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L’analisi sociologica della criminalità

Esiste un costante, sottile, perenne timore nel mescolare l’analisi giuridica del crimine a quella sociologica
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Indice

1. Le interazioni tra Diritto Penale e Sociologia

2. Le infrazioni di calibro bagatellare

3. Analisi socio-giuridica del binomio spazio pubblico/spazio privato

4. Proprietà privata e potenza pubblica

5. Il ruolo del Diritto Penale

 

 

Le interazioni tra Diritto Penale e Sociologia

Esiste un costante, sottile, perenne timore nel mescolare l’analisi giuridica del crimine a quella sociologica.

Molti Autori, infatti, reputano che il Diritto debba sanzionare, mentre il fine delle Scienze Sociali sarebbe costituito da una comprensione delle devianze priva dell’indicazione dei debiti e pur sempre necessari strumenti rimediali.

A parere di Robert (1984), “il ragionamento, da molto tempo, è quello di tentare di spiegare la criminogenesi omettendo, quasi sempre, di interrogarsi, prima di tutto, sul significato del lemma <<crimine>>”. D’altronde, come sottolineato da Durkheim (1960), il rischio, nella qualificazione del crimine, è sempre quello di tornare alla visione “pura” di Kelsen, ovverosia, nella Prassi giudiziaria, “il crimine è [troppo] legato alla categoria dell’ incriminazione legale, che consta, in definitiva, nella minaccia di una pena inflitta dallo Stato a seguito di un regolare Processo”.

A parere di chi redige, siffatta visione tecnicistica del crimine trasforma il Diritto in un orribile Leviatano completamente disgiunto dalle necessarie categorie filo-democratiche dell’umanità e della proporzionalità.

A tal proposito, Bourdieu (1972) rimarca, giustamente, che l’analisi giuridica della criminalità deve costantemente essere accompagnata anche dalla comprensione sociologica, in tanto in quanto la vera problematica non è solo giudicare un reato, bensì anche contestualizzare l’infrazione giuridica, calibrando la sanzione sulla base della singola e specifica personalità del reo.

Il Procedimento Penale non è un arido calcolo matematico, poiché esso richiede pure una valutazione d’insieme delle caratteristiche soggettive dell’indole e del carattere dell’imputato. Per esempio, il pensiero di chi scrive corre subito all’Art. 133 del Codice Penale italiano, ove si impone la valutazione dell’intero contesto criminologico. Il Magistrato non può e non deve limitarsi ad un’applicazione meccanica del sillogismo giudiziale.

Del resto, pure Villey (1974) rimarca, con estrema sincerità, che il Diritto Penale possiede talune fisiologiche lacune che lo rendono completamente impotente di fronte alle nuove, atipiche fattispecie di reato.

Sempre Villey (ibidem) è assai franco nel postulare fermamente la non-onnicomprensività e la non-autonomia della Giuspenalistica, giacché “il crimine non può essere pensato come una classificazione giuridico-penale e non [anche] comportamentale”. Viceversa, noi dovremmo discutere all’infinito sulla non-efficacia prescrittiva della legge. D’altronde, la maggior parte dei criminologi sottolinea che talune norme non prescrivono e non proibiscono”. In effetti, anche a parere di chi redige, gli Artt. 1-54 della Costituzione italiana non sono kelsenianamente “puri”, in tanto in quanto esternano principi di fondo non accompagnati da sanzioni vere e proprie.

Pertanto, molti Dottrinari propongono una visione più “naturale” e meno tecnica del Diritto, nel senso che la criminogenesi è, anzitutto e soprattutto, un fenomeno umano sociologicamente condizionato e non riconducibile alla sola legge positivisticamente intesa.

Provvidenzialmente, Birnbaum (1984) ha spiazzato la Scuola di pensiero di Durkheim, osservando, in maniera assai pertinente, che le devianze criminali sono tali in tanto in quanto esse provocano una “reazione sociale” che non coincide, subito e necessariamente, con una sanzione giuridica di matrice penalistica. Per esempio, sussistono talune infrazioni anti-sociali, ancorché non anti-giuridiche, come dimostra l’attuale accettazione collettiva occidentale nei confronti di condotte sessuali non più qualificate come “reato”.

Oppure ancora, si ponga mente all’anti-socialità non giuridicamente rilevante di certe forme di prostituzione. Altrettanto emblematica è la “reazione sociale”, non legalmente supportata, nei confronti di pratiche religiose di tipo settario. L’errore di Durkheim è consistito nell’ipostatizzare le norme legali prescindendo dal profilo sociologico del crimine. Le griglie ermeneutiche del Diritto Penale non sono e non possono essere onnicomprensive.

A tal proposito, Robert (1984b), nell’ambito della Criminologia francofona della seconda metà del Novecento, ha correttamente argomentato che “ci è voluto un tempo troppo lungo per ripristinare la lettura sociologica del crimine […] L’importante è l’incriminazione da parte della legge penale, ma con una precisazione: tutti gli asserti repressivi della legge non sono applicati con la medesima intensità, [poiché] una determinata infrazione può essere tale in un’epoca e in uno spazio, oppure no. Quindi, non si può soffermarsi solamente sull’incriminazione primaria [sociale] per poi omettere di analizzare anche quella giudiziaria, e viceversa”.

Molto interessante è pure Hebberecht (1985), il quale, in tema di intersezioni ermeneutiche tra Diritto e Sociologia, ha notato che “[molti Dottrinari] sono chiusi all’interno di un universo sottilmente [o esclusivamente, ndr] giuridico. Essi non sono per nulla riusciti a mettere in evidenza la ragione sociale della ragione giuridica, salvo talvolta annullare brutalmente la specificità della ragione giuridica [e viceversa, ndr]”.

Analogamente, Thompson (1977) rimarca la crescente necessità di una “sociologia globale” in grado di bilanciare tanto il Diritto quanto la Sociologia nel contesto della qualificazione della criminalità.

Nella Criminologia occidentale, come evidenziato da Thompson (ibidem), non sono mancati, nel Novecento, Studi alquanto raffinati con afferenza all’analisi tanto sociologica quanto giuridica delle infrazioni penalmente rilevanti, “[…] tuttavia, l’approfondimento di questa tematica ha rivelato anche il proprio limite: Studi sia globali sia settoriali sono concordi nell’individuare più reazioni sociali che innovazioni sociali; dunque, la domanda, che rimane aperta, è quella della ricerca delle etero-determinazioni anteriori che stanno alla base del Diritto Penale. Tuttavia, […] non è facile individuare i giochi e le varie strategie degli attori sociali concreti […] Sotto le maschere, è difficile riconoscere chi sia l’attore sociale concreto. Inoltre, spesso, ciò che produce il processo penale non rinviene alcun significato sociale”.

In effetti, le Norme giuridiche di un Ordinamento dittatoriale non seguono mai una nomogenesi nazional-popolare. Oppure ancora, viceversa, sovente, le istanze del tessuto sociale non coincidono con il dato de jure condito. Pertanto, è falso asserire l’esistenza di un Diritto Penale interamente ed automaticamente plasmato sulla base della reazioni socialmente etero-determinate.

Altrettanto ingenua è l’immagine di un Ordinamento spontaneamente e genuinamente scaturito da un “contratto sociale” di groziana memoria. La volontà popolare non pre-determina, sempre e comunque, il Sistema penale, come dimostrano perenni conflitti sociali cagionati da un Diritto non collettivamente accettato. Persino Durkheim, per quanto ormai datato, ha sostenuto che le rappresentazioni collettive del Diritto Penale dipendono da una vasta gamma di fattori nomogenetici, come la distribuzione del potere, le capitalizzazioni culturali e le tradizioni religiose, ideologiche e politiche.

Anzi, l’incontro/scontro tra fattori giuridici e fattori sociali dipende pure dal grado della general-preventività nonché della special-preventività, tenuto conto anche del fatto che tale deterrenza è oggi manipolata a dismisura dai nuovi mass-media. In buona sostanza, il legame tra Sociologia e Diritto è influenzato dai vari linguaggi dei vari ambiti che concorrono alla nomogenesi.

 

Le infrazioni di calibro bagatellare

Le notizie di reato di calibro bagatellare sono ricevute dalla PG in maniera passiva; ovverosia, per siffatte ipotesi di reato, l’Ordinamento reputa eccessivo istruire e recare innanzi un Procedimento Penale che recherebbe a risultati scarsi, se non nulli. Tale, ad esempio, è il caso del Modello 45 nel vigente Codice di Procedura Penale italiano. In realtà, sotto il profilo della Prassi concreta, le querele di furto di automobili e motociclette vengono sporte non per finalità prettamente riparative, bensì soltanto per rendere possibile la riscossione del premio assicurativo.

Dunque, la parte lesa non mira alla restituzione del bene sottratto, bensì all’attivazione dei meccanismi assicurativi normalmente connessi ai beni mobili immatricolati. Secondo Zauberman (1984), “la crescita delle querele per furto non è solo e meccanicamente legata alla riscossione delle polizze assicurative. Bisogna anche considerare lo sviluppo dei modi di vita […] che agevolano certe infrazioni come il furto di auto- e moto-veicoli. Si deve anche tener conto dell’ assai larga diffusione di certi beni, oltretutto malsorvegliati”.

Tuttavia, pertinentemente, Robert & Lambert & Faugeron (1976) sono riusciti a chiarire, sotto il profilo nomogenetico, che “vi è stata una mutazione storica nell’istituto della querela. Per molto tempo, lo spazio comunitario locale, del paese o del quartiere, ha costituito il terreno essenziale per il regolamento delle controversie. La querela, pertanto, era inserita in un sistema regolatorio locale. Essa serviva soprattutto a fare pressione per giungere ad una ricomposizione del conflitto o per regolare i conti […]. Oggi, al contrario, la vittima, quasi sempre, ignora l’identità del reo e le comunità locali hanno perso gran parte della loro capacità regolatoria. Dunque, la querela diviene l’unico strumento rimediale possibile. Essa ha cambiato ratio: il querelante chiede allo Stato di far uscire dall’anonimato il soggetto agente, poiché non esistono più strumenti regolatori ufficiosi”. Ora, poiché la PG non riesce, tuttavia, nella maggior parte dei casi, a scoprire l’identità del reo, il compito di risarcire il danno, se esso è bagatellare, passa in capo al sistema privato degli istituti assicurativi.

Ciononostante, Zauberman & Robert (1984) contestano tale de-statalizzazione privatistica del risarcimento del danno, giacché “questa gestione privata squilibra il rapporto costi/vantaggi, non risarcisce il danno morale e [soprattutto, ndr] crea un auto-rifiuto, un abbandono, da parte dello Stato, nei confronti del proprio compito tradizionale, ovverosia quello di garantire la sicurezza dei beni e delle persone”. D’ altronde, in Grozio, il “contratto sociale” prevedeva la delega, alla PG ed all’AG, dell’uso legittimo della forza per la ricomposizione dei conflitti sociali. Ora, l’inerzia statale nei confronti dei reati bagatellari contribuisce ad infrangere tale summenzionato patto collettivo. L’unica soluzione apparentemente auspicabile consta in una presenza totalizzante della PG in qualsiasi luogo ed in qualsiasi orario, ma, come rimarcato da Aubusson de Cavarlay (1984), il mito fuorviante di una PG onnipotente ed onnipresente reca ad un regime retribuzionista impostato su una “tolleranza zero” dittatoriale, brutale, nonché anti-democratica. In effetti, in una società autenticamente sana, deve pur sempre sussistere quella che Nils Christie chiamava “una modica quantità di crimine”.

Un secondo esempio del fallimento della centralità statale consiste nella repressione dei disordini sulle strade e negli altri luoghi pubblici. Anche nell’ambito del mantenimento della quiete e della sicurezza pubblica, l’Ordinamento penale non fornisce risposte adeguate ai consociati. Infatti, come affermato da Aubusson de Cavarlay (ibidem), la PG raramente riesce ad individuare, in maniera sufficientemente precisa, i responsabili delle attività di disturbo in luoghi aperti al pubblico. Pertanto, l’intervento repressivo della PG si sostanzia, in definitiva, in una multa o in blande misure restrittive della libertà personale, destinate, per lo più, a soggetti minorenni o stranieri o, ognimmodo, appartenenti a categorie emarginate della popolazione. Dunque, come si può notare, anche la fattispecie degli schiamazzi notturni e degli assembramenti molesti rivela la debolezza intrinseca del Diritto Penale, che non fornisce affatto la risoluzione di qualsivoglia problematica sociale. Il Diritto Penale, nelle realtà metropolitane contemporanee, non ha per nulla sostituito gli strumenti rimediali informali che dominavano la tranquilla vita rurale pre-industrializzata. È necessario sfatare il mito di una PG idonea solo se aggressiva ed onnipresente.

In terzo luogo, bisogna analizzare pure la fattispecie degli apparati di vigilanza privata, i quali sostituiscono l’ordinario ruolo della PG istituzionale. P.e., si ponga mente alla security nei grandi magazzini, dispiegata per il contrasto ai furti di merce. Ora, in presenza di un apparato privato di vigilanza, l’accertamento della responsabilità penale è molto veloce e l’intervento della PG statale altro non è se non un corollario automatico che conferma le intenzioni del sistema privato di sicurezza. In tali casi, come nota Lascoumes (1983), l’intervento di una polizia privata “comporta, come conseguenza, che non c’è più nulla da chiarire, perché [la consegna del reo alla PG] è una mera formalità, che poi consente di avviare il trattamento penale della vicenda. Come evidenziato da svariati Criminologi, la security privata reprime essa stessa reati come il furto, ma sotto il profilo tecnico, tale apparato interno di vigilanza riveste un ruolo decisamente a-tipico, che mette in dubbio l’autonoma sovranità dell’Ordinamento Penale pubblico. Paradossalmente, di fatto, il vigilante si sostituisce al Magistrato nell’esercizio dell’azione penale.

In buona sostanza, il trattamento ordinamentale delle infrazioni bagatellari dimostra che la PG non può e, peraltro, non deve debordare verso un oltranzista giustizialismo, in tanto in quanto anche il Diritto Penale non costituisce per nulla un settore giuridico perfettamente scevro da lacune ed antinomie. Dunque, lo sforzo della Criminologia contemporanea dev’essere quello di rinvenire un giusto equilibrio tra l’analisi sociologica ed il trattamento giuridico del crimine, giacché esistono talune manifestazioni della Giuspenalistica alle quali la tecnica giuridica, da sola, non può rispondere.

Pertanto, la Sociologia reca il merito di aver mostrato, in chiave riduzionistica/abolizionistica, gli enormi limiti del Diritto Penale e, per conseguenza, delle attività della PG. Giustamente, Aubusson de Cavarlay (ibidem) sostiene che “il Diritto Penale può essere visto come un registro della vita sociale specificato [anche] da categorie giuridiche”, utili, in ultima istanza, per garantire un minimo di pacifica convivenza sociale. Dunque, criminalizzare una condotta crea e ribadisce un determinato sistema sociale che, comunque, pre-esiste al Diritto. Il Diritto Penale è una strategia per far rispettare le regole auto-prodotte da un tessuto collettivo. Il problema, tuttavia, a parere di chi redige, sorge allorquando si percorre la via contraria, ovverosia allorquando un Diritto Penale anti-democratico opera per provocare e stabilizzare mutamenti di carattere sociale. In tal caso, il Diritto si trasforma in uno strumento oligarchico tendente alla pura repressione delle istanze nazional-popolari.

 

Analisi socio-giuridica del binomio spazio pubblico/spazio privato

Sotto il profilo meta-temporale e meta-geografico, nello spazio (aperto al) pubblico la PG, dunque lo Stato, ha il compito essenziale e, financo, scontato di mantenere l’ordine, l’igiene e la sicurezza collettiva. All’interno dello spazio pubblico, tendenzialmente, la PG controlla e domina il territorio attraverso una ben rigida applicazione del Diritto, Penale e non solo. A tal proposito, il francofono Farge (1979) asserisce che lo spazio pubblico è rigorosamente connotato dalla “fluidità e dall’ apparenza.

Fluidità, in primo luogo, giacché il luogo pubblico è, anzitutto e soprattutto, quello ove ognuno circola senza che nulla possa cambiare l’uso istituzionalmente libero del luogo pubblico.

Apparenza, in secondo luogo, poiché l’intervento della polizia è subito attirato da qualunque eventuale disordine o contestazione nei confronti della pubblica autorità”. In addenda, Brodeur (1984) specifica che lo spazio pubblico reca pure la caratteristica della “visibilità”, “che riguarda come si distribuisce socialmente l’esposizione al rischio di essere visti, il che rinvia alla distribuzione socialmente significativa, ma complessa, delle modalità della vita; modalità della vita talvolta protette dalla privacy, talaltre volte esposte alla vista altrui”.

Un successivo passaggio, analizzato da Lévy (1984) è la giuridificazione penale dello spazio pubblico, in cui, come prevedibile e come fisiologico, le convenzioni sociali si trasformano in norme giuridiche munite di sanzioni. A tal proposito, si pensi, per esempio, agli schiamazzi, alle norme stradali, alle infrazioni per divieto di sosta e, a livello di ratio, a tutte quelle norme che tendono ad impedire qualsivoglia privatizzazione dello spazio pubblico.

In secondo luogo, esiste la problematica dello spazio privato, nell’ambito del quale abbondano querele per furto e scasso, con la conseguente istruzione di Procedimenti Penali dominati, per lo più, dall’attività investigativa e repressiva della PG. A tal proposito, molti Autori, tra cui il francofono Castan (1985) sottolineano, in chiave abolizionistica o, quantomeno, riduzionistica, che, nelle civiltà rurali anteriori all’era industriale, le controversie che attenevano allo spazio privato ed alla proprietà privata erano risolte, per via informale, all’interno della comunità locale ed in maniera alternativa a quello che oggi è il Processo Penale.

Negli ambiti degli spazi privati che contengono attività commerciali che necessitano di una clientela, è pur vero che l’attività di security viene, spesso, delegata a corpi di vigilanza altrettanto privati e, a loro volta, supportati da costose polizze assicurative contro il furto., lo scasso ed il danneggiamento. P.e., come rimarcato da Claverie & Lamaison (1982), nelle gioiellerie e nei supermercati, “quando lo spazio privato è accessibile al pubblico – per l’esercizio di un negozio – il ruolo concreto della polizia pubblica è assai limitato […] perché, allora, prevale una gestione commerciale della sicurezza”.

Analoga osservazione vale pure per gli spazi privati aperti ad un vasto pubblico di utenti. Anche in tal caso, le strutture di vigilanza privata tendono a sostituirsi alla ordinaria PG statale. A tale apparato privato importa non tanto l’adizione di un Magistrato, quanto, piuttosto, l’espulsione dell’infrattore dal luogo privato sottoposto alla vigilanza non-pubblica. Dunque, l’autentica problematica consta nel porre limiti alla potestà degli istituti di vigilanza privati, in tanto in quanto, nelle Costituzioni occidentali contemporanee, l’azione penale non è mai espressamente delegata a soggetti privati. I sistemi di security non pubblici pongono il grave problema della (non) delega dell’uso legittimo della forza. In effetti, jure stricto, deve sussistere un regime chiuso di potestà riservate alla PG, a sua volta dipendente dall’altrettanto pubblica AG.

 

Proprietà privata e potenza pubblica

A prescindere dagli specifici dettagli, esiste, nel contesto sociale, quindi giuridico, un costante, ininterrotto, ontologico attrito tra la proprietà privata ed il potere pubblico. Come prevedibile, questo incontro/scontro reca delle precise condizioni.

Anzitutto, quando la PG interviene all’interno di uno spazio privato, il legittimo uso della forza è, contestualmente, limitato e facilitato; limitato, perché la PG è tenuta a rispettare il limite giuridico della proprietà privata; facilitato, perché è grazie alla PG che il consociato può legittimamente rimuovere gli elementi che ostacolano o disturbano il libero uso della proprietà privata.

In secondo luogo, perlomeno nei negozi e nei grandi magazzini, come notato da Shearing (1984), il cliente diventa partecipe del diritto di proprietà, in tanto in quanto, nella sopravvenienza di un elemento di disturbo, la PG tutela lo spazio privato sia nell’interesse del titolare, sia nell’interesse dell’utente.

In terzo luogo, il proprietario di uno spazio privato deve materialmente consentire alla PG di fare ingresso nei suoi locali per impedire la violazione del diritto di proprietà privata.

Infine, la violazione dello spazio privato deve avvenire non in una zona visibile, aperta o di passaggio promiscuo; ovverosia, il ripristino dell’Ordine costituito all’interno di un luogo privato presuppone che tale ambiente sia, evidentemente e concretamente, ben separato dalle pubbliche vie, dalle piazze e da ogni altro ambiente aperto al passaggio comune.

Ad ogni modo, poi, molto dipende pure dalla gravità dell’infrazione commessa nella dimora privata, giacché un furto bagatellare risolvibile dalla vigilanza privata non reca l’intensità anti-sociale ed anti-normativa di una lesione personale o di un omicidio volontario. Un’altra variabile, inoltre, è costituita pure dalla Prassi della PG, la quale, a seconda dei vari Ordinamenti socio-giuridici, sarà più o meno invasiva di fronte ad un luogo di natura privatistica. Rimane, poi, come dimostra l’esempio delle Banche, la problematica degli istituti di vigilanza privati, i quali, come rimarca Poncela (1983), “hanno delle prerogative di potenza pubblica […] sono organi para-/peri-amministrativi o anche persone di diritto privato, che hanno ricevuto la delega di una parte delle prerogative della potenza pubblica”.

La questione della security privata non è da sottovalutare, in tanto in quanto essa, nel bene o nel male, diminuisce il monopolio statale nell’esercizio legittimo della forza fisica. Negli Ordinamenti costituzionali del Novecento, il ruolo della PG statale è egemonico; ed altrettanto riservato è il rapporto diretto e pressoché automatico tra PG ed AG. La realtà contemporanea della vigilanza privata potrebbe recare ad una sottile destabilizzazione ordinamentale, soprattutto all’ interno di Ordinamenti deboli e già inficiati da più o meno marcate tendenze dittatoriali. Delegare, anche solo in parte, l’ uso legittimo della forza può minare le fondamenta di un normale Ordine democratico. Si tratta di un pericolo non assoluto, non imminente, ma, certamente, presente.

 

Il ruolo del Diritto Penale

Sotto il profilo teorico, l’azione penale è automaticamente esercitata, da parte del Magistrato requirente, quando viene commesso o tentato un illecito previsto e punito da una norma incriminatrice. Tuttavia, sotto il profilo concreto, un reato è, o, viceversa, non è perseguito a seconda della decisione della PG, la quale può gestire a suo piacimento le indagini preliminari, condizionando l’attività del Magistrato, le cui decisioni dipendono interamente dalle attività investigative della PG.

Dalla maggiore o minore diligenza della PG dipende l’esito finale del Procedimento e la sorte dell’indagato/imputato. Lévy (1984) sottolinea che la PG; purtroppo, è essa stessa la prima a consigliare a certune parti lese di non sporgere querela, a fronte di reati bagatellari che non recheranno ad un concreto risarcimento. Altre volte, la PG, sempre in piena autonomia, suggerisce al Magistrato, nella lettera di accompagnamento della querela, di trattare la fattispecie alla stregua di un “fatto non costituente reato”. Oppure ancora, quando interviene un avvocato, un’agenzia investigativa o un istituto di vigilanza privata, l’ago della bilancia si sposta a discapito della parte processuale munita di risorse economiche inferiori.

Spesso, inoltre, le notitiae criminis direttamente depositate alla ricezione Atti della Procura vengono re-indirizzate alla PG, con un conseguente ri-avvio del summenzionato circolo vizioso. Alcune volte, la PG decide, poi, di non coltivare notizie di reato nelle quali appaiono lesi interessi legittimi anziché diritti soggettivi.

In tal caso, si tratta di malumori demagogici che dovrebbero rinvenire soluzione innanzi ad un Tribunale Amministrativo e non Ordinario. Ciononostante, va rimarcato che, visto dall’esterno, agli occhi dell’opinione pubblica, l’Ordinamento penale tende a non svelare le proprie antinomie. Assai difficilmente l’opinione pubblica riuscirà a percepire le contraddizioni della Giuspenalistica. Agli occhi del senso comune, l’assetto istituzionale pare conciliare in maniera impeccabile il profilo pubblico con quello privato. Anzi per quanto afferisce al ruolo della PG, raramente si evidenzia il potere eccessivo conferitole dall’Ordinamento giuridico. Sarà sempre arduo, specialmente in contesti populisti e dittatoriali, contestare le potestà quasi assolute di una PG che viene a condizionare troppo la qualificazione dei “fatti non costituenti reato”.

In effetti, come dimostra la fattispecie dei regimi totalitari, una PG iper-potente costituisce un vero e proprio pericolo per l’assetto democratico dello Stato, nel quale, sotto il riguardo costituzionalistico, il Magistrato dovrebbe, normalmente, rivestire un ruolo di predominio sulla PG, non il contrario.

Viceversa, in molti Sistemi contemporanei, l’azione penale è, o, viceversa, non è esercitata in funzione dei pre-concetti investigativi della PG, cui compete la classificazione dei reati, almeno in via preliminare. Un caso tutt’ affatto particolare, poi, è quello del querelante che sottopone alla PG la lesione di un interesse legittimo non procedibile da parte del Giudice Ordinario. In questo caso, la PG non procede per un motivo tecnico fondato, ma non si comprende perché, negli Ordinamenti contemporanei, non sia prevista la rimessione automatica degli Atti ad un Giudice Amministrativo. In effetti, trasmettere automaticamente il Fascicolo all’Autorità Giudiziaria civile o a quella amministrativa abbasserebbe i costi privati per l’istruzione di Procedimenti aventi ad oggetto “fatti non costituenti reato”.

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