Verifiche fiscali e accessi domiciliari: la Corte di Cassazione rafforza gli obblighi motivazionali del PM
Verifiche fiscali e accessi domiciliari: la Corte di Cassazione rafforza gli obblighi motivazionali del PM
Con l’ordinanza n. 25049/2025 la Corte di Cassazione delimita il controllo giudiziale sulla legittimità dell’accesso domiciliare durante le verifiche fiscali ex art. 52, comma 2, DPR 633/1972, ribadendo l’obbligo per il giudice di verificare l’esistenza dei gravi indizi delle violazioni tributarie e la congruità della motivazione dell’autorizzazione del PM. È nulla l’autorizzazione – e conseguenzialmente l’atto impositivo che ne deriva – se manca in giudizio la richiesta richiamata per relationem.
CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE
Con l’ordinanza n. 25049 dell’11 settembre 2025, la Corte di Cassazione è intervenuta nuovamente sul tema degli accessi domiciliari effettuati nell’ambito delle verifiche fiscali, precisando in modo puntuale i requisiti che devono caratterizzare l’autorizzazione all’accesso domiciliare rilasciata dal Pubblico Ministero ai sensi dell’art. 52, comma 2, del d.P.R. 633/1972, a norma del quale “L'accesso in locali diversi da quelli indicati nel precedente comma può essere eseguito, previa autorizzazione del procuratore della Repubblica, soltanto in caso di gravi indizi di violazioni delle norme del presente decreto, allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture ed altre prove delle violazioni”.
In altri termini, il tema trattato riguarda la validità dell’autorizzazione rilasciata dal PM all’accesso domiciliare eseguito dall’amministrazione finanziaria durante le verifiche fiscali, nonché le garanzie difensive spettanti al contribuente.
La Corte, con l’ordinanza in esame, ha precisato che:
- l’autorizzazione all’accesso domiciliare non è un atto meramente formale, ma deve contenere una motivazione concreta e specifica, capace di dimostrare la presenza di gravi indizi di violazioni tributarie;
- quando l’autorizzazione è motivata per relationem, cioè si limita a recepire i rilievi dell’organo che l’ha richiesta, l’amministrazione finanziaria – se intende avvalersene in giudizio – deve depositare non solo il provvedimento autorizzatorio, ma anche l’informativa dalla quale emergono i gravi indizi di illecito fiscale.
La mancata produzione di tale documentazione determina la nullità dell’autorizzazione e, di conseguenza, la nullità dell’atto impositivo fondato sulla documentazione acquisita in esecuzione di quell’accesso.
L’ordinanza in esame si colloca, dunque, nel solco di una giurisprudenza ormai consolidata e si armonizza, inevitabilmente, con i principi affermati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella celebre sentenza “Italgomme Pneumatici S.r.l. e altri c. Italia” del 6 febbraio 2025, che ha censurato la normativa italiana in materia di accessi e verifiche fiscali presso sedi aziendali e locali professionali, ritenendola non sufficientemente garantista e in contrasto con l’art. 8 CEDU.
1. IL CASO
Per meglio comprendere la questione giuridica posta all’attenzione della Suprema Corte, è opportuno ricostruire i fatti da cui ha preso origine la vicenda.
La controversia è sorta a seguito dell'impugnazione di un avviso di accertamento emesso nei confronti di un contribuente esercente l'attività di "altri studi medici", con cui l'amministrazione finanziaria, sulla scorta di un processo verbale di constatazione redatto dalla G.d.F., a seguito di accesso domiciliare e verifica dei conti correnti bancari intestati al contribuente, accertava un maggior reddito professionale ai fini IRPEF, IVA ed IRAP con riferimento all'anno d'imposta 2012.
Il contribuente proponeva impugnazione dinanzi alla CTP di Matera che accoglieva il ricorso e annullava l'atto impositivo per violazione del contraddittorio endoprocedimentale nonché per la rilevata incongruenza dei ricavi accertati con le concrete modalità di svolgimento dell'attività di libero professionista.
Avverso tale decisione proponeva appello l'Agenzia delle Entrate.
Ed invero, contrariamente a quanto stabilito dai primi giudici, la Commissione Tributaria Regionale della Basilicata, in sede d’appello, riformava la sentenza di primo grado, confermando parzialmente la legittimità dell’atto impugnato.
Precisamente, in appello, la Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado riteneva:
- non obbligatorio il contraddittorio preventivo, alla stregua di quanto affermato dalla Corte di Cassazione nell'ordinanza n. 15783 del 2017;
- legittimo l’accesso domiciliare, essendo correttamente autorizzato dalla Procura;
- infondate le contestazioni relative alla violazione di norme a garanzia della legalità e correttezza dell'azione amministrativa ai fini dell'indagine bancaria, in quanto, a parere del Collegio, la mancata esibizione, in sede di contraddittorio o in giudizio dell'autorizzazione a tale tipo di indagine, non inficiava la legittimità dell'avviso di accertamento (Cass. n. 16874/2009 e n. 16579/2013);
- legittimo l’accertamento basato su versamenti in contanti non giustificati sui conti correnti del contribuente. La motivazione della sentenza di primo grado veniva ritenuta "inconsistente" là dove aveva dichiarato "l'illegittimità dell'accertamento per incompatibilità dei redditi accertati con il tempo effettivo di svolgimento dell'attività da parte del contribuente, senza considerare che l'accertamento era basato su indagini finanziarie assistite da una presunzione legale relativa prevista dall' art. 32 del D.P.R. n. 633 del 1972 e soprattutto, in presenza di continui versamenti in contanti" effettuati sui conti correnti verificati, in relazione ai quali "la parte si è limitata ad affermazioni semplici e ragionamenti che non hanno trovato alcun riscontro contabile e documentale", ad esclusione di un versamento di 100.000,00 euro effettuato in favore del contribuente dai genitori;
- infondata la richiesta di riconoscimento dei costi non documentati e presunti, in quanto non risultanti da elementi certi e precisi e comunque perché "l'accertamento riguarda maggiori ricavi desunti analiticamente dalla mancata giustificazione delle poste desunte dai conti correnti bancari";
- applicabili sanzioni ridotte secondo il principio del “favor rei” previsto dal D.Lgs. 158/2015.
Avverso tale sfavorevole pronuncia, il contribuente proponeva quindi ricorso per Cassazione, deducendo, tra i vari motivi, la violazione dell’art. 52, comma 2, d.P.R. 633/1972 per inidoneità della motivazione del decreto autorizzativo del PM. Depositava anche due sentenze penali, tra cui una della Corte d’Appello di Salerno di assoluzione “perché il fatto non sussiste” dal reato di dichiarazione infedele, relativo agli stessi fatti oggetto del procedimento tributario. Nella memoria difensiva chiedeva che tale giudicato penale favorevole si applicasse anche nel giudizio tributario, ai sensi dell’art. 21-bis del D.Lgs. 74/2000.
Orbene, la Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla questione, con l’ordinanza in commento n. 25049 del 11 settembre 2025, accoglieva il secondo motivo di ricorso sulla violazione dell'art. 52, comma 2, DPR 633/1972 per mancata verifica dei gravi indizi nell'autorizzazione all'accesso domiciliare; rigettava gli altri motivi e rinviava alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Basilicata per un nuovo esame, anche circa gli effetti del giudicato penale sopravvenuto.
2. CORTE DI CASSAZIONE, ORDINANZA N. 25049 DELL’11 SETTEMBRE 2025
Come anticipato, il caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte riguarda il delicatissimo tema degli accessi domiciliari (ex art. 52, c. 2 D.P.R. 633/1972) durante le verifiche fiscali.
Precisamente, con l’ordinanza n. 25049 dell’11.09.2025, la Corte di Cassazione ha chiarito che il giudice tributario, chiamato a valutare la legittimità dell’autorizzazione rilasciata dal Procuratore della Repubblica deve verificare:
- non solo la sussistenza formale dell’atto autorizzatorio;
- ma anche la presenza di gravi indizi di violazione delle norme fiscali e la correttezza dell’apprezzamento svolto dal pubblico ministero.
Inoltre, qualora il provvedimento sia motivato per relationem mediante rinvio alla nota dell’organo di polizia tributaria, la stessa nota deve essere depositata in giudizio dall’Amministrazione poiché in mancanza, l’autorizzazione è nulla e le prove raccolte sono inutilizzabili.
E tanto, allo scopo di consentire al giudice non solo di verificarne i presupposti previsti dalle singole leggi d’imposta, ma anche di apprezzarne la correttezza esercitata dal Procuratore della Repubblica in sede di rilascio dell’autorizzazione.
Di fatto, nel caso oggetto del presente esame, il ricorrente ha dedotto, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e/o falsa applicazione dell' art. 52 , comma 2, del D.P.R. n. 633 del 1972 , per avere i giudici di appello ritenuto legittimo l'avviso di accertamento impugnato nonostante lo stesso avesse tratto origine da un accesso operato dalla G.d.F. di Matera presso i locali adibiti ad uso di abitazione del contribuente, senza che la relativa autorizzazione del Procuratore della Repubblica fosse stata subordinata alla sussistenza e alla previa prospettazione di gravi indizi di violazione di norme tributarie.
Occorre premettere che il ricorrente nel motivo in esame ha anche riprodotto e allegato il contenuto dell'autorizzazione di cui all' art. 52 , comma 2, del D.P.R. n. 633 del 1972 , sostenendo, quindi, che i giudici di appello avevano violato la disposizione censurata essendosi limitati ad affermare che la predetta autorizzazione conteneva "le indicazioni previste e cioè: Comando della GdF o ufficio di appartenenza; generalità e/o dati identificativi del contribuente, tipo di intervento e fonti normative che legittimano i poteri", ma non avevano verificato se la stessa contenesse anche la motivazione circa i gravi indizi di violazione di norme tributarie.
Il motivo è stato ritenuto fondato e quindi accolto dai giudici di legittimità.
Precisamente, secondo la Corte di Cassazione:
“L' art. 52, comma 2, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 , richiamato dall' art. 33 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 , prevede che l'accesso in locali diversi da quelli destinati all'esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali, può essere eseguito "previa autorizzazione del procuratore della Repubblica, soltanto in caso di gravi indizi di violazioni delle norme del presente decreto, allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture ed altre prove delle violazioni".
Com’è noto, il sistema prevede che, per effettuare ispezioni documentali, verificazioni, ricerche e qualsiasi altra attività utile all’accertamento, sia necessaria:
- un’autorizzazione preventiva dell’Ufficio, che ne indichi lo scopo, quando l’accesso in locali diversi dall’abitazione;
- oppure un provvedimento autorizzatorio del Pubblico Ministero, quando tali attività devono essere svolte all’interno dell’abitazione del contribuente o di locali ad uso promiscuo.
Tale provvedimento del P.M. – riconosciuto pacificamente come atto di natura amministrativa (cfr. Cass. n. 23824/2017; Cass. n. 15230/2001) – è sindacabile dal giudice tributario quanto al suo contenuto (cfr. Cass. S.U. n. 16424/2002; Cass. n. 21974/2009).
Inoltre, l’autorizzazione deve indicare specificamente i gravi indizi di violazione fiscale richiesti dall’art. 52, comma 2, del d.P.R. 633/1972, quando l’accesso è richiesto per locali diversi da quelli indicati nel comma 1 della stessa norma.
La Cassazione ha, dunque, chiarito che:
"Il quadro così sommariamente ricordato offre all'interprete le scelte adottate dal legislatore fiscale, volte a contemperare l'esigenza dell'amministrazione fiscale di esercitare proficuamente i poteri ispettivi necessari a garantire la pretesa impositiva con quella del contribuente (e di eventuali terzi occasionalmente coinvolti), di evitare che un potere di indagine incontrollato, immotivato ed eccessivo possa cagionare un pregiudizio alle libertà costituzionali che vengono volta per volta in rilievo. Tale esigenza viene dunque realizzata attraverso un articolato sistema di autorizzazioni.
Pertanto, in ipotesi di accesso domiciliare a fini fiscali, oltre all'effettiva sussistenza del provvedimento, è la sussistenza dei gravi indizi di violazione tributaria ad essere soggetta alla verifica di legittimità formale e sostanziale della pretesa impositiva, che coinvolge la legittimità del procedimento accertativo su cui la stessa si fonda (Cass. n. 26829/2014).”
A tale scopo la Corte ha, altresì, richiamato precedenti pronunce attraverso le quali sono stati chiariti non solo i presupposti per la regolarità dell'accesso presso l'abitazione, ma anche il contenuto del provvedimento autorizzatorio e il tipo di controllo che su di esso deve esercitare il giudice tributario.
Trattasi delle pronunce: Cass. SS.UU. nn. 8062/1990, 16424/2002; Cass. nn. 17957/2012, 21974/2009, 28577/2021, 33399/2023, 763/2024, secondo cui:
- l’autorizzazione del PM è un atto amministrativo, e non meramente formale, sindacabile dal giudice tributario;
- la motivazione può essere sintetica, ma deve comunque evidenziare i gravi indizi di violazione delle disposizioni fiscali;
- l’illegittimità dell’autorizzazione comporta l’inutilizzabilità radicale delle prove raccolte e, conseguentemente, l’illegittimità dell’accertamento fondato su di esse.
Conseguentemente, la Cassazione ha inteso anche chiarire che, in sede di verifica giudiziale della legittimità del provvedimento autorizzatorio di cui trattasi, il potere/dovere del giudice tributario di verificare la sussistenza di gravi indizi del verificarsi di illeciti fiscali e la correttezza in diritto della valutazione compiuta dal pubblico ministero, comporta che, se il provvedimento è stato motivato per relationem, mediante recepimento dei rilievi dell'organo richiedente, l'amministrazione finanziaria, che degli effetti di quell'autorizzazione vuole avvalersi, deve produrre in giudizio non solo il provvedimento autorizzatorio adottato dal pubblico ministero ma anche la richiesta in essa richiamata a fini motivazionali.
Su tale specifico aspetto della vicenda processuale, la Corte di Cassazione ha anche richiamato la precedente ordinanza n. 27297/2023 con cui è stato affermato che nel provvedimento autorizzatorio, "oltre al rimando agli estremi della nota, andranno sia pure in modo sintetico indicati, se non nel loro contenuto analitico, quantomeno nella loro essenziale portata suscettibile di innescare l'approfondimento istruttorio richiesto, particolarmente invasivo, proprio quei gravi indizi, quali ad esempio la mancata presentazione della dichiarazione, l'esiguità del reddito dichiarato rispetto a evidenti e certi indici di maggiore capacità contributiva, o ancora le relazioni significative con soggetti sottoposti a positiva attività di accertamento" e che "solo l'indicazione di tali elementi, infatti, consente la valutazione della sussistenza dei gravi indizi richiesti dalla norma surrichiamata, gravi indizi che il PM prima e il giudice tributario poi debbono, prima di valutare, quantomeno percepire nella loro consistenza di massima, risultando quindi onere dell'Amministrazione (peraltro in una fase nella quale non vi è pregiudizio dell'"effetto sorpresa" nei confronti del verificato, che potrebbe pregiudicare il risultato istruttorio, dal momento che non è consentita al contribuente la partecipazione a questa fase del procedimento di controllo) quantomeno indicare i fatti essenziali, nei termini e con le esemplificazioni sopra proposte, che rendono necessario l'accesso domiciliare per il prosieguo della verifica".
Ciò precisato, il Collegio ha poi inevitabilmente richiamato anche la celebre sentenza della Corte Europea del Diritti dell'Uomo (CEDU) del 6 febbraio 2025, causa n. 36617/18 più 12, Italgomme Pneumatici Srl ed altri, che si è pronunciata sulla questione delle garanzie spettanti ai contribuenti in sede di verifiche fiscali.
Come noto, con tale pronuncia la CEDU ha condannato l'Italia per violazione dell'art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali sul presupposto che l'ordinamento interno non fornisce garanzie adeguate in relazione agli accessi e alle ispezioni, alle verifiche effettuate dalla Guardia di Finanza e dell'Agenzia delle Entrate presso i locali adibiti ad attività commerciali o professionali dei contribuenti, intesi in senso ampio e quindi comprensive sia delle sedi legali che di eventuali succursali.
Tale pronuncia non si riferisce, pertanto, come al caso in esame, alle sole verifiche fiscali presso i luoghi di privata dimora (residenze e domicili), disciplinate dall' art. 52 , comma 2, del D.P.R. n. 633 del 1972, ma anche ai locali aziendali e professionali nei quali si esercita un’attività economica, tant'è che la Corte EDU ha sul punto espressamente affermato che la citata disposizione "impone requisiti più rigorosi quando tali misure sono autorizzate con riferimento alle "abitazioni" in senso stretto, vale a dire alle residenze private. In casi analoghi, l'autorizzazione può essere rilasciata solo in caso di "gravi indizi di violazione" delle disposizioni fiscali, che devono essere indicate nell'autorizzazione e devono essere emesse da un pubblico ministero, un magistrato in Italia (par. 108).
Due, in particolare, sono state le criticità riscontrate dalla Corte Edu nella trama della disciplina interna delle misure istruttorie in questione, letta anche alla luce della giurisprudenza di legittimità e della prassi dell’amministrazione finanziaria: da un lato, l’eccessiva genericità della normativa che prevede le condizioni e le modalità di autorizzazione e svolgimento degli accessi fiscali; dall’altro, l’assenza di un controllo giurisdizionale adeguato, sia preventivo che successivo, in grado di scongiurare abusi e derive arbitrarie nell’esercizio del potere istruttorio.
Ebbene, l’ordinanza della Corte di Cassazione in commento, richiamando la sentenza della Corte Edu (causa Italgomme Pneumatici) del 6 febbraio 2025 - pronunciata, si ribadisce, in relazione agli accessi in locali commerciali o professionali - con specifico riferimento agli accessi domiciliari ha evidenziato che la normativa italiana non viola la Convenzione poiché prevede già una procedura di garanzia, subordinando proprio l’accesso domiciliare solo in presenza di gravi indizi di violazione delle disposizioni fiscali e previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica.
Sul punto, la Corte di Cassazione ha infatti chiarito che: “… in materia di accesso domiciliare al fine di effettuare verifiche fiscali, il quadro normativo nazionale e la giurisprudenza di questa Corte, di cui sopra si è data ampia illustrazione, soddisfano "i requisiti di qualità imposti dalla Convenzione" (sentenza Italgomme, par. 139) in quanto sostanzialmente allineate alle indicazioni della Corte EDU (par. 148 e 149 della sentenza citata), essendo rispettato l'obbligo per il contribuente di essere immediatamente informato dei motivi che giustificano l'accesso domiciliare ed essendo previsto "un controllo giurisdizionale effettivo (della) misura contestata", ovvero il "controllo del rispetto, da parte delle autorità nazionali, dei criteri e delle restrizioni riguardanti le condizioni che giustificano" l'accesso domiciliare, precisandosi, quanto alla necessità di assicurare al contribuente un tempestivo controllo giurisdizionale, che nella specie il contribuente non ha attivato un'iniziativa giudiziale diversa da quella oggetto del presente giudizio”.
Tanto chiarito, alla stregua delle complessive considerazioni svolte, con la sentenza in esame, è stato affermato il seguente principio di diritto:
“in tema di verifiche fiscali con accesso domiciliare ex art. 52 , comma 2, del D.P.R. n. 633 del 1972 in materia di imposta sul valore aggiunto, applicabile anche ai fini dell'accertamento delle imposte sui redditi in forza del richiamo operato dall' art. 33 del D.P.R. n. 600 del 1973 , in caso di contestazione giudiziale da parte del contribuente, il giudice tributario, anche in forza di quanto osservato dalla Corte EDU nella sentenza del 6 febbraio 2025, in causa n. 36617/18 più 12, Italgomme Pneumatici Srl ed altri, è tenuto a verificare l'idoneità degli elementi offerti dall'ufficio tributario o dalla guardia di finanza, ad integrare i gravi indizi del verificarsi dell'illecito fiscale e la correttezza dell'apprezzamento di quegli elementi da parte del procuratore della Repubblica in sede di rilascio dell'autorizzazione, tenendo conto, quanto al requisito motivazionale, che se il provvedimento è motivato per relationem, mediante recepimento dei rilievi dell'organo richiedente, l'amministrazione finanziaria, che degli effetti dell'autorizzazione vuole avvalersi, deve produrre in giudizio non solo tale provvedimento ma anche la richiesta in essa richiamata a fini motivazionali, a pena di nullità del provvedimento autorizzatorio e, conseguenzialmente, dell'atto impositivo emesso sulla base della documentazione acquisita in esecuzione di quel provvedimento.
Orbene, nel caso in esame i giudici di appello non si sono attenuti ai sopra citati principi in quanto, senza neppure specificare l'effettiva destinazione degli immobili oggetto dell'autorizzazione in esame, si sono limitati a dare atto della sussistenza dei requisiti soltanto formali di detto atto autorizzatorio, senza alcun accertamento in ordine al contenuto motivazionale dello stesso ed in particolare, con riguardo all'immobile adibito esclusivamente ad uso abitativo, senza alcun accertamento in ordine alla sussistenza in detto atto o nella nota in esso richiamata (n. 26276/13 del 09/04/2013 del Nucleo di polizia giudiziaria della G.d.F. di Matera, ove prodotta in giudizio), dei gravi indizi di violazioni di norme tributarie e di correttezza in diritto della valutazione compiuta dal pubblico ministero. Accertamenti che i giudici di appello dovranno compiere nel giudizio di rinvio.”
Ciò posto, il secondo motivo di ricorso è stato accolto, rigettati gli altri; la sentenza d'appello è stata cassata con riferimento al motivo accolto e la causa rinviata alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Basilicata per nuovo esame e per la regolamentazione delle spese processuali del presente giudizio di legittimità.
3. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
Tanto chiarito, può certamente concludersi che la sentenza in esame rappresenta un importante punto di riferimento per la prassi tributaria e per i professionisti del settore legale e fiscale, in quanto riafferma e consolida un principio fondamentale già espresso a livello nazionale ed europeo: l’accesso domiciliare durante le verifiche fiscali è una misura altamente invasiva, che richiede una motivazione rigorosa e verificabile, così da impedire accessi, ispezioni e verifiche meramente “esplorative”, ossia prive di un oggetto determinato e senza alcuna indicazione, seppur in termini generali, della tipologia di documenti che possono essere acquisiti nel corso dell’ispezione.
Di fatto, la Corte di Cassazione richiamando e coordinando la giurisprudenza nazionale ed europea, ha chiarito definitivamente:
- il potere-dovere del giudice di valutare non solo la forma, ma anche la sostanza dell’autorizzazione del PM dell’accesso domiciliare che deve essere sorretta da una motivazione specifica e idonea a comprovare l’esistenza di “gravi indizi” di violazioni tributarie;
- l’inutilizzabilità delle prove acquisite senza un valido presupposto autorizzatorio;
- l’obbligo dell’Amministrazione di produrre l’intera documentazione richiamata per relationem dal PM;
- la necessità di garantire un effettivo controllo giudiziale nell’interesse del contribuente.
Va da sé che per gli operatori del settore, la pronuncia costituisce un importante riferimento sia sul piano operativo, in termini di corretta gestione delle attività ispettive, che sul piano difensivo, nella valutazione della legittimità degli accessi posti a fondamento degli accertamenti fiscali, posto che in ipotesi di accesso autorizzato senza un adeguato supporto indiziario, tutto il materiale acquisito dovrà ritenersi radicalmente inutilizzabile, con conseguente annullamento dell’accertamento.
Dall’enunciato giurisprudenziale si può, infatti, concludere che l’illegittimità dell’accertamento conclusivo deriva non solo dalla previa invalidità dell’atto presupposto, ma anche dall’uso di prove che, in quanto illegittimamente acquisite, sono da ritenersi totalmente inutilizzabili e, automaticamente, causa dell’invalidità dell’atto presupposto.
La carenza motivazionale dell’autorizzazione diventa così una linea di difesa centrale: se il decreto è carente, l’intero accertamento può cadere.
Sarà poi compito del giudice tributario verificare sia la forma che la sostanza del provvedimento autorizzatorio, valutando la reale presenza dei gravi indizi.
Il tutto avvalorato, altresì, dalla coerenza con gli standard CEDU, idonei a rafforzare ulteriormente la tutela della sfera privata e dell’inviolabilità del domicilio.
Si tratta, dunque, di una decisione destinata ad incidere sensibilmente sulle modalità operative degli organi di controllo e sulle strategie difensive nei procedimenti tributari, poiché il contribuente potrà contestare l’accertamento sia sul piano procedurale, verificando la correttezza della motivazione dell’accesso e l’eventuale mancata produzione degli atti richiamati nell’autorizzazione per relationem, che sul piano strettamente sostanziale.