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Il principio di conservazione nell’ordinamento giuridico: dalla conversione del contratto al diritto tributario

Premessa

Il principio di conservazione è stato definito come “uno dei cardini sui quali poggia l’ordinamento giuridico in materia civile”[1].

La più evidente manifestazione del principio, sulla quale è concentrata la prima parte dell’analisi è la conversione del contratto nullo. Tuttavia, non si può trascurare di osservare come nella medesima ottica si inquadrino, a titolo esemplificativo, le regole della conversione del testamento segreto in testamento olografo (art. 607 c.c.), della conversione dell’atto pubblico (art. 2701 c.c.), della conservazione del contratto (art. 1367 c.c.).

A quest’ultimo proposito, è stato affermato che “la legge tende, fin che è possibile, ad attribuire effetti ad una dichiarazione di volontà, esprime il proprio favore per la conclusione degli affari, anziché per la loro mancata conclusione, per la circolazione della ricchezza, anziché per la sua immobilità”[2].

Il principio di conservazione, tuttavia, non trova applicazione solo agli istituti del diritto civile, in quanto si presenta come “canone ermeneutico che, enunciato legislativamente per la materia contrattuale nell’art. 1367 c.c., ispira tutto il nostro ordinamento giuridico”[3].

Questo contributo vorrebbe dimostrare come, attraverso il principio di conservazione, “connaturato a qualunque ordinamento”[4], il meccanismo della conversione possa operare anche in quelle branche del diritto ove non trova una regolamentazione espressa e, in particolare, nel diritto tributario.

La conversione del contratto nullo

Ai sensi dell’art. 1424 c.c., “un contratto nullo può produrre gli effetti di un contratto diverso, del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma, qualora, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto, se avessero conosciuto la nullità”.

Il principio, già presente nel diritto romano[5], recepisce la regola codificata nel § 140 del BGB[6], il quale dispone che “se un negozio giuridico nullo corrisponde ai requisiti di un altro negozio giuridico, ha valore quest’ultimo, se è da supporre che la validità di esso, nel caso di conoscenza della nullità, sarebbe stata voluta”[7].

È stato notato che l’attuale formulazione del § 140 è il frutto del giudizio di inapplicabilità della concezione pandettistica al fenomeno della conversione, giudizio operato dalla giurisprudenza tedesca della seconda metà dell’Ottocento e dalla dottrina che influì sulla redazione del BGB. Mentre la nozione pandettistica era “basata sull’idea che il negozio nullo possa produrre effetti nella veste di un diverso negozio (sostitutivo), il quale sia dovuto ad una volontà sussidiaria, almeno implicita, delle parti”, la norma del § 140 “non esige più la volontà sussidiaria delle parti, come orientata verso il negozio sostitutivo, ma richiede solo – pur dichiarandolo in modo ermeneutico e contorto – che tale atto sia sostanzialmente conforme agli interessi dei soggetti”[8].

Sebbene il codice civile italiano del 1865 non contemplasse l’istituto della conversione, l’operatività del principio veniva ammessa dalla dottrina in vari casi, il più importante dei quali viene ravvisato nella conversione della compravendita nulla per mancanza di requisiti di forma in contratto preliminare (resa possibile dall’assenza, nel codice abrogato, di una norma corrispondente all’attuale art. 1351 c.c.)[9].

I presupposti di applicabilità dell’art. 1424 c.c.

Secondo un’autorevole opinione, la conversione è una modifica legale del contratto che ne evita la nullità nel rispetto sostanziale dello scopo delle parti[10].

In altri termini: l’atto attraverso il quale si esplica l’autonomia privata, sebbene nullo, può comunque produrre degli effetti giuridici, sia pure diversi, qualora sia accertata la ricorrenza delle condizioni previste dall’art. 1424 c.c.

La nullità del contratto

Presupposto fondamentale per l’operatività della conversione è, come già detto, che sia stato concluso un contratto nullo.

La conversione non opera in caso di contratto incompleto. Secondo la giurisprudenza di legittimità, “una fattispecie negoziale non perfezionata non può frazionarsi in fattispecie perfetta, meno ampia per i soggetti o per l’oggetto, attraverso un procedimento di conversione del negozio incompleto, ignoto al nostro ordinamento”[11].

Il fenomeno che la citata pronuncia chiama “contratto incompleto” non è, in realtà, un contratto; può essere, secondo le circostanze, una proposta contrattuale, un’offerta al pubblico, una trattativa[12].

L’inapplicabilità della regola della conversione a questa fattispecie (che si inserisce, più precisamente, nella categoria dell’inesistenza) si può considerare un esempio del principio, pacifico[13], per il quale l’art. 1424 c.c. non trova operatività nel caso di negozio inesistente[14].

Ad esempio, di nullità del contratto per mancanza dell’accordo dei contraenti è possibile discutere “se entrambe le parti hanno partecipato, con la propria dichiarazione, alla formazione del contratto. Una proposta contrattuale non seguita da alcuna accettazione (come nel caso di una lettera del proponente alla quale il destinatario della proposta non dà risposta) non è un contratto nullo per mancanza di accordo delle parti: è semplicemente, una iniziativa di contratto assunta da un soggetto e non approdata ad alcun risultato. Si deve dire che il contratto non esiste, o si può dire, il che è lo stesso, che si tratta di contratto inesistente[15].

La dottrina è divisa sulla questione dell’applicabilità dell’art. 1424 c.c. al contratto annullabile.

Secondo un primo orientamento, la soluzione positiva andrebbe affermata in considerazione dell’estensione dell’art. 1419 c.c. ai contratti annullabili e ai contratti inefficaci[16]; si evidenzia, inoltre, che, essendo l’art. 1424 c.c. una norma generale, espressione del fondamentale principio della conservazione del contratto, il contratto stesso, una volta annullato, può essere convertito.[17].

Sembra, però, maggiormente convincente la tesi secondo la quale la possibilità di conversione è da escludere alla luce della considerazione delle cause che, in concreto, possono determinare l’annullamento[18].

Infatti, “posto, ad esempio, che tale causa fosse l’incapacità (legale o naturale) del o di uno dei soggetti, la conversione non varrebbe certamente ad escludere tale incapacità, che finirebbe con l’inficiare anche il nuovo negozio. Se poi l’annullamento fosse dovuto ad un vizio della volontà od ad errore ostativo, sarebbe sommamente difficile, se non addirittura assurdo, pretendere di ritenere persistente, o ulteriormente rilevante, un intento sulla cui determinazione o precisazione ha influito proprio quella causa che ha portato all’invalidità del negozio”[19].

Per quanto riguarda il contratto inefficace, pare decisiva nel senso dell’inapplicabilità della conversione l’argomentazione secondo la quale “il contratto inefficace in senso stretto – perché sottoposto a termine o a condizione- è tale proprio perché così hanno voluto le parti. L’elemento accidentale, una volta usato, diventa essenziale: int

Premessa

Il principio di conservazione è stato definito come “uno dei cardini sui quali poggia l’ordinamento giuridico in materia civile”[1].

La più evidente manifestazione del principio, sulla quale è concentrata la prima parte dell’analisi è la conversione del contratto nullo. Tuttavia, non si può trascurare di osservare come nella medesima ottica si inquadrino, a titolo esemplificativo, le regole della conversione del testamento segreto in testamento olografo (art. 607 c.c.), della conversione dell’atto pubblico (art. 2701 c.c.), della conservazione del contratto (art. 1367 c.c.).

A quest’ultimo proposito, è stato affermato che “la legge tende, fin che è possibile, ad attribuire effetti ad una dichiarazione di volontà, esprime il proprio favore per la conclusione degli affari, anziché per la loro mancata conclusione, per la circolazione della ricchezza, anziché per la sua immobilità”[2].

Il principio di conservazione, tuttavia, non trova applicazione solo agli istituti del diritto civile, in quanto si presenta come “canone ermeneutico che, enunciato legislativamente per la materia contrattuale nell’art. 1367 c.c., ispira tutto il nostro ordinamento giuridico”[3].

Questo contributo vorrebbe dimostrare come, attraverso il principio di conservazione, “connaturato a qualunque ordinamento”[4], il meccanismo della conversione possa operare anche in quelle branche del diritto ove non trova una regolamentazione espressa e, in particolare, nel diritto tributario.

La conversione del contratto nullo

Ai sensi dell’art. 1424 c.c., “un contratto nullo può produrre gli effetti di un contratto diverso, del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma, qualora, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto, se avessero conosciuto la nullità”.

Il principio, già presente nel diritto romano[5], recepisce la regola codificata nel § 140 del BGB[6], il quale dispone che “se un negozio giuridico nullo corrisponde ai requisiti di un altro negozio giuridico, ha valore quest’ultimo, se è da supporre che la validità di esso, nel caso di conoscenza della nullità, sarebbe stata voluta”[7].

È stato notato che l’attuale formulazione del § 140 è il frutto del giudizio di inapplicabilità della concezione pandettistica al fenomeno della conversione, giudizio operato dalla giurisprudenza tedesca della seconda metà dell’Ottocento e dalla dottrina che influì sulla redazione del BGB. Mentre la nozione pandettistica era “basata sull’idea che il negozio nullo possa produrre effetti nella veste di un diverso negozio (sostitutivo), il quale sia dovuto ad una volontà sussidiaria, almeno implicita, delle parti”, la norma del § 140 “non esige più la volontà sussidiaria delle parti, come orientata verso il negozio sostitutivo, ma richiede solo – pur dichiarandolo in modo ermeneutico e contorto – che tale atto sia sostanzialmente conforme agli interessi dei soggetti”[8].

Sebbene il codice civile italiano del 1865 non contemplasse l’istituto della conversione, l’operatività del principio veniva ammessa dalla dottrina in vari casi, il più importante dei quali viene ravvisato nella conversione della compravendita nulla per mancanza di requisiti di forma in contratto preliminare (resa possibile dall’assenza, nel codice abrogato, di una norma corrispondente all’attuale art. 1351 c.c.)[9].

I presupposti di applicabilità dell’art. 1424 c.c.

Secondo un’autorevole opinione, la conversione è una modifica legale del contratto che ne evita la nullità nel rispetto sostanziale dello scopo delle parti[10]. >Premessa

Il principio di conservazione è stato definito come “uno dei cardini sui quali poggia l’ordinamento giuridico in materia civile”[1].

La più evidente manifestazione del principio, sulla quale è concentrata la prima parte dell’analisi è la conversione del contratto nullo. Tuttavia, non si può trascurare di osservare come nella medesima ottica si inquadrino, a titolo esemplificativo, le regole della conversione del testamento segreto in testamento olografo (art. 607 c.c.), della conversione dell’atto pubblico (art. 2701 c.c.), della conservazione del contratto (art. 1367 c.c.).

A quest’ultimo proposito, è stato affermato che “la legge tende, fin che è possibile, ad attribuire effetti ad una dichiarazione di volontà, esprime il proprio favore per la conclusione degli affari, anziché per la loro mancata conclusione, per la circolazione della ricchezza, anziché per la sua immobilità”[2].

Il principio di conservazione, tuttavia, non trova applicazione solo agli istituti del diritto civile, in quanto si presenta come “canone ermeneutico che, enunciato legislativamente per la materia contrattuale nell’art. 1367 c.c., ispira tutto il nostro ordinamento giuridico”[3].

Questo contributo vorrebbe dimostrare come, attraverso il principio di conservazione, “connaturato a qualunque ordinamento”[4], il meccanismo della conversione possa operare anche in quelle branche del diritto ove non trova una regolamentazione espressa e, in particolare, nel diritto tributario.

La conversione del contratto nullo

Ai sensi dell’art. 1424 c.c., “un contratto nullo può produrre gli effetti di un contratto diverso, del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma, qualora, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto, se avessero conosciuto la nullità”.

Il principio, già presente nel diritto romano[5], recepisce la regola codificata nel § 140 del BGB[6], il quale dispone che “se un negozio giuridico nullo corrisponde ai requisiti di un altro negozio giuridico, ha valore quest’ultimo, se è da supporre che la validità di esso, nel caso di conoscenza della nullità, sarebbe stata voluta”[7].

È stato notato che l’attuale formulazione del § 140 è il frutto del giudizio di inapplicabilità della concezione pandettistica al fenomeno della conversione, giudizio operato dalla giurisprudenza tedesca della seconda metà dell’Ottocento e dalla dottrina che influì sulla redazione del BGB. Mentre la nozione pandettistica era “basata sull’idea che il negozio nullo possa produrre effetti nella veste di un diverso negozio (sostitutivo), il quale sia dovuto ad una volontà sussidiaria, almeno implicita, delle parti”, la norma del § 140 “non esige più la volontà sussidiaria delle parti, come orientata verso il negozio sostitutivo, ma richiede solo – pur dichiarandolo in modo ermeneutico e contorto – che tale atto sia sostanzialmente conforme agli interessi dei soggetti”[8].

Sebbene il codice civile italiano del 1865 non contemplasse l’istituto della conversione, l’operatività del principio veniva ammessa dalla dottrina in vari casi, il più importante dei quali viene ravvisato nella conversione della compravendita nulla per mancanza di requisiti di forma in contratto preliminare (resa possibile dall’assenza, nel codice abrogato, di una norma corrispondente all’attuale art. 1351 c.c.)[9].

I presupposti di applicabilità dell’art. 1424 c.c.

Secondo un’autorevole opinione, la conversione è una modifica legale del contratto che ne evita la nullità nel rispetto sostanziale dello scopo delle parti[10].

In altri termini: l’atto attraverso il quale si esplica l’autonomia privata, sebbene nullo, può comunque produrre degli effetti giuridici, sia pure diversi, qualora sia accertata la ricorrenza delle condizioni previste dall’art. 1424 c.c.

La nullità del contratto

Presupposto fondamentale per l’operatività della conversione è, come già detto, che sia stato concluso un contratto nullo.

La conversione non opera in caso di contratto incompleto. Secondo la giurisprudenza di legittimità, “una fattispecie negoziale non perfezionata non può frazionarsi in fattispecie perfetta, meno ampia per i soggetti o per l’oggetto, attraverso un procedimento di conversione del negozio incompleto, ignoto al nostro ordinamento”[11].

Il fenomeno che la citata pronuncia chiama “contratto incompleto” non è, in realtà, un contratto; può essere, secondo le circostanze, una proposta contrattuale, un’offerta al pubblico, una trattativa[12].

L’inapplicabilità della regola della conversione a questa fattispecie (che si inserisce, più precisamente, nella categoria dell’inesistenza) si può considerare un esempio del principio, pacifico[13], per il quale l’art. 1424 c.c. non trova operatività nel caso di negozio inesistente[14].

Ad esempio, di nullità del contratto per mancanza dell’accordo dei contraenti è possibile discutere “se entrambe le parti hanno partecipato, con la propria dichiarazione, alla formazione del contratto. Una proposta contrattuale non seguita da alcuna accettazione (come nel caso di una lettera del proponente alla quale il destinatario della proposta non dà risposta) non è un contratto nullo per mancanza di accordo delle parti: è semplicemente, una iniziativa di contratto assunta da un soggetto e non approdata ad alcun risultato. Si deve dire che il contratto non esiste, o si può dire, il che è lo stesso, che si tratta di contratto inesistente[15].

La dottrina è divisa sulla questione dell’applicabilità dell’art. 1424 c.c. al contratto annullabile.

Secondo un primo orientamento, la soluzione positiva andrebbe affermata in considerazione dell’estensione dell’art. 1419 c.c. ai contratti annullabili e ai contratti inefficaci[16]; si evidenzia, inoltre, che, essendo l’art. 1424 c.c. una norma generale, espressione del fondamentale principio della conservazione del contratto, il contratto stesso, una volta annullato, può essere convertito.[17].

Sembra, però, maggiormente convincente la tesi secondo la quale la possibilità di conversione è da escludere alla luce della considerazione delle cause che, in concreto, possono determinare l’annullamento[18].

Infatti, “posto, ad esempio, che tale causa fosse l’incapacità (legale o naturale) del o di uno dei soggetti, la conversione non varrebbe certamente ad escludere tale incapacità, che finirebbe con l’inficiare anche il nuovo negozio. Se poi l’annullamento fosse dovuto ad un vizio della volontà od ad errore ostativo, sarebbe sommamente difficile, se non addirittura assurdo, pretendere di ritenere persistente, o ulteriormente rilevante, un intento sulla cui determinazione o precisazione ha influito proprio quella causa che ha portato all’invalidità del negozio”[19].

Per quanto riguarda il contratto inefficace, pare decisiva nel senso dell’inapplicabilità della conversione l’argomentazione secondo la quale “il contratto inefficace in senso stretto – perché sottoposto a termine o a condizione- è tale proprio perché così hanno voluto le parti. L’elemento accidentale, una volta usato, diventa essenziale: int