Audizione del 26 marzo 2024 alle Commissioni riunite Giustizia e Finanze della Camera dei deputati, nell'ambito dell'esame dello “Schema di decreto legislativo recante revisione del sistema sanzionatorio” (A.G. 144)

riforma del processo tributario
riforma del processo tributario

Audizione del 26 marzo 2024 alle Commissioni riunite Giustizia e Finanze della Camera dei deputati, nell'ambito dell'esame dello “Schema di decreto legislativo recante revisione del sistema sanzionatorio” (A.G. 144)

In merito alla mia audizione del 26 marzo 2024, nell’ambito dell’esame dello Schema di decreto legislativo recante revisione del sistema sanzionatorio tributario (atto n. 144), preciso quanto segue.

 

QUALIFICAZIONE DEL CREDITO INESISTENTE (ART. 1, COMMA G – QUINQUIES, D.LGS. N. 74/2000)

In merito alla qualificazione del credito inesistente, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con l’importante sentenza n. 34419 depositata l’11 dicembre 2023, ha stabilito il seguente principio di diritto:

“In tema di compensazione di crediti o eccedenze d'imposta da parte del contribuente, all'azione di accertamento dell'erario si applica il più lungo termine di otto anni, di cui all'articolo 27, comma 16, Decreto Legge n. 185 del 2008, quando il credito utilizzato è inesistente, condizione che si realizza - alla luce anche dell'articolo 13, comma 5, terzo periodo, Decreto Legislativo n. 471 del 1997, come modificato dal Decreto Legislativo n. 158 del 2015 – allorchè ricorrano congiuntamente i seguenti requisiti: a) il credito, in tutto o in parte, è il risultato di una artificiosa rappresentazione ovvero è carente dei presupposti costitutivi previsti dalla legge ovvero, pur sorto, è già  estinto al momento del suo utilizzo; b) l'inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973 e all'articolo 54-bis Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972; ove sussista il primo requisito ma l'inesistenza sia riscontrabile in sede di controllo formale o automatizzato, la compensazione indebita riguarda crediti non spettanti e si applicano i termini ordinari per l'attività di accertamento”.

In sostanza, in base alla suddetta sentenza, le condizioni per qualificare un credito inesistente, con le conseguenze fiscali in tema di decadenza per gli accertamenti ed in tema di sanzioni, sono le seguenti e devono ricorrere congiuntamente:

  1. il credito, in tutto o in parte, è il risultato di una artificiosa rappresentazione ovvero è carente dei presupposti costitutivi previsti dalla legge ovvero, pur sorto, è già  estinto al momento del suo utilizzo;
  2. l'inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973 e all'articolo 54-bis Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972. Ove sussista il primo requisito ma l'inesistenza sia riscontrabile in sede di controllo formale o automatizzato, la compensazione indebita riguarda crediti non spettanti e si applicano i termini ordinari per l'attività di accertamento.

Invece, in sede penale, la Corte di Cassazione – Terza Sezione Penale –  con la sentenza n. 6 dell’01 gennaio 2024 ha stabilito il seguente diverso principio di diritto:

“L'art. 13 del D.Lgs. n. 471 del 1997 non definisce il "credito non spettante" e di certo non negli stessi termini indicati dal comma 5 della stessa norma, non richiedendone gli stessi presupposti di fatto (l'emersione, cioè, da una delle procedure di accertamento "semplificate").

Ciò comporta che, seguendo una tesi differente e "ampliativa", nella stessa disposizione convivrebbero irragionevolmente due diversi presupposti della medesima condotta: nel caso di utilizzazione di crediti non spettanti, non sarebbe richiesto il requisito della loro facile rilevabilità a seguito di uno dei controlli citati; nel caso di compensazione con crediti inesistenti, tale requisito sarebbe invece richiesto, "con l'ulteriore, assurda conseguenza che la condotta più grave avrebbe un margine di applicazione (in conseguenza di presupposti non richiesti in caso di crediti non spettanti) addirittura meno ampio di quella meno grave".”

Lo schema in questione modifica l’art. 1 del D.Lgs. n. 74/2000 aggiungendo i seguenti due commi:

  • “g-quater) per “crediti non spettanti” si intendono quelli, diversi dai crediti previsti dalla lettera g-quinquies, fondati su fatti reali non rientranti nella disciplina attributiva per il difetto di specifici elementi o particolari qualità. Sono, altresì, non spettanti i crediti utilizzati in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti ovvero, per la relativa eccedenza, quelli fruiti in misura superiore a quella prevista. Si considerano, tuttavia, spettanti i crediti fondati sulla base di fatti reali rientranti nella disciplina attributiva, nonché utilizzati in misura e con le modalità stabilite dalla medesima, ma in difetto dei prescritti adempimenti amministrativi di carattere strumentale, sempre che gli stessi non siano previsti a pena di decadenza;”

 

  • “g-quinquies) per “crediti inesistenti” si intendono quelli per i quali mancano, in tutto o in parte, i presupposti costitutivi;”.

 

La stessa definizione di credito inesistente viene riproposta nello schema che modifica l’art. 13, comma 5, D.Lgs. n. 471/1997, dove testualmente è scritto:

Si considera credito inesistente il credito per il quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo”.

A parere dello scrivente, la suddetta qualificazione è troppo generica rispetto ai principi di diritto esposti dalla suddetta importante sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione, perché omette di considerare, soprattutto, il comportamento fraudolento per fatti non reali del contribuente, che rappresenta la vera qualifica del credito inesistente.

Infatti, non si può genericamente collegare l’inesistenza alla semplice mancanza del presupposto costitutivo, che può dipendere anche da difficile interpretazione della normativa, ma bisogna dimostrare, soprattutto, il comportamento fraudolento, attuato con documenti materialmente o ideologicamente falsi, simulazioni o artifici di fatti non reali che, invece, viene previsto per un aumento della sanzione dalla metà al doppio, art. 13, comma 5-bis, cit., che testualmente dispone:

“5-bis. Nei casi di cui al comma 5, qualora i fatti materiali posti a fondamento del credito siano oggetto di rappresentazioni fraudolente, attuate con documenti materialmente o ideologicamente falsi, simulazioni o artifici, la sanzione è aumentata dalla metà al doppio.”

Inoltre, sempre come ribadito dalla suddetta sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione:

  • l’inesistenza del credito non deve essere facilmente rilevabile in sede di liquidazione (artt. 36-bis, 36-ter e 54-bis, già citati), perché manca il comportamento fraudolento;
  • in ogni caso, il credito non deve essere ritenuto inesistente se già estinto al momento del suo utilizzo, perché manca il danno erariale.

In definitiva, a parere dello scrivente, il nuovo concetto di credito inesistente deve essere qualificato nel modo seguente:

“Per “credito inesistente” (fraudolento) si intende:

  1. il credito, in tutto o in parte, come risultato di una artificiosa rappresentazione di fatti non reali ovvero carente dei presupposti costitutivi previsti dalla legge ovvero, pur sorto, già  estinto al momento del suo utilizzo;
  2. l'inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973 e all'articolo 54-bis Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972. Ove sussista il primo requisito, di cui alla lettera a), ma l'inesistenza sia riscontrabile in sede di controllo formale o automatizzato, la compensazione indebita riguarda crediti non spettanti e si applicano i termini ordinari per l'attività di accertamento.”.

I tassativi requisiti delle lettere a) e b) devono concorrere congiuntamente.

Solo con la suddetta specifica formulazione si rispetta il tassativo principio esposto dall’art. 20, comma 1, n. 5, della Legge delega n. 111/2023 che testualmente dispone:

“5) introdurre, in conformità agli orientamenti giurisprudenziali, una più rigorosa distinzione normativa anche sanzionatoria tra le fattispecie di compensazione indebita di crediti di imposta non spettanti e inesistenti;”.

La conformità si rispetta adeguandosi soltanto ai tassativi principi esposti dalla più volte citata importante sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, che sempre ha fatto riferimento all’esclusivo comportamento fraudolento del contribuente (vero stigma penale a decifrare la inesistenza del credito) nonché all’agevole rilevabilità in sede di controllo formale con riguardo ai crediti inesistenti.

Con l’attuale formulazione dello schema si rischia l’eccezione di eccesso di delega.

Infine, a parere dello scrivente, in tema di obiettive condizioni di incertezza, è opportuno estendere l’applicazione dell’art. 10-quater, comma 2-bis, del D.Lgs. n. 74/2000 anche ai crediti inesistenti.

 

RAPPORTI TRA PROCESSO TRIBUTARIO E PROCESSO PENALE (ARTT. 20 E 21-BIS D.LGS. N. 74/2000)

 

  1. La Legge delega n. 111/2023, all’art. 20, comma 1, lettera a), n. 3, per quanto riguarda gli aspetti comuni alle sanzioni amministrative e penali, testualmente dispone:

“3) rivedere i rapporti tra il processo penale e il processo tributario prevedendo, in coerenza con i princìpi generali dell'ordinamento, che, nei casi di sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l'imputato non lo ha commesso, i fatti materiali accertati in sede dibattimentale facciano stato nel processo tributario quanto all'accertamento dei fatti medesimi e adeguando i profili processuali e sostanziali connessi alle ipotesi di non punibilità e di applicazione di circostanze attenuanti all'effettiva durata dei piani di estinzione dei debiti tributari, anche nella fase antecedente all'esercizio dell'azione penale;”.

Di conseguenza, al D.Lgs. n. 74/2000 con lo schema in discussione è stato aggiunto l’art. 21-bis che, al primo comma, testualmente dispone:

“1. La sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario, ha, in questo, efficacia di giudicato, in ogni stato e grado, quanto ai fatti medesimi.

2. La sentenza penale irrevocabile può essere depositata anche nel giudizio di Cassazione con memoria illustrativa. La Corte di Cassazione assegna al pubblico ministero un termine non superiore a sessanta giorni dalla comunicazione per il deposito di osservazioni. Trascorso tale termine, se non accoglie le osservazioni, decide la causa conformandosi alla sentenza penale qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto.

3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano, limitatamente alle ipotesi di sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, anche nei confronti della persona fisica nell’interesse della quale ha agito il dipendente, il rappresentante legale o negoziale, ovvero nei confronti dell’ente e società, con o senza personalità giuridica, nell’interesse dei quali ha agito il rappresentante o l’amministratore anche di fatto, nonché nei confronti dei loro soci o associati.”

La relazione che accompagna lo schema, giustamente, a pag. 19 cita la sentenza n. 2445 del 21.08.2023 della Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado della Puglia – Sezione 23, in una causa dove ero difensore di fiducia del contribuente.

Sembra dunque profilarsi una concreta limitazione della autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale, nella considerazione  che il Giudice tributario , in presenza della sentenza penale definitiva, in tema  di reati fiscali, dovrà necessariamente “adeguarsi” all’intervenuto giudicato penale, fermo restando la prospettiva della confermata indipendenza dei due processi che proseguiranno sui rispettivi binari, nella persistente, illusoria convinzione di poter percorrerli  parallelamente.

La formula terminativa assolutoria “perché il fatto non sussiste” sembrerebbe non essere vincolante nel processo tributario quando sia pronunciata non a seguito del dibattimento, ma di giudizio abbreviato.

Siffatta eventualità non è presa in specifica considerazione dall’art. 21-bis della bozza di decreto legislativo in esame: è opportuno, invece, che la norma sia riformulata prendendo spunto dall’art. 652, comma 2, c.p.p. che valorizza anche la sentenza assolutoria resa nel giudizio abbreviato e testualmente dispone:

“1. La sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso dal danneggiato o nell'interesse dello stesso, sempre che il danneggiato si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile, salvo che il danneggiato dal reato abbia esercitato l'azione in sede civile a norma dell'articolo 75, comma 2.

 

2. La stessa efficacia ha la sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata a norma dell'articolo 442, se la parte civile ha accettato il rito abbreviato.

 

La Legge delega n. 111/2023, invece, all’art. 20, comma 1, lettera b), n. 2, per quanto riguarda le sole sanzioni penali, testualmente dispone:

“2) attribuire specifico rilievo alle definizioni raggiunte in sede amministrativa e giudiziaria ai fini della valutazione della rilevanza penale del fatto;”.

L’art. 20, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 74/2000, nello schema oggi in discussione, testualmente dispone:

“1-bis. Le sentenze rese nel processo tributario, divenute irrevocabili, e gli atti di definitivo accertamento delle imposte in sede amministrativa, anche a seguito di adesione, aventi a oggetto violazioni derivanti dai medesimi fatti per cui è stata esercitata l’azione penale, possono essere acquisiti nel processo penale ai fini della prova del fatto in essi accertato.”

A parere dello scrivente, il legislatore non ha rispettato i tassativi limiti della suddetta Legge delega che non vincola minimamente il giudice penale alla prova dei fatti accertati con sentenze passate in giudicato nel processo tributario né ha stabilito che le sentenze rese nei giudizi tributari e divenute irrevocabili assumano efficacia probatoria nel processo penale, soprattutto tenendo presente che il processo tributario si definisce molto tempo prima di quello penale, di solito senza istruttoria, per cui quest’ultimo sarebbe quasi sempre condizionato dalle sentenze irrevocabili fiscali.

Inoltre, non bisogna dimenticare che l’attuale magistratura tributaria è composta da giudici onorari non professionali e gli effetti della nascita della Quinta Magistratura Tributaria (Legge n. 130/2022 e D.Lgs. n. 220/2023), con giudici professionali togati vincitori di difficile e selettivo concorso pubblico, si avranno dopo molti anni (intanto, per il 2024 dovrà essere bandito il concorso per 146 posti). I nuovi giudici professionali, oltretutto, faranno le istruttorie che oggi quasi mai si fanno.

Da tale precisazione appare ragionevole ritenere che si profila  una “classica pregiudiziale tributaria”, con un impatto significativo sui due procedimenti in trattazione.

Un  primo scenario possibile è quello in cui l'esecutivo si limita a ribadire che il giudice penale deve tener conto degli esiti dell’accertamento tributario, degli accordi intervenuti in sede deflattiva e della sentenza  del processo tributario.

Ben diverso lo scenario in cui, in attuazione del contenuto letterale  della citata norma, si dovesse affermare un effetto automatico, per cui si configurerebbe, appunto, la reintroduzione della pregiudiziale tributaria.

In concreto, in presenza di un rilievo automatico delle definizioni in sede amministrativa o giudiziaria,  potrebbe accadere che, ipotizzando l’emanazione di un avviso di accertamento per una dichiarazione infedele, ove si contesta una violazione sopra la soglia di rilevanza penale, il cui esito , in sede amministrativa, si definisce con la proceduta dell’accertamento con adesione, con  la  minore quantificazione dell'imposta accertata in origine e risultando sotto la soglia di rilevanza penale, non potrebbe essere avviata alcuna azione penale, anche se  il pubblico ministero avesse delle prove per dimostrare una imposta evasa di valore superiore ed oltre la soglia.

Analogamente, nel caso in cui sia emesso  un avviso di   accertamento che rilevi il credito inesistente e con la procedura dell’accertamento con adesione si giunga ad una diversa qualificazione del credito, come non spettante, non sarebbe consentito al giudice penale di avviare l'azione penale, ancorché in possesso di intercettazioni e testimonianze comprovanti invece la inesistenza del credito.

Queste esemplificazioni richiedono, però, la lettura anche in malam partem, laddove si consideri che il contribuente decida di accordarsi per una imposta evasa, minore di quella contestata inizialmente, comunque sopra la soglia; in tale ipotesi, la definizione dell’ accertamento entrerà direttamente nel processo penale e costituirà una prova legale negativa.

In tali prospettive, emergono, pertanto, problematiche  anche con l'esercizio del diritto di difesa, con la riserva di giurisdizione, nella considerazione che il giudice penale è sottoposto solamente alla legge; pertanto, non si possono sottrarre degli elementi di prova facendoli entrare  in un'altra sede.

Il principio sopra esposto dalla Legge delega riguarda, invece, esclusivamente il rapporto tra le sanzioni penali (lettera b) dell’art. 20 cit.), che è stato, invece, rispettato con il nuovo art. 21-ter D.Lgs. n. 74/2000, a norma del quale:

“1. Quando, per lo stesso fatto è stata applicata, a carico del soggetto, una sanzione penale ovvero una sanzione amministrativa o una sanzione amministrativa dipendente da reato, il giudice o l’autorità amministrativa, al momento della determinazione delle sanzioni di propria competenza e al fine di ridurne la relativa misura, tiene conto di quelle già irrogate con provvedimento o con sentenza assunti in via definitiva.”

In sostanza, il principio della Legge delega, soltanto per i rapporti in sede amministrativa e giudiziaria, giustamente stabilisce che, al momento della determinazione delle sanzioni di propria competenza ed al fine di ridurne la relativa misura, si deve tenere conto di quelle già irrogate con provvedimento o con sentenza assunti in via definitiva.

Al contrario, non si fa assolutamente riferimento al fatto che le sentenze rese nei giudizi tributari e divenute irrevocabili assumano automaticamente efficacia probatoria nel processo penale che, peraltro, come già detto in precedenza, spesso si conclude molto tempo dopo rispetto a quello tributario e che ne sarebbe, di conseguenza, condizionato quasi sempre (non deve valere il principio che chi arriva primo condiziona gli altri !!!!!).

In sostanza, viene recepito nel sistema sanzionatorio non il divieto di bis in idem, ma un correttivo che rende meno gravoso il sommarsi di due trattamenti sanzionatori.

In definitiva, a parere dello scrivente, deve essere totalmente cancellato il nuovo comma 1-bis dell’art. 20 D.Lgs. n. 74/2000 per eccesso di delega.

 

DISPOSIZIONI TRANSITORIE E FINALI (ART. 5 DELLO SCHEMA DI DECRETO LEGISLATIVO RECANTE REVISIONE DEL SISTEMA SANZIONATORIO TRIBUTARIO)

L’articolo 5 dispone il termine di applicazione di alcune disposizioni previste dallo schema di decreto in esame: tali misure si applicano alle violazioni commesse a partire dal 30 aprile 2024.

Nello specifico, l’articolo in commento prevede si applichino alle violazioni commesse a partire dal 30 aprile 2024 le disposizioni di cui agli articoli:

  • 2, che reca modifiche al decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, in materia di sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi;
  • 3, che reca modifiche al decreto legislativo n. 472 del 1997, in materia di disciplina delle sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie;
  • 4, che prevede la revisione delle sanzioni amministrative in materia di tributi sugli affari, sulla produzione e sui consumi, nonché di altri tributi indiretti.

Ne consegue l’irretroattività delle norme più favorevoli per il contribuente introdotte dalle disposizioni in esame.

A tal proposito, proprio in tema di retroattività delle sanzioni amministrative, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 193 del 20 luglio 2016, ha testualmente disposto:

“Invero, la scelta legislativa dell’applicabilità della lex mitior limitatamente ad alcuni settori dell’ordinamento non può ritenersi in sé irragionevole.

A questo riguardo, va rilevato che la qualificazione degli illeciti, in particolare di quelli sanzionati in via amministrativa, in quanto espressione della discrezionalità legislativa si riflette sulla natura “contingente” e storicamente connotata dei relativi precetti.

Essa giustifica, quindi, sul piano sistematico, la pretesa di potenziare l’effetto preventivo della comminatoria, eliminando per il trasgressore ogni aspettativa di evitare la sanzione grazie a possibili mutamenti legislativi.

Il limitato riconoscimento della retroattività in mitius, circoscritto ad alcuni settori dell’ordinamento, risponde, quindi, a scelte di politica legislativa in ordine all’efficacia dissuasiva della sanzione, modulate in funzione della natura degli interessi tutelati.

Tali scelte costituiscono espressione della discrezionalità del legislatore nel configurare il trattamento sanzionatorio per gli illeciti amministrativi e risultano quindi sindacabili da questa Corte solo laddove esse trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, come avviene a fronte di sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione.”

In sostanza, in base ai suesposti principi, non è irragionevole stabilire gli effetti retroattivi in caso di modifiche legislative relative alle sanzioni, il più delle volte omogenee per quanto riguarda la quantificazione della sanzione.

Oltretutto, è opportuno precisare che, in tema di sanzioni tributarie, è applicabile l’art. 3 del D.Lgs. n. 472/1997, “Principi di legalità e proporzionalità”, modificato in parte dallo schema in discussione, che testualmente dispone:

“1. Nessuno può essere assoggettato a sanzioni se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione.

2. Salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile. Se la sanzione è già stata irrogata con provvedimento definitivo il debito residuo si estingue, ma non è ammessa ripetizione di quanto pagato.

3. Se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo.

3-bis. La disciplina delle violazioni e sanzioni tributarie è improntata ai principi di proporzionalità e di offensività.”

 

I suddetti principi non sono stati modificati e, pertanto, è sempre applicabile il suddetto terzo comma del citato art. 3.

Infine, si ricorda che, nella prima stesura, ravvedimento e cumulo erano gli unici due istituti innovati dalla riforma ai quali si sarebbe applicata la disciplina del favor. L’intento era verosimilmente quello di consentire di regolarizzare con il cumulo giuridico anche violazioni commesse prima dell’entrata in vigore della stessa riforma. Il testo trasmesso alle Camere, invece, elimina tale disparità e accomuna tutte le novità, rendendole applicabili solo a decorrere dalle violazioni commesse dal 30 aprile prossimo.

In definitiva, a parere dello scrivente, si dovrebbe consentire almeno una parziale retroattività per le seguenti sanzioni omogenee con gli importi differenti:

  • D.Lgs. n. 471/1997
  • artt. 2 – 5 – 6 – 7 – 8 – 10 – 11 – 12 – 13;

 

  • D.Lgs. n. 472/1997
  • artt. 7 – 12 – 13 – 21;

 

  • D.P.R. n. 131/1986
  • artt. 69 – 71 – 72 – 73 – 74;

 

  • D.Lgs. n. 346/1990
  • artt. 50 – 51 – 53;

 

  • D.Lgs. n. 347/1990
  • artt. 9 – 25 – 26;

 

  • D.P.R. n. 640/1972
  • artt. 32 – 33;

 

  • D.P.R. n. 641/1972 (art. 9);

 

  • Legge n. 1216/1961 (art. 24).

 

IL TESTO SULLE SANZIONI DIMENTICA I TRIBUTI COMUNALI

Lo schema del decreto in oggetto non contiene alcuna specifica modifica puntuale sulle sanzioni nei tributi comunali, nonostante l’art. 20 della Legge delega n. 111/2023 riguarda sia le sanzioni erariali sia quelle degli enti territoriali.

Si rinvia all’interessante e condivisibile articolo di Luigi Lovecchio pubblicato in “Il Sole 24 Ore” di lunedì 25 marzo 2024.