta e, per la seconda soglia da 2.000.000 milioni a 3.000.000 di elementi attivi sottratti all’imposizione), di omessa dichiarazione (articolo 5: da 30.000 euro a 50.000 euro, anche nell’ipotesi di cui al comma 2), di omesso versamento delle ritenute dovute o certificate (articolo 10-bis: la soglia passa da 50.000 a 150.000 euro) e di omesso versamento Iva (articolo 10-ter: la soglia sale da 50.000 a 250.000 euro). Invariate sono rimaste le soglie di punibilità stabilite per i delitti di indebita compensazione (articolo 10-quater) e di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (articolo 11). Infine, nessuna modificazione ha toccato la struttura dei delitti preveduti agli articoli 2 e 8 del Decreto Legislativo 74/2000, i quali continuano a non prevedere alcuna soglia di punibilità.

Il delitto di dichiarazione

Il delitto di dichiarazione infedele ex articolo 2 rappresenta (assieme al delitto “inverso” dell’articolo 8) la fattispecie più gravemente sanzionata tra quelle contemplate dal Decreto Legislativo 74/2000, in quanto alla severa cornice edittale stabilita dal legislatore (pena della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni) si accompagna l’assenza di soglie minime di punibilità.

Tale assetto strutturale della fattispecie è tradizionalmente giustificato argomentando dalla peculiare modalità con la quale la condotta evasiva viene realizzata, ossia mediante l’uso di fatture o altri documenti relativi ad operazioni inesistenti: questo modus operandi del contribuente sarebbe infatti idoneo a creare un grave ostacolo all’attività di accertamento tributario svolta dall’Amministrazione finanziaria, sicché l’insidiosità della condotta delineata all’articolo 2 sarebbe sintomatica di una offensività intrinseca tale da legittimare il ricorso alla sanzione penale, a prescindere dall’entità – anche irrisoria – dell’importo evaso.

Tale discrasia tra «“disvalore di evento” (che rimane confinato, tutt’al più, ad un semplice pericolo concreto, richiamato dal dolo specifico di evasione) e “disvalore di condotta” (insito nella connotazione fraudolenta del comportamento del soggetto attivo)» trovava peraltro un parziale temperamento nell’originaria previsione del comma 3 dell’articolo 2, in virtù del quale «se l’ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a euro 154.937,07, si applica la reclusione da sei mesi a due anni»: pur senza intaccare la rilevanza esclusivamente penale della condotta tipizzata, il legislatore aveva così ridimensionato «la tensione con i principi di offensività e di sussidiarietà, determinata dalla scelta di prescindere […] da soglie di punibilità»[4].

Nel solco del generale inasprimento sanzionatorio che ha ispirato il Decreto Legge 138/2011 (convertito con modifiche con Legge 14 settembre 2011, n. 148), il comma 3 dell’articolo 2 (e analoga sorte ha investito il comma 3 dell’articolo 8) è stato oggetto di intervento abrogativo da parte del legislatore. La volontà di approntare un corredo sanzionatorio più intenso è stata dunque realizzata mediante l’eliminazione dell’unico elemento normativo in grado di “salvare” la disposizione da eventuali stimmati di irrazionalità, sub specie della violazione dei principi di offensività e sussidiarietà, specialmente laddove la fattispecie di cui all’articolo 2 fosse stata comparata con quelle limitrofe degli articoli 3 e 4: nella stessa Relazione dell’Ufficio del Massimario era stato del resto osservato che «l’eliminazione delle ipotesi attenuate non potrà non esaltare la vistosa differenza esistente, quanto meno in astratto, tra il trattamento sanzionatorio riservato al reato di presentazione di una dichiarazione fraudolenta con utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, anche di modestissimo importo e quello previsto per il delitto di omessa dichiarazione»[5], la cui punibilità era all’epoca ancorata a un importo di evasione pari almeno a 30.000 euro.

L’assetto strutturale dell’articolo 2, così come risultante dall’intervento del 2011, è rimasto pressoché immutato a seguito della revisione del sistema sanzionatorio tributario[6], di talché, considerato che per gli altri delitti preveduti dal Decreto Legislativo 74/2000 è stato invece disposto un generalizzato innalzamento delle soglie di punibilità – con parallela riduzione dell’area di operatività dei delitti preveduti –, risulta ancor più accentuata la severità del trattamento sanzionatorio, di matrice esclusivamente penale, stabilito per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Con l’ulteriore conseguenza che, in relazione a ipotesi di evasione quantitativamente minimali, la fattispecie di cui all’articolo 2 rischia di porsi in tensione con i principi di offensività ed extrema ratio dell’intervento penale, declinati nella prospettiva della necessaria proporzionalità tra gravità dell’offesa ed severità della reazione sanzionatoria.

La questione di legittimità costituzionale

Nel contesto delle sintetiche osservazioni ora svolte si colloca la notizia della formulazione – dinanzi al Tribunale monocratico di Venezia – di una questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2, Decreto Legislativo 74/2000, per violazione degli artt. 3 e 76 Cost., nella parte in cui non prevede alcuna soglia di punibilità, al superamento della quale ancorare l’applicazione della sanzione penale.

La vicenda giudiziaria che ha occasionato la questione concerneva la contestazione del reato di dichiarazione fraudolenta ex articolo 2 in capo a un soggetto che, in qualità di legale rappresentante di una ditta individuale e avvalendosi di documenti attestanti operazioni inesistenti, indicava nella dichiarazione dei redditi per il 2008 costi passivi fittizi pari a circa 20 mila euro e, nella dichiarazione dei redditi per il 2009, costi passivi fittizi per una cifra di circa cinquecento euro. Considerato che la prima evasione, quella del 2008, risultava ormai prescritta, l’intera contestazione ha finito per orbitare attorno all’evasione del 2009.

La questione di legittimità trae origine dalla sproporzione che intercorre tra l’esiguità dell’offesa arrecata agli interessi erariali – compendiata in una evasione di poche centinaia di euro – e la gravità delle conseguenze sanzionatorie previste dall’ordinamento – consistenti nell’esclusiva attivazione del giure punitivo –. Il difensore ritiene in particolare che la struttura ed il trattamento sanzionatorio stabiliti per l’articolo 2 prestino il fianco a una stimmate di irragionevolezza – ex articolo 3 Cost. – la quale emergerebbe non solo in base alla mancanza di proporzionalità tra offensività della condotta concreta e afflittività della sanzione irrogata, ma altresì da un raffronto con la disciplina sanzionatoria delineata nelle fattispecie incriminatrici limitrofe, tipizzate agli articoli 3, 4 e 5 del Decreto Legislativo n. 74/2000.

In quest’ultima direzione, si ritiene che il legislatore, nell’esercitare la propria discrezionalità normativa, abbia ecceduto il perimetro della ragionevolezza poiché, pur a fronte di fattispecie poste a presidio della medesima oggettività giuridica – l’interesse erariale alla corretta percezione dei tributi –, ha preveduto un corredo sanzionatorio estremamente diversificato allorché si ragioni di evasioni di imposta di entità assolutamente minimale. Prendendo a confronto i due delitti contemplati, rispettivamente, agli articoli 2 e 3 del Decreto Legislativo 74/2000, il proponente sottolinea un’evidente disparità: nel caso di indebito risparmio di imposta complessivamente inferiore ai 30.000,00 euro (soglia limite preveduta dall’articolo 3), l’evasione realizzata mediante «altri artifici» comporta una violazione adeguatamente sanzionabile in via solo amministrativa, laddove al contrario un’evasione della medesima entità, commessa però «mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti», determina l’irrogazione della sola ed esclusiva sanzione penale. A fronte di una lesione sostanzialmente omogenea dell’interesse statale alla percezione dei tributi, non pare che le differenti modalità con le quali è commesso il fatto presentino dei tratti differenziali così marcati da poter giustificare una risposta sanzionatoria a tal punto diversificata da parte dell’ordinamento. E l’irrazionalità della discrasia sanzionatoria si palesa anche qualora si dovesse volgere l’attenzione ai differenti requisiti quantitativi postulati dall’articolo 4 – in relazione al quale la sanzione penale opera solo qualora l’imposta evasa superi i 150.000 euro – o dall’articolo 5 – ipotesi avente rilevanza penale solo laddove venga superata la soglia di 50.000 euro –.

Tale disparità di trattamento si tradurrebbe in una violazione dell’articolo 3 Cost., nella misura in cui l’articolo 2, non prevedendo una soglia minima di punibilità, rimette in via esclusiva al giure punitivo – per definizione lo strumento maggiormente afflittivo dell’intero repertorio sanzionatorio ordinamentale – la repressione di fatti veicolanti una carica offensiva modesta – se non del tutto irrisoria, come nel caso di specie – nei confronti del bene giuridico tutelato, rinunciando all’attivazione della meno afflittiva sanzione amministrativa, al contrario pur preveduta agli articoli 3, 4 e 5 per evasioni di imposta inferiori – rispettivamente – a 30.000 euro, 150.000 euro e 50.000 euro.

In una diversa prospettiva, la difesa trae ulteriore argomento a sostegno dell’illegittimità costituzionale dell’articolo 2 ragionando sui criteri di revisione del sistema sanzionatorio tributario, così come delineati dal Parlamento nella succitata legge delega e così come poi attuati dal legislatore delegato. La delega parlamentare individuava infatti nella «proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti» un canone fondamentale che avrebbe dovuto guidare il Governo nell’opera di revisione, precisando che, nella delimitazione dell’area di intervento del diritto penale – in particolare al fine di configurare i reati concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all'utilizzo di documentazione falsa – avrebbe dovuto tener conto di adeguate soglie di punibilità.

Dall’angolo visuale del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, tali principi-guida non hanno trovato riscontro in sede di attuazione della legge delega. Il Governo non ha infatti ritenuto di introdurre una soglia di punibilità per il delitto in esame, al superamento della quale ancorare l’attivazione della sanzione penale: scelta ancor più eccentrica, qualora si consideri il generalizzato innalzamento delle originarie soglie di punibilità previste per gli altri reati tributari.

Per tale via, oltre a risultare corroborata l’impressione che il legislatore abbia rinunciato a uniformare il delitto di cui all’articolo 2, Decreto Legislativo 74/2000, al principio di proporzionalità – posto che la reazione sanzionatoria resta compresa nei limiti edittali attualmente previsti a prescindere dalla quantificazione dell’evasione e, quindi, dall’intensità dell’offesa arrecata con la condotta delittuosa – pare profilarsi altresì una violazione dell’articolo 76 Cost. per mancato esercizio della delega legislativa sugli elementi citati.

L’organo giudicante non ha tuttavia ritenuto di condividere le argomentazioni della difesa, dichiarando infondata la questione di legittimità prospettata[7].

Il giudice veneziano osserva, in particolare, che la scelta legislativa di affidare la reazione ordinamentale alla sola sanzione penale nelle ipotesi disciplinate all’articolo 2 sarebbe giustificata alla luce della peculiare insidiosità della condotta ivi tipizzata: di qui il rispetto del canone di proporzionalità tra offesa e sanzione. Inoltre – a parere del giudicante – il principio di offensività risulta salvaguardato, non solo in quanto la cornice edittale fissata dall’articolo 2 si estende tra un minimo ed un massimo “ragionevoli”, ma altresì considerando che ai reati fiscali può essere applicato l’istituto della particolare tenuità del fatto.

Pare opportuno soffermarsi, pur brevemente, su quest’ultima affermazione. L’istituto delineato dall’articolo 131-bis del codice penale opera con riferimento ai soli reati «per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni»: platea all’interno della quale non rientra il delitto di dichiarazione infedele ex articolo 2, per il quale il legislatore ha fissato in sei anni la pena detentiva massima. Conseguentemente, non sembrerebbe del tutto puntuale il richiamo alla particolare tenuità del fatto quale istituto astrattamente in grado di riallineare la fattispecie in esame ai dettami del principio di offensività.

Infine, per quel che concerne la mancata previsione di soglie di punibilità all’articolo 2, l’infondatezza della questione di legittimità viene argomentata richiamando – non senza alcune ambiguità nella redazione materiale del punto, tali da far residuare alcune incertezze di decifrazione – la sentenza n. 80 del 2014, con la quale il Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 nella parte in cui, con riferimento ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, punisce l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi non superiori, per ciascun periodo di imposta, ad euro 103.291,38. La Corte costituzionale – afferma il giudice di Venezia – ha ravvisato l’illegittimità del regime sanzionatorio dell’articolo 10-ter proprio alla luce della peculiarità degli elementi costitutivi dell’articolo 2, che si connotano per una maggiore gravità rispetto ai reati di cui all’articolo 5, oltre che ai delitti disciplinati agli articoli 10-ter e 10-bis.

In realtà non sembra che la pronuncia della Consulta sia stata correttamente citata. Nell’arresto del 2014 il giudice di Palazzo della Consulta giunge a una declaratoria di illegittimità costituzionale valorizzando il difetto di coordinamento intercorrente tra la soglia di punibilità prevista dall’articolo 10-ter e quelle dei delitti di infedele e omessa dichiarazione (artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 74 del 2000): tale distonia sarebbe infatti foriera di sperequazioni sanzionatorie che, per la loro manifesta irragionevolezza, rendevano censurabile l’esercizio della discrezionalità pure spettante al legislatore nella configurazione delle fattispecie astratte di reato. La rilevata discrasia determinava, infatti, una conseguenza palesemente illogica e lesiva del principio di eguaglianza (articolo 3 Cost.) nel caso in cui l’IVA dovuta dal contribuente si situasse nell’intervallo tra l’una e le altre soglie. In tale evenienza, veniva trattato in modo deteriore chi avesse presentato regolarmente la dichiarazione IVA senza versare l’importo di cui si era riconosciuto debitore, rispetto a chi non avesse presentato affatto la dichiarazione, o avesse presentato una dichiarazione inveritiera, evadendo del pari l’imposta: nel primo caso, il contribuente avrebbe dovuto rispondere del delitto di omesso versamento dell’IVA; nel secondo sarebbe andato invece esente da pena, non risultando superate le soglie di punibilità previste per l’omessa o infedele dichiarazione. Esito evidentemente poco coerente, posto che gli illeciti previsti dagli articoli 4 e 5 risultano più gravi del primo, sul piano dell’attitudine lesiva degli interessi del fisco, in quanto idonei – diversamente da quello – ad ostacolare l’accertamento dell’evasione da parte dell’amministrazione finanziaria.

Tanto premesso, la Corte costituzionale riconosce che «una disparità di trattamento similare si riscontra, in verità, anche con riferimento al delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, previsto dall’articolo 3 del Decreto Legislativo n. 74 del 2000»: disparità che, invece, non si ravvisa «con riguardo al delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, di cui all’articolo 2, che è privo di soglia». A ben vedere, il Giudice delle leggi si è qui limitato a riscontrare il dato normativo dell’assenza di soglie di punibilità nella struttura dell’articolo 2, senza tuttavia soffermarsi a ragionare sul perché tale delitto non contempli alcuna soglia di punibilità: non vi è dunque alcun riferimento alla particolare gravità che connota la condotta di dichiarazione fraudolenta ex articolo 2.

Ma, anche a voler ipoteticamente abbracciare la lettura della sentenza n. 84/2014 offerta dal giudice veneziano, resta non convincente il ragionamento da quest’ultimo seguito. Se infatti si può eventualmente concordare che l’assenza di soglie di punibilità nell’articolo 2 possa trovare giustificazione qualora tale delitto venga comparato con gli illeciti di cui agli articoli 10-bis e 10-ter, a tal fine risultando dirimente la maggior insidiosità della condotta preveduta dalla prima disposizione, il medesimo argomento sembra meno pregnante allorché si restringa la comparazione dell’articolo 2 con il delitto di cui all’articolo 3. Si tratta infatti di reati assai simili, non solo a livello strutturale[8] ma anche dal punto di vista dell’offesa arrecata, i quali differiscono unicamente in punto a concreta modalità attraverso la quale si realizza la condotta fraudolenta: mediante «fatture o altri documenti per operazioni inesistenti», nell’articolo 2; attraverso «operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti» nell’articolo 3[9]. In tal senso non sembra che il Tribunale abbia addotto elementi sufficienti a superare l’osservazione formulata dalla difesa, allorché quest’ultima ha posto l’attenzione sulla discrasia intercorrente tra la vicinanza “sostanziale” delle due fattispecie – rispettivamente disciplinate agli artt. 2 e 3 – e la parallela, notevole, divergenza sanzionatoria statuita dal legislatore.

 

[1] Sulle evoluzione del diritto penal-tributario, ex multis, Coppa-Sammartino, voce Sanzioni tributarie, in Enc. Dir., vol. XLI, Milano, 1989, 415 ss; Martini, Reati in materia di finanze e tributi, in Grosso-Padovani-Pagliaro (a cura di), Trattato di diritto penale. Parte speciale, Milano, 2010, 1 ss.; Perini, voce Reati tributari, in Dig. disc. pen., Agg. VII, Torino, 2013, 479 ss.

[2] Cfr. Marello, Evanescenza del principio di specialità e dissoluzione del doppio binario: le ragioni per una riforma del sistema punitivo penale tributario, in Riv. dir. trib., 2013, 13, 269.

[3] Sul punto, Perrone, La nuova disciplina dei reati tributari: “luci” ed “ombre” di una riforma appena varata, in Riv. dir. trib., 2015, 4, 62-64.

[4] Lanzi-Aldrovandi, Diritto penale tributario, Cedam, Padova, 2014, 225-226.

[5] Ufficio del Massimario, Relazione n. III/13/2011, 20 settembre 2011, 6.

[6] L’unica modifica che ha toccato la disposizione in esame concerne l’ampliamento del novero delle dichiarazioni rilevanti al fine del reato ivi previsto, mediante l’eliminazione dell’aggettivo “annuale”. Come osservato nella Relazione del Massimario (Relazione n. III/05/2015, 28 ottobre 2015, 11) «il delitto in questione può dunque ora perfezionarsi con qualunque dichiarazione, fra le quali rientrano, a titolo meramente esemplificativo, le dichiarazione dei redditi ed IRAP infra-annuali conseguenti alla messa in liquidazione di una società, le dichiarazioni nell’ipotesi di trasformazione, fusione e scissione societaria, le dichiarazione di operazioni intracomunitarie relative agli acquisti, le dichiarazioni mensili di acquisti di beni e servizi compiuti da enti o altre associazioni non soggetti passivi di imposta. Il campo di applicazione della norma risulta dunque ampliato, ma non, naturalmente, con efficacia retroattiva, trattandosi di nuova incriminazione, anche se parziale».

[7] Trib. Venezia, 12 luglio 2016.

[8] Sulla sostanziale coincidenza strutturale dei delitti preveduti agli artt. 2 e 3, d.lgs. 74/2000, cfr. Cass., sez. III, 15 dicembre 2015, n. 8668, con nota di Fontana, La Cassazione tratteggia i confini delle fattispecie di cui agli artt. 2, 3 e 11 d.lgs.74/2000, dopo la recente novella, in Dir. giust., 2016, 13, 38 ss.

[9] Si noti peraltro che in entrambi i casi la condotta realizzata si traduce in un rallentamento delle attività di indagine poste in essere dall’Amministrazione finanziaria, dal momento che il contribuente finisce per rendere più difficoltoso l’accertamento tributario. Tale ostacolo risulta essere – per così dire – in re ipsa, allorché l’agente faccia uso di documenti o fatture per operazioni inesistenti (art. 2), mentre è espressamente richiesto per l’integrazione del delitto ex art. 3: la condotta ivi delineata postula o il ricorso a operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente, oppure l’utilizzo di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti che siano «idonei ad ostacolare l'accertamento e ad indurre in errore l'amministrazione finanziaria».