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Esposizione ad amianto e legge scientifica universale

Amianto
Amianto

Indice:

1. Introduzione: legge scientifica e nesso di causalità

2. Fondamento della responsabilità penale

3. Analisi dell’incidenza dell’ulteriore dose

4. Metodo scientifico e criticità

5. Trigger dose e concorso in aggravamento del rischio

6. Fondamento della decisione

 

1. Introduzione: legge scientifica e nesso di causalità

Con la sentenza in esame (Cassazione Penale, Sez. IV, Sent. 15 aprile 2020 (Ud. 30 gennaio 2020), n. 12151 - Presidente Di Salvo, Relatore Nardin) la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul tema del nesso causale per fatti di omicidio colposo derivanti da esposizione ad amianto di una lavoratrice, operaia addetta al montaggio e allo smontaggio di arredi di veicoli ferroviari, deceduta per effetto di mesotelioma pleurico, neoplasia polmonare causata, secondo vasta letteratura medica, dall’inalazione di fibre di asbesto.

Gli imputati, legali rappresentanti della ditta ove l’operaia ha ininterrottamente prestato lavoro dal 1981, hanno proposto ricorso avverso la sentenza della Corte di appello di Torino che ha confermato la sentenza del Tribunale di Vercelli, condannando gli stessi alla pena ritenuta di giustizia per omicidio colposo in cooperazione.

La pronuncia è di interesse sotto il profilo dell’accertamento dell’elemento oggettivo della fattispecie, perché si pone in continuità interpretativa con l’orientamento ormai dominante sul tema.

In particolare, la Sezione IV Penale ha ritenuto che l’accertamento del nesso causale tra esposizione ad asbesto nei luoghi di lavoro, riconducibile alla condotta omissiva del datore di lavoro che ha mancato di predisporre «misure precauzionali atte ad impedire la diffusione ambientale e l’inalazione di fibre di amianto»[1], e l’evento morte dovuto all’insorgenza del mesotelioma non può svolgersi in termini meramente probabilistici, ma va riscontrato secondo i parametri della causalità individuale.

Viene così confermata una corrente giurisprudenziale già da tempo seguita dal giudice di legittimità che, dunque, rafforza il suo orientamento proprio rendendo granitica la necessarietà di una verifica ‘stretta’ del nesso causale, verifica che deve pertanto essere caratterizzata da rigore metodologico e assenza di alee interpretative in relazione alla ricorrenza dei presupposti fattuali e scientifici.

L’impianto della pronuncia ripropone l’impostazione logico giuridica della nota sentenza Olivetti[2], con la quale il Supremo Collegio ha avuto modo di precisare che «per legge scientifica universale si intende quella in base alla quale la verificazione di un evento è invariabilmente accompagnata dalla verificazione di un altro evento; per legge scientifica statistica si intende invece quella in base alla quale il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro evento in una certa percentuale di casi, con la conseguenza che queste ultime sono più dotate di validità scientifica quanto più possono trovare applicazione in un numero sufficiente di casi e sono suscettive di ricevere conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali e controllabili», così concludendo per la preferenza del criterio più prossimo ai canoni maggiormente condivisi dalla comunità scientifica.

 

2. Fondamento della responsabilità penale

La verificazione della patologia mortale la cui genesi è ricondotta all’esposizione ad amianto nell’ambiente lavorativo integra l’ipotesi del reato di omicidio colposo previsto e punito dall’art. 589 c.p. ed è attribuibile a fatto e colpa omissivi del datore di lavoro che ha adibito il lavoratore ad attività caratterizzate dalla presenza di cancerogeni, in particolare, fibre di amianto, aero disperse ed inalabili, altamente tossiche per la salute, omettendo i dovuti controlli sulle condizioni di igiene e di salubrità degli ambienti ove operava[3].

Nel caso in esame è stata ritenuta, inoltre, sussistente la violazione del generale principio di cui all’art. 2087 c.c., rubricato “Tutela della condizioni di lavoro”, di per sé sufficiente a determinare la responsabilità penale del datore di lavoro[4] ed ingenerante a carico del datore di lavoro medesimo una sostanziale inversione dell’onere della prova, tale che spetta a questi provare l’effettiva adozione di tutte le necessarie misure per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali[5].

Pertanto, a carico del datore di lavoro è stata ravvisata colpa non solo generica, per violazione delle più elementari norme di diligenza, prudenza, perizia, ma anche specifica, per mancata osservanza della normativa di prevenzione degli infortuni e per l’igiene del lavoro, ed in particolare degli artt. 4, 351, 352, 353, 354, D.P.R. 547/1955, 4, 7, 18, 21, 26 D.P.R. 303/1956.

 

3. Analisi dell’incidenza dell’ulteriore dose

Il giudice, nella sentenza de quo, ha ritenuto necessario procedere alla ricostruzione di uno specifico nesso tra singola condotta/esposizione ed evento/morte. Il Supremo Collegio, nel ritenere sussistenti tutti gli elementi atti ad integrare il paradigma giuridico della causalità individuale, confermando il percorso argomentativo del giudice di merito, ha riconosciuto l’assenza di vizi in capo alla sentenza impugnata nei termini sollevati dai ricorrenti, secondo le argomentazioni che seguono.

Il primo profilo di analisi che viene in rilievo riguarda l’incidenza della reiterata esposizione a fibre di amianto nello sviluppo e nel peggioramento della malattia, problematica che ha visto per lungo tempo contrapporsi diversificate posizioni dottrinarie. Il nodo cruciale è stabilire se “l’ulteriore dose” inalata abbia prodotto un effetto peggiorativo della neoplasia, incidendo sul suo decorso, o se sia stata del tutto ininfluente, essendo la malattia già conclamata.

Sul punto, il Supremo Collegio sembra ribadire quanto già affermato nella sentenza della Sez. IV, n. 43786 del 17 settembre 2010, secondo la quale, con particolare riferimento alla questione della dose-dipendenza dell’adenocarcinoma polmonare, neoplasia con caratteristiche e risvolti processuali per molti aspetti sovrapponibili a quelli del mesotelioma e di cui meglio si dirà più avanti, il giudice di merito è tenuto ad appurare la ricorrenza di precise condizioni.

In primis, si deve vagliare se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata, su solide e obiettive basi, una legge scientifica in ordine all’effetto acceleratore della protrazione dell’esposizione dopo l’iniziazione del processo carcinogenetico. In secundis, qualora la risposta al quesito sia di tipo affermativo, va conseguentemente determinato se ci si trovi in presenza di una legge universale o solo probabilistica in senso statistico, aspetto questo che costituisce proprio la questione centrale della sentenza in argomento.

Nel caso in cui la generalizzazione esplicativa sia solo probabilistica, infatti, va chiarito se l’effetto acceleratore si sia determinato nel caso concreto, alla luce di definitive e significative acquisizioni fattuali o se rimanga nel novero delle possibilità empiricamente riscontrabili, privo ciononostante di qualsiasi corrispondenza alla realtà.

Ancora, nella sentenza 43786, si specifica che, per ciò che attiene alle condotte anteriori all’iniziazione e che hanno avuto durata inferiore all’arco di tempo compreso tra inizio dell’attività lavorativa dannosa e iniziazione, va ulteriormente appurato se, alla luce del sapere scientifico, possa essere dimostrata una sicura relazione condizionalistica rapportata all’innesco del processo carcinogenetico, secondo lo schema della causalità individuale.

La sentenza de quo evidenzia come sia da escludere l’esistenza di una copertura scientifica della teoria dell’effetto acceleratore «non condivisa, in modo generalizzato, nella letteratura internazionale di settore»[6] sicché, in un’ottica di rigore metodologico e scientifico occorre approfondire ulteriori elementi.

 

4. Metodo scientifico e criticità

Non possono non evidenziarsi sul punto aspetti di criticità. Lo stesso giudice invita ad osservare che, qualora egli stesso «si adoperasse secondo le indicazioni fornite da tale pronuncia, finirebbe per divenire artefice delle leggi scientifiche anziché fruitore delle stesse, oltretutto nell’evidente assenza di strumenti tecnici per pervenire ad un tale risultato: con la conseguenza di avanzare opinioni esplicative al di fuori dei crismi che caratterizzano il sapere scientifico»[7].

Va precisato che quello afferente alle imputazioni di omicidio colposo per violazione della normativa sulla sicurezza sul lavoro è un contenzioso penale a carattere fortemente cartolare, con assoluto protagonismo delle allegazioni peritali, canale di ingresso della scienza nel processo, che, proprio per scongiurare siffatta degenerazione, devono essere a loro volta certamente assoggettate e, quindi, analizzate secondo criteri di giustizia. Non è, infatti, raro che le consulenze presentate dalla difesa e dalle parti civili o le perizie disposte dal Tribunale siano tra di esse assolutamente incongruenti e contraddittorie, come peraltro è accaduto nel procedimento culminato nella pronuncia in esame.

Orbene, come esplicitato nella sentenza Olivetti[8] «la valutazione metodologica affidata alla Corte di legittimità circa l’approccio del giudice di merito al sapere scientifico, passa, necessariamente, per il controllo di tale approccio sotto il profilo dell’osservanza dei criteri e delle modalità di individuazione e di selezione della legge scientifica di copertura».

Sempre la Suprema Corte, in una pronuncia di assoluto rilievo, ha avuto modo di chiarire che «a) non è il giudice ad elaborare la legge scientifica, essa deve essere allegata ed asseverata dalle parti; sarà compito del giudice, con la razionalità della sua motivazione, valutarne l’attendibilità, b) la norma penale, per la sua applicazione, non fa “rinvio” al sapere scientifico, in quanto esso è utilizzato a soli fini probatori”, ed osserva che “partendo dal presupposto che in ambito scientifico ben difficilmente c’è unitarietà di vedute e che non è consentito al giudice defilarsi con un “non liquet”, è suo compito dare conto con la motivazione, della legge scientifica che ritiene più convincente ed idonea o meno a spiegare l’efficacia causale di una determinata condotta, tenendo sempre conto di tre parametri di valutazione: il ragionamento epistemologico deve essere ancorato ad una preventiva dialettica tra le varie opinioni; il giudice non crea la legge ma la rileva; il riconoscimento del legame causale deve essere affermato al di là di ogni ragionevole dubbio»[9], concludendo che «nella valutazione della sussistenza del nesso di causalità, quando la ricerca della legge di copertura deve attingere al sapere scientifico, la funzione strumentale e probatoria di quest’ultimo impone al giudice di valutare dialetticamente le specifiche opinioni degli esperti e di motivare la scelta ricostruttiva della causalità ancorandola ai concreti elementi scientifici raccolti. Una opinione ricostruttiva fondata sulla mera opinione del giudice attribuirebbe a questi, in modo inaccettabile, la funzione di elaborazione della legge scientifica e non invece, come consentito, della sola utilizzazione»[10].

La legge scientifica di riferimento va rintracciata per l’attitudine a fungere da copertura logica alla pronuncia, per essere portatrice di quei requisiti in grado di collegare causalmente la condotta all’evento. Essa deve, quindi, superare il giudizio di probabilità logica, nell’ambito del quale devono essere considerati ed esclusi fattori causali alternativi alla condotta posta in essere dal datore di lavoro.

L’esclusione dei fattori causali alternativi ora richiamati, va precisato, risulta abbastanza agevole nella neoplasia che colpisce il mesotelio, essendo stati isolati in letteratura medica i fattori di rischio della stessa, tra i pochi quali, centrale, per incidenza e attualità[11], è proprio l’esposizione ad amianto, sicché oggi la comunità scientifica ritiene in modo unanime che l’unica forma di prevenzione adottabile per scongiurare la malattia di cui si tratta sia evitare qualsiasi contatto con il materiale cancerogeno.

Ragionamento, questo, da maneggiare con cautela, invece, in relazione all’adenocarcinoma polmonare, tumore con genesi multifattoriale che, pertanto, condensa aspetti ancor più problematici in relazione alla dimostrazione del nesso causale, nodo centrale della presente disamina, potendo la neoplasia ricorrere per svariati e ulteriori fattori, tra i quali, ad esempio, il fumo di sigaretta. In siffatte circostanze è ostico il percorso dimostrativo teso ad escludere la genesi tumorale in capo a taluni elementi di rischio e a confermarla univocamente su altri o, certamente, è probabilisticamente più complesso.

 

5. Trigger dose e concorso in aggravamento del rischio

Per qualche tempo, la giurisprudenza ha condiviso la tesi della c.d. “trigger dose”, secondo cui non sia possibile verificare in quale momento il lavoratore abbia inalato la cosiddetta “dose grilletto”, secondo l’impostazione teorica, sufficiente a determinare lo sviluppo del tumore, dal momento che il lavoratore è stato soggetto a plurime esposizioni considerate del tutto ipotetiche, ad esempio presso più aziende dello stesso settore nelle quali è stato dipendente, come ricorreva sovente per i dipendenti delle fonderie e dei petrolchimici, con l’asserita conseguente difficoltà dell’imputazione obiettiva di responsabilità.

La tesi in questione divenne presto oggetto di critica nella misura in cui non teneva – per un gruppo minoritario di studiosi erroneamente – conto dell’incidenza dell’effetto acceleratore determinato, nel caso dell’amianto, dalla perdurante esposizione in cui il lavoratore si trovava proprio in ragione dell’attività che prestava.

Infatti, in ossequio alla tesi della “dose grilletto”, ritenendo che l’insorgenza della patologia oncologica potesse essere causata anche dalla sola iniziale esposizione – appunto la cd. “trigger dose” o “dose killer” – tutte le esposizioni successive, pur in presenza di concentrazioni anche elevatissima di fibre cancerogene, dovevano reputarsi ininfluenti, così contravvenendo alle valutazioni epidemiologiche dell’evoluzione delle patologie tumorali, le quali non confortano l’assunto che possa giammai restare indifferente al periodo di latenza la durata e l’intensità dell’esposizione[12].

L’elaborazione teorica si basa sull’assunto che ogni ulteriore esposizione nel tempo a sostanze cancerogene avrebbe una efficacia causale rispetto all’insorgenza della patologia e sarebbe direttamente riverberata nella rapidità di evoluzione del processo cancerogenetico. Del resto, «la molteplicità di alterazioni innestate dall’inalazione delle fibre tossiche necessita del prolungarsi dell’esposizione e dal detto prolungamento dipende la durata della latenza e, in definitiva della vita, essendo ovvio che a configurare il delitto di omicidio è bastevole l’accelerazione della fine della vita»[13].

Essa, tuttavia, non può in alcun modo essere equiparata ad una legge universale come in apertura definita[14] e come da sillogismo deduttivo indicato ripreso dalla Suprema Corte nella già citata sentenza n. 43786, secondo cui «l’esposizione protratta all’amianto dopo l’iniziazione determina sempre l’accelerazione dell’evento tumorale; l’esposizione si è concretata; l’esposizione ha con certezza abbreviato la latenza e quindi la durata della vita”)» e in ragione del quale «Può tuttavia, a tal riguardo, essere enunciata, alla luce di quanto si è finora esposto, una affidabile relazione causale di tipo probabilistico accolta in via maggioritaria dalla comunità scientifica, che rende possibile giungere, nel caso concreto, ad un giudizio di certezza, espresso in termini di probabilità logica o credibilità razionale».

V’è da dire che la conoscibilità della pericolosità dell’amianto e di altre sostanze e polveri per la salute secondo notorie nozioni di scienza e consolidata giurisprudenza risale, quantomeno, agli anni 1940-1950, ma la reazione della comunità scientifica e la risposta legislativa di tutela dei lavoratori non sono state altrettanto precoci. In particolare, quanto alla durata e modalità dell’esposizione ad agente patogeno riferita a possibili “plurime esposizioni” presso più datori di lavoro, la giurisprudenza, con motivazioni in parte sopra richiamate, ha presto superato la nozione di “dose grilletto”, come dimostrato da più decisioni della Suprema Corte di Cassazione.

Tra queste si riporta la sentenza della Cassazione penale Sez. III 17.3.2009 n. 11570, di interesse in quanto ha confermato la responsabilità datoriale e del dirigente per il perdurare delle esposizioni nocive, che aveva prolungato ed aggravato in modo significativo il rischio malattia con conseguente incidenza causale nella determinazione dell’evento morte[15]. È il tema del concorso in aggravamento del rischio del tutto ignorato dalla teoria riportata e superata[16].

Chiarissima, tuttavia, proprio sul superamento della nozione di “dose grilletto” anche in tema di adenocarcinoma, è la sentenza della Cassazione Penale, Sez. 4, 21 agosto 2013, n. 35309 per la quale «Non è controverso che le vittime per lungo tempo furono poste ad indiscriminato contatto con le polveri di amianto. Né l’eventuale rispetto delle previsioni antinfortunistiche (comunque non riscontrato) avrebbe potuto esonerare l’imputato dal mettere in atto tutte le cautele del caso che la pericolosità del materiale trattato imponeva (sul punto possono richiamarsi le sentenze n. 5117/2008 e n. 33311/2012 questa Sezione). Né assume rilievo insistere sui profili quantitativi delle polveri disperse nell’aria, stante che le affezioni neoplastiche che portarono a morte le vittime debbono reputarsi dipendenti dall’inalazione di fibre d’amianto, non potendosi affermare l’esistenza di una soglia quantitativa al di sotto della quale il rischio venga escluso. Al contrario di quel che pare ritenere il ricorrente non assume rilievo decisivo l’individuazione dell’esatto momento d’insorgenza della patologia (Sez. 4, 11/4/2008, n. 22165; Sez. 4, 24/5/2012, n. 33311), dovendosi reputare prevedibile che la condotta doverosa avrebbe potuto incidere positivamente anche solo sul suo assai lungo tempo di latenza»[17].

 

6. Fondamento della decisione

Benché la Suprema Corte abbia più volte affermato che sussiste un rapporto esponenziale tra dose di cancerogeno assorbita, determinata dalla concentrazione – assai dibattuta anche nel processo conclusosi con la sentenza in argomento – e dalla durata dell’esposizione, e risposta tumorale[18], tuttavia, nella sentenza in esame, il Supremo Collegio, pur prendendo atto delle valutazioni del giudice di prime cure in relazione alla ricorrenza dell’effetto acceleratore, precisa che la riconfermata pronuncia sia, invero, fondata diversamente, sempre «in armonia con l’insegnamento di questa Corte»[19].

In effetti, il fulcro della decisione che avvalora il percorso logico seguito dal giudice di primo grado nel ricostruire l’«equazione fra presenza di asbesto ed insorgere del mesotelioma»[20]è costituito da tre elementi senz’altro oggettivi e con forti profili di attualità.

I primi due sono «l’ubiquitarietà delle polveri nei reparti produttivi dell’impresa, ed in particolare nel reparto di appartenenza della persona offesa», nonché l’«accertata unicità del rapporto lavorativo e la prestazione dell’attività per tutta la sua durata nello stabilimento della società, della quale, per l’intero periodo furono legali rappresentanti i due proprietari»[21], di per sé bastevoli a confermare la penale responsabilità degli appellanti.

Si precisa che, ai fini del riconoscimento della responsabilità degli imputati è necessaria l’integrale o quasi integrale sovrapposizione temporale tra la durata dell’attività lavorativa della singola vittima e la durata della posizione di garanzia rivestita dall’imputato nei confronti della stessa, aspetto che, nel ricorrere in modo pacifico in capo alla stessa persona per tutta la durata del rapporto lavorativo, esautora ogni questione sulla mancanza di presupposto della responsabilità penale, com’è, invece, accaduto in altri casi ove tale posizione non poteva considerarsi integrata per la breve durata degli incarichi di rappresentanza.

Il terzo elemento, assorbente quanto essenziale e centrale nella disamina, è costituito dall’«assenza di qualsivoglia elemento causale alternativo di innesco della patologia»[22] – il mesotelioma pleurico che ha portato alla morte la lavoratrice – condizione senz’altro sì coperta da una legge scientifica di portata universale, e tale perché «verificata in relazione alla singola vicenda»[23], quindi alla ricorrenza fattuale e non probabilistica.

 

[1] Nello specifico, dal 1981, data di inizio dell’esposizione della lavoratrice, pag. 3 della sentenza in argomento.

[2] Cassazione penale, Sez. IV, Sent. 28 ottobre 2019 (U. 8 ottobre 2019), n. 43665.

[3] Secondo la Pretura di Torino, 02/06/1998 (in  Riv. Critica Dir. Lav., 1998, 1066), infatti, «Rispondono del reato di omicidio colposo i dirigenti tecnici, amministrativi e del servizio sanitario aziendale che, omettendo di adottare i necessari provvedimenti tecnici, organizzativi, procedurali e igienici in presenza di attività che espongono i lavoratori a rischi specifici derivanti da esposizione ad amianto, cagionano la morte dei lavoratori stessi».

[4] Cass., Sez. L, 26.1.1993 n. 937

[5] Cass., Sez. L, 17.12.1994 n. 10830

[6] Pag. 15 della sentenza in argomento.

[7] Concetto ripreso nella sentenza “Eternit” e nella sentenza della Sez. IV, n.43786 del 17 settembre 2010 ud. – dep. 13 dicembre 2010 imp. Cozzini e altri – rv. 248944

[8] Cassazione penale, Sez. IV, Sent. 28 ottobre 2019 (U. 8 ottobre 2019), n. 43665.

[9] Sez. IV – sentenza n. 38991 del 10 giugno 2010 ud. – dep. 4 novembre 2010 – imp. Quaglierini e altri – rv. 248853.

[10] Ibidem.

[11] Il più importante fattore di rischio per il mesotelioma è rappresentato dall’esposizione all’amianto. Altri fattori di rischio per il mesotelioma sono: un virus della scimmia, SV40, utilizzato nelle vaccinazioni antipolio tra il 1955 e il 1963; una sostanza radioattiva, il diossido di torio, utilizzata tra gli anni ‘20 e gli anni ‘50; le radiazioni a torace e addome; casi di mesotelioma in famiglia.

[12] Cassazione Penale, Sez. 4, 27 agosto 2012, n. 33311, sull’esposizione all’amianto e relativa responsabilità dei dirigenti aziendali anche nel caso di morte in tarda età.

[13] Cassazione Penale, Sez. 4, 21 agosto 2013, n. 35309.

[14] Allo stesso modo, non ha trovato copertura scientifica, la recente tesi secondo la quale le esposizioni successive avrebbero rilievo, oltre che per tutte le ragioni sopra esposte, per il fenomeno della clearance, cioè dell’eliminazione delle fibre e/o della riparazione del danno cellulare da loro provocato: il che costituisce ulteriore riscontro della maggiore credibilità scientifica della tesi della rilevanza delle esposizioni successive propugnata dai consulenti del pubblico ministero e delle parti civili.

[15] Nello stesso senso la sentenza del Tribunale di Torino 13.2.2012 sul caso “Eternit”.

[16] Sempre nello stesso senso, si era già espressa Cass. Sez. IV – sentenza n. 39393 del 12 luglio 2005 ud. – dep. 27 ottobre 2005 imp. Chivilò e altri, secondo la quale «va in sostanza ribadito che aumentando le assunzioni di dosi cancerogene aumenta l’incidenza dei tumori e si abbrevia la durata del periodo di latenza con accelerazione nella produzione dell’evento morte. Sussiste il nesso causale allorché la condotta considerata abbia avuto durata apprezzabile».

[17] Si precisa, ulteriormente, che «Attingendo opportunamente alla scienza di settore (dalla quale è da attendere approfondimento conoscitivo, che tenga conto delle migliori conoscenze scientifiche del momento - Sez. 4, 1779/2010, n. 43786 -) è stata sconfessata, come, peraltro, in casi similari già giudicati da questa Corte (la già citata sent. n. 33311/2012), l’attendibilità della teoria della cd. "trigger dose", assumendosi, invece, che il Adenocarcinoma polmonare è patologia dose-dipendente (al (Omissis), non fumatore, e al (Omissis) era stata in precedenza diagnosticata l’asbestosi, che, come noto, presuppone l’inalazione continuata di massicci quantitativi di fibre d’amianto)».

[18] Nel senso che l’aumento la dose di cancerogeno, non solo è maggiore l’incidenza dei tumori che derivano dall’esposizione, ma minore è la durata della latenza, il che significa aumento degli anni di vita perduti o, per converso, anticipazione della morte, Cass. Sez. IV – sentenza n. 988 dell’11 luglio 2002 ud.– dep. 14 gennaio 2003 – imp. Macola e altro – rv. 227000; Cass. Sez. III – sentenza n. 11570 del 21 gennaio 2009 ud. – dep. 17 marzo 2009 – imp. Chivilò.

[19] Pag. 16 della sentenza in argomento.

[20] Ibidem.

[21] Ibidem.

[22]Ibidem.

[23] Ibidem.