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Il rischio di contagio da Covid-19 per i detenuti e la sua valutazione nella giurisprudenza di legittimità

nota a Cass. pen., sez. VI, sentenza n. 27197/2020
Piazza maggiore, Bologna
Ph. Anna Romualdi / Piazza maggiore, Bologna

Abstract

L’autore commenta criticamente una recente sentenza della Corte di cassazione che ha negato gli arresti domiciliari a un detenuto affetto da una grave patologia che, in caso di contagio da Covid-19, aumenta i rischi per la sua salute.

The author critically comments on a recent ruling by the Court of cassation which denied house arrest to a prisoner suffering from a serious disease which, in the event of contagion from Covid-19, increases the risks to his health.

 

Indice:

1. I motivi del ricorso per cassazione

2. La decisione della Corte di cassazione

3. Il commento

3.1 Il Covid-19 (più propriamente SARS-CoV-2), la sua classificazione e gli obblighi posti a carico dei datori di lavoro

3.2 La prevenzione del rischio di contagi in ambito carcerario

3.3 La deduzione e la prova della situazione di rischio

4. La dinamica dei contagi in ambito carcerario

5. Considerazioni conclusive

 

Summary

1. The reasons for the appeal in cassation

2. The decision of the Court of Cassation

3. The comment

3.1 Covid-19 (more properly SARS-CoV-2), its classification and the obligations imposed on employers

3.2 Prevention of the risk of contagion in prisons

3.3 The deduction and proof of the risk situation

4. The dynamics of infections in the prison environment

5. Concluding remarks

 

1. I motivi del ricorso per cassazione

Il ricorrente, imputato di vari reati tra i quali anche l’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, era stato sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere.

Chiesta ma non ottenuta la sostituzione di quella misura con gli arresti domiciliari, aveva fatto appello al Tribunale del Riesame che lo aveva respinto.

La difesa dell’interessato ha presentato quindi ricorso per cassazione, asserendo l’esistenza dei vizi di violazione di legge (in direzione degli articoli 275 e 299 Codice procedura penale) e di motivazione.

Nell’opinione della difesa, il Tribunale aveva sottovalutato che l’interessato era affetto da una grave forma di pancreatite la quale, a giudizio della direzione sanitaria del penitenziario in cui era ristretto, era un concreto fattore di aumento del rischio, finanche di morte, in caso di infezione da Covid-19. 

 

2. La decisione della Corte di cassazione

La Corte ha premesso che il requisito della specificità dei motivi pone a carico di chi ricorre l’onere di indicare in modo preciso e dettagliato gli elementi fattuali e giuridici posti alla base delle critiche rivolte al provvedimento impugnato e al giudizio ricostruttivo e valutativo di cui questo è frutto.

Ha poi richiamato e condiviso passaggi argomentativi dell’ordinanza impugnata in cui si faceva riferimento a due relazioni della direzione carceraria risalenti a febbraio e aprile del 2020 in cui era attestata l’assenza di particolari criticità sanitarie e al rifiuto del detenuto di sottoporsi ad alcuni esami diagnostici e si riteneva inconferente l’impossibilità per costui di fruire di un adeguato regime alimentare.

Ha affermato, pur riconoscendo che la pancreatite aumenta il rischio di morte in caso di infezioni da Covid-19, che il giudizio di incompatibilità tra condizioni di salute e detenzione carceraria non può derivare da condizioni ipotetiche, tanto più considerando che la difesa non aveva dedotto l’esistenza di infezioni nella casa circondariale di Frosinone ove era ristretto il ricorrente né le stesse risultavano dalle relazioni sanitarie citate.

Ha ugualmente riconosciuto che la detenzione carceraria è di per se stessa un fattore di aumento rischio poiché “i detenuti vivono in ambienti nei quali è tendenzialmente più difficile il mantenimento delle distanze di sicurezza ed in cui sono ben possibili fenomeni di assembramento o di sovraffollamento”, ma ha ritenuto questa constatazione non decisiva posto che “la norma codicistica, così come richiamata nella istanza difensiva ed applicata dai giudici di merito, prevede una situazione di concreta ed effettiva, non anche di ipotetica o potenziale, incompatibilità tra le condizioni di salute del recluso e il suo stato di detenzione, se del caso valutate come tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere”.

L’esito, inevitabile date queste argomentazioni, è stato di inammissibilità.

 

3. Il commento

Come si è visto, il giudice di legittimità riconosce l’esistenza di un doppio rischio: che nell’ambiente carcerario sia più facile per tutti i detenuti rimanere contagiati; che, in caso di contagio, il ricorrente subisca conseguenze più gravi degli altri detenuti che non hanno la sua patologia.

Non ne trae però la conseguenza richiesta dalla difesa sul presupposto che il rischio, singolo o doppio che sia, equivale a una situazione ipotetica o potenziale mentre il cambio di regime cautelare richiede situazioni concrete ed effettive.

La Corte di cassazione esprime dunque un certo modo di intendere la protezione accordabile alla vita e alla salute dei detenuti e un certo equilibrio tra questa e la soddisfazione delle esigenze cautelari elencate dall’articolo 274 codice procedura penale.

Si vuole adesso verificare se l’indirizzo espresso dal giudice di legittimità abbia tenuto conto correttamente di tutti gli elementi in rilievo, iniziando per una volta da quelli esterni al procedimento penale.

 

3.1. Il Covid-19 (più propriamente SARS-CoV-2), la sua classificazione e gli obblighi posti a carico dei datori di lavoro

Così si legge nel sito web istituzionale del Ministero della Salute[1]: “La sindrome respiratoria acuta grave Coronavirus-2 (SARS-CoV-2) è il nome dato al nuovo coronavirus del 2019. COVID-19 è il nome dato alla malattia associata al virus. SARS-CoV-2 è un nuovo ceppo di coronavirus che non è stato precedentemente identificato nell'uomo”.

La natura virale della SARS-CoV-2 impone di classificarla come agente biologico, nell’accezione dell’articolo 267 del decreto legislativo 81/2008 (TUSSL, ovvero Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro), secondo il quale è tale “qualsiasi microrganismo, anche se geneticamente modificato, coltura cellulare ed endoparassita umano che potrebbe provocare infezioni, allergie o intossicazioni”.

L’articolo 268 TUSSL classifica gli agenti biologici in quattro gruppi, organizzati in ordine crescente di gravità delle malattie che possono provocare agli esseri umani[2].

L’articolo 4 del d.l. 7 ottobre 2020 n. 125, convertito nella l. 159/2020, recependo la Direttiva (UE) 2020/739 del 3 giugno 2020, ha inserito la SARS-CoV-2 nell’allegato XLVI del TUSSL e l’ha compresa nel gruppo 3, alla stregua di un agente biologico che “può causare malattie gravi in soggetti umani e costituisce un serio rischio per i lavoratori; l’agente biologico può propagarsi nella comunità, ma di norma sono disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche”.

Come precisato dall’INAIL[3], il rischio biologico riguarda sia le attività che comportano un uso deliberato di agenti biologici sia quelle che comportano un’esposizione potenziale a tali agenti.

Peraltro, l’INAIL assegna alle patologie causate da agenti biologici la natura di malattie-infortunio, “sulla base dell’assimilazione del concetto di causa virulenta a quello di causa violenta”.

Il datore di lavoro che intenda esercitare attività esposte a rischio biologico è tenuto ad obblighi informativi verso l’organo di vigilanza territorialmente competente (articolo 269 TUSSL), a valutare il rischio (articolo 271) e ad adottare tutte le misure tecniche, organizzative, procedurali (articolo 272) e igieniche (articolo 273) necessarie per evitare ogni esposizione dei lavoratori agli agenti biologici[4].

È utile ricordare che, come chiarito dal suo articolo 3 comma 1, il TUSSL “si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio”.

Il successivo comma 2 menziona espressamente le strutture penitenziarie includendole tra quelle assoggettate alle prescrizioni del TUSSL ma per le quali occorre tener conto “delle effettive particolari esigenze connesse al servizio espletato o alle peculiarità organizzative ivi comprese quelle per la tutela della salute e sicurezza del personale nel corso di operazioni ed attività condotte dalle Forze armate, compresa l’Arma dei Carabinieri, nonché dalle altre Forze di polizia e dal Corpo dei Vigili del fuoco”.

Che queste particolari esigenze non possano annullare o comprimere le norme poste a tutela dei lavoratori e che tali norme si estendono pacificamente anche ai lavoratori detenuti, lo ha ricordato anni fa la stessa Corte di cassazione penale (sez. IV, sentenza n. 6694/2010, emessa in un caso di infortunio sul lavoro subito da un detenuto apprendista), affermando quanto segue: “le particolari esigenze connesse al servizio espletato riguardano evidentemente problemi di organizzazione e di sicurezza interna alle strutture che certamente non possono portare alla sostanziale abrogazione di precise norme di legge ed all'azzeramento, o anche solo alla compressione, delle garanzie riconosciute dalla legge a tutti i lavoratori, senza differenze di sorta, e con riguardo a tutti i luoghi di lavoro, nessuno escluso […] il richiamo, contenuto nella sentenza impugnata, all'esigenza di ‘declinare’ gli obblighi discendenti dalla citata normativa ‘secondo i limiti e le caratteristiche proprie delle strutture carcerarie, profondamente diverse da quelle riferibili ad un'impresa o all'imprenditore’ costituisce osservazione del tutto apodittica e, nella sua totale genericità, pericolosa, oltre che inaccettabile, poiché finisce con l'attribuire al dirigente carcerario del momento il potere di individuare, di volta in volta, quali obblighi prevenzionali debbano essere rispettati e quali no, se non, addirittura, nei confronti di chi tra i lavoratori essi debbano essere osservati […] solo un'errata interpretazione della normativa di riferimento ha impedito al giudice del gravame di escludere l'esigibilità del rispetto degli obblighi specifici ai quali era tenuto quale datore di lavoro dell'operaio infortunato. Obblighi che, come aveva correttamente osservato il primo giudice, gli imponevano, prima di avviare al lavoro un semplice apprendista, che non aveva nessuna pregressa esperienza lavorativa e nessuna competenza nel settore, di assicurargli una specifica formazione professionale e di fornirgli precise informazioni circa le regole minime di sicurezza da osservare, specie nella manipolazione di preparati pericolosi per la salute, di renderlo consapevole della necessità di utilizzare i dispositivi individuali di protezione”.

Va ancora evidenziato che misure specifiche di protezione dei lavoratori dal rischio di essere contagiati dal coronavirus sono state adottate dal Governo fin dal 14 marzo 2020 attraverso l’adozione di un protocollo, firmato da sindacati e imprese, per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori dal possibile contagio da nuovo coronavirus e garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro[5].

Il documento prevede svariate misure che riguardano l’informazione, l’accesso ai luoghi di lavoro, l’igiene in azienda, gli spazi comuni e gli spostamenti.

Particolare attenzione è riposta nel monitoraggio periodico di segnali di eventuale contagio, nella pulizia giornaliera e sanificazione periodica di locali, ambienti postazioni di lavoro e aree comuni e di svago, nell’uso di presidi igienici personali, nel contingentamento dell’accesso agli spazi comuni, nel rispetto del distanziamento di sicurezza, nell’eliminazione di ogni occasione di assembramento.

Misure di analoga ampiezza sono state adottate riguardo al lavoro agile (o smart working)[6] , da intendersi come “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall'assenza di vincoli orari o spaziali e un'organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività”.

Basta qui ricordare che tra le categorie alle quali è attribuito il diritto al lavoro agile sono inseriti “i lavoratori maggiormente esposti a rischio di contagio da virus SARS-CoV-2, in ragione dell'età o della condizione di rischio derivante da immunodepressione, da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o, comunque, da comorbilità che possono caratterizzare una situazione di maggiore rischiosità accertata dal medico competente, nell'ambito della sorveglianza sanitaria”.

A conclusione di questa sintetica rassegna, si può affermare che la tutela preventiva assicurata dal nostro ordinamento ai lavoratori (compresi i detenuti ammessi al lavoro) in relazione al rischio di contagio da SARS-CoV-2 è assai più efficace di quella che i giudici di legittimità hanno ritenuto accordabile a un detenuto “semplice” ancorché affetto da una grave patologia che lo espone più di altri al medesimo contagio.

Di più: le condizioni concrete dell’ambiente carcerario in cui questo semplice detenuto è ristretto sono tali da non potere assicurare, come ha riconosciuto lo stesso collegio decidente, una tra le più importanti regole preventive, cioè il distanziamento.

Sembrerebbe dunque di poter dire che, mentre nella composizione dei contrastanti interessi delle imprese e dei lavoratori in epoca Covid-19 si sia raggiunto un equilibrio all’insegna del minimo rischio per questi ultimi, nell’analoga situazione che vede contrapposto un detenuto e gli altri consociati l’esigenza di tutela di costoro lascia intatto il rischio morte a carico del detenuto.

 

3.2 La prevenzione del rischio di contagi in ambito carcerario

L’articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 230/1999 intitolato “Riordino della medicina penitenziaria” assicura ai detenuti e agli internati il diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, all’erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali e in quelli locali.

L’articolo 1, comma 2, obbliga a sua volta il servizio sanitario nazionale ad assicurare a detenuti ed internati livelli di prestazioni analoghi a quelli garantiti ai cittadini liberi e azioni di protezione, di informazione e di educazione ai fini dello sviluppo della responsabilità individuale e collettiva in materia di salute.

Queste disposizioni sono rilanciate nell’ultimo periodo dell’articolo 11, comma 7, Ordinamento penitenziario, laddove si afferma che: “Durante la permanenza nell'istituto, l'assistenza sanitaria è prestata con periodici riscontri, effettuati con cadenza allineata ai bisogni di salute del detenuto, e si uniforma ai princìpi di metodo proattivo, di globalità dell'intervento sulle cause di pregiudizio della salute, di unitarietà dei servizi e delle prestazioni, d'integrazione dell'assistenza sociale e sanitaria e di garanzia della continuità terapeutica”.

In sintesi: i detenuti e gli internati hanno non già una mera aspettativa ma un vero e proprio diritto a godere di prestazioni prevenzionistiche tra le quali non si dovrebbe far fatica a comprendere anche la prevenzione dal rischio di contrarre il contagio da SARS-CoV-2 e dall’ulteriore rischio di morte a cause di patologie preesistenti. La prevenzione non avviene dunque a richiesta, non è una semplice facoltà da soddisfare graziosamente ma deve essere assicurata per impulso del servizio sanitario carcerario in modo appunto proattivo[7].

In altri termini: il rischio di contagio genera il diritto del detenuto ad essere protetto adeguatamente e non può essere assimilato a una situazione ipotetica o potenziale.

 

3.3 La deduzione e la prova della situazione di rischio

Tra i vari argomenti usati nella sentenza commentata a sostegno della decisione di inammissibilità, è compreso il rilievo alla difesa di non avere dedotto e men che meno provato l’esistenza di contagi nel carcere in cui era ristretto il ricorrente.

Discende da questa osservazione l’interesse a comprendere in che modo la morbilità potenziale e reale presente in un istituto carcerario e la gestione del rischio sanitario debbano essere rappresentati all’autorità giudiziaria ogni qual volta le servano questi dati per provvedimenti di sua competenza.

Le prescrizioni normative ricordate nel paragrafo precedente sono già illuminanti ma qualche utile riferimento può essere ricavato anche dalla stessa giurisprudenza di legittimità, soprattutto in decisioni che si sono soffermate sulla portata del citato articolo 11 dell’Ordinamento penitenziario.

Si legge, ad esempio, in Cass. pen., sez. IV, 58363/2018 che “L'articolo 11, nella seconda parte del comma 5, dispone che l'assistenza sanitaria sia prestata, nel corso della permanenza nell'istituto «con periodici e frequenti riscontri, indipendentemente dalle richieste degli interessati», con ciò ponendo un obbligo di controllo delle condizioni sanitarie generali dei detenuti, che deve essere periodico e frequente, specie in presenza di situazioni soggettive meritevoli di particolare attenzione, in considerazione di peculiari condizioni psico-fisiche derivanti anche da una pregressa storia clinica che caratterizzi il detenuto come soggetto potenzialmente "a rischio" sanitario. Più in generale, va ricordato che la possibilità per il detenuto di fruire di cure mediche appropriate anche nella condizione di restrizione carceraria, oltre a porsi in linea con la normativa di principio, costituisce il presupposto fondante la linea di demarcazione tra la compatibilità e l'incompatibilità delle condizioni psico-fisiche della persona con il regime carcerario; tale rilievo, desumibile dal sistema di norme costituito dagli articoli 299, comma 4-ter, c. p. p., 147 n. 2 Codice penale e 47-ter, comma 1-ter, impone un'interpretazione del testo normativo conforme all'obiettivo di associare la privazione della libertà personale al costante controllo delle condizioni di salute della persona”.

Cass. pen., Sez. I, 26325/2019 aggiunge che “Il giudice deve tener conto, indipendentemente dalla compatibilità o meno dell'infermità con le possibilità di assistenza e cura offerte al condannato dal sistema carcerario, anche dell'esigenza di non ledere il fondamentale diritto alla salute e il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, previsti dagli articoli 32 e 27 Cost.: occorre, cioè, verificare concretamente se le patologie, pur curabili in istituto e mediante il ricorso all'istituto di cui all'articolo 11, non comportino condizioni di vita che producano sofferenze aggiuntive al detenuto, con una detenzione contraria al senso di umanità e, quindi, priva di finalità rieducativa”.

Sembrerebbe dunque di poter affermare che il monitoraggio costante delle condizioni di salute del detenuto, tanto più se affetto in modo conclamato da gravi patologie, e l’adozione dei più appropriati protocolli di cura e di prevenzione di rischi di complicazioni siano obbligatori di per se stessi, a prescindere cioè dall’impulso dell’interessato.

Specularmente, le informative delle autorità carcerarie all’autorità giudiziaria dovrebbero essere intese all’insegna della medesima completezza e, ove così non fosse, spetterebbe a quest’ultima esigere d’ufficio ogni necessario approfondimento.

 

4. La dinamica dei contagi in ambito carcerario

Si ritiene utile confrontare le osservazioni esposte nei paragrafi precedenti con ciò che sta avvenendo concretamente nelle carceri italiane da quando ha iniziato a manifestarsi la presenza del coronavirus.

Si inizia dalla situazione aggiornata al 7 dicembre 2020[8].

A tale data risultano affetti da SARS-CoV-2 958 detenuti rispetto ad una popolazione carceraria complessiva di 53.294 individui, 810 dipendenti della Polizia penitenziaria su un totale di 37.153 e 72 dipendenti dell’amministrazione penitenziaria su un totale di 4.090.

Sulla specifica situazione del carcere di Frosinone, va segnalato che il Garante dei detenuti per il Lazio lo definisce espressamente come un caso problematico, soprattutto a causa di un cluster di contagi verificatosi di recente[9]. Va ricordato inoltre che il penitenziario di Frosinone fu uno degli epicentri della rivolta dei detenuti di varie carceri italiane nella prima decade di marzo 2020 fatta per protesta contro la sospensione dei colloqui con i familiari come misura di prevenzione contro il rischio di contagi.

I dati appena forniti sono ovviamente di tipo generale e non consentono di fotografare la reale situazione sanitaria nel carcere di Frosinone all’epoca in cui il ricorrente si rivolse alla giustizia chiedendo l’ammissione alla detenzione domiciliare.

Hanno comunque un’utilità ed è quella di dimostrare l’erroneità delle esternazioni pubbliche che hanno propagandato l’idea di carceri impermeabili al virus per la loro natura di luoghi chiusi ed isolati. 

 

5. Considerazioni conclusive

È fin troppo chiaro – e non si intende certo negarlo o minimizzarlo – che la soddisfazione delle esigenze cautelari descritte nell’articolo 274 Codice procedura penale è un dovere del giudice quando ricorrono gli elementi di fatto previsti dal legislatore.

Non si contesta neanche l’esito di inammissibilità, di per se stesso considerato, riservato al ricorso.

Sembra invece deficitario il percorso motivazionale seguito dal collegio di legittimità per determinare quell’esito, a causa dell’omesso confronto con elementi di fatto e di diritto che avrebbero potuto consentire un esito diverso.

Un rischio consistente trattato alla stregua di una mera e insignificante ipotesi, un diritto a misure di protezione di fatto ignorato, un onere di deduzione e dimostrazione addossato per intero alla difesa, in generale la sottovalutazione del bene vita dei detenuti, sono questi gli elementi che, nell’opinione di chi scrive, rendono incompleta e non sistematica la visione manifestata dalla Corte di Cassazione.

E dunque un’occasione persa di fare chiarezza su questioni essenziali e di riammettere al tavolo delle decisioni l’umanità di chi ne subisce gli effetti.

 

[1] La definizione è reperibile a questo link.

[2] agente biologico del gruppo 1: presenta poche probabilità di causare malattie in soggetti umani;

agente biologico del gruppo 2: può causare malattie in soggetti umani e costituire un rischio per i lavoratori; è poco probabile che si propaghi nella comunità; sono di norma disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche;

agente biologico del gruppo 3: può causare malattie gravi in soggetti umani e costituisce un serio rischio per i lavoratori; l’agente biologico può propagarsi nella comunità, ma di norma sono disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche;

agente biologico del gruppo 4: può provocare malattie gravi in soggetti umani e costituisce un serio rischio per i lavoratori e può presentare un elevato rischio.

[3] La nota alla quale si fa riferimento è consultabile a questo link.

[4] Si riporta per comodità di consultazione il testo degli articoli 271/273:

Articolo 271 - Valutazione del rischio

1. Il datore di lavoro, nella valutazione del rischio di cui all’articolo 17, comma 1, tiene conto di tutte le informazioni disponibili relative alle caratteristiche dell’agente biologico e delle modalità lavorative, ed in particolare:

  1. della classificazione degli agenti biologici che presentano o possono presentare un pericolo per la salute umana quale risultante dall’ALLEGATO XLVI o, in assenza, di quella effettuata dal datore di lavoro stesso sulla base delle conoscenze disponibili e seguendo i criteri di cui all’articolo 268, commi 1 e 2;
  2. dell’informazione sulle malattie che possono essere contratte;
  3. dei potenziali effetti allergici e tossici;
  4. della conoscenza di una patologia della quale è affetto un lavoratore, che è da porre in correlazione diretta all’attività lavorativa svolta;
  5. delle eventuali ulteriori situazioni rese note dall’autorità sanitaria competente che possono influire sul rischio;
  6. del sinergismo dei diversi gruppi di agenti biologici utilizzati.

2. Il datore di lavoro applica i principi di buona prassi microbiologica, ed adotta, in relazione ai rischi accertati, le misure protettive e preventive di cui al presente Titolo, adattandole alle particolarità delle situazioni lavorative.

3. Il datore di lavoro effettua nuovamente la valutazione di cui al comma 1 in occasione di modifiche dell’attività lavorativa significative ai fini della sicurezza e della salute sul lavoro e, in ogni caso, trascorsi tre anni dall’ultima valutazione effettuata.

4. Nelle attività, quali quelle riportate a titolo esemplificativo nell’ALLEGATO XLIV, che, pur non comportando la deliberata intenzione di operare con agenti biologici, possono implicare il rischio di esposizioni dei lavoratori agli stessi, il datore di lavoro può prescindere dall’applicazione delle disposizioni di cui agli articoli 273, 274, commi 1 e 2, 275, comma 3, e 279, qualora i risultati della valutazione dimostrano che l’attuazione di tali misure non è necessaria.

5. Il documento di cui all’articolo 17 è integrato dai seguenti dati:

  1. le fasi del procedimento lavorativo che comportano il rischio di esposizione ad agenti biologici;
  2. il numero dei lavoratori addetti alle fasi di cui alla lettera a);
  3. le generalità del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi;
  4. i metodi e le procedure lavorative adottate, nonché le misure preventive e protettive applicate;
  5. il programma di emergenza per la protezione dei lavoratori contro i rischi di esposizione ad un agente biologico del gruppo 3 o del gruppo 4, nel caso di un difetto nel contenimento fisico.

6. Il rappresentante per la sicurezza è consultato prima dell’effettuazione della valutazione di cui al comma 1 ed ha accesso anche ai dati di cui al comma 5.

Articolo 272 - Misure tecniche, organizzative, procedurali

1. In tutte le attività per le quali la valutazione di cui all’articolo 271 evidenzia rischi per la salute dei lavoratori il datore di lavoro attua misure tecniche, organizzative e procedurali, per evitare ogni esposizione degli stessi ad agenti biologici.

2. In particolare, il datore di lavoro:

  1. evita l’utilizzazione di agenti biologici nocivi, se il tipo di attività lavorativa lo consente;
  2. limita al minimo i lavoratori esposti, o potenzialmente esposti, al rischio di agenti biologici;
  3. progetta adeguatamente i processi lavorativi, anche attraverso l’uso di dispositivi di sicurezza atti a proteggere dall’esposizione accidentale ad agenti biologici;
  4. adotta misure collettive di protezione ovvero misure di protezione individuali qualora non sia possibile evitare altrimenti l’esposizione;
  5. adotta misure igieniche per prevenire e ridurre al minimo la propagazione accidentale di un agente biologico fuori dal luogo di lavoro;
  6. usa il segnale di rischio biologico, rappresentato nell’ALLEGATO XLV, e altri segnali di avvertimento appropriati;
  1. elabora idonee procedure per prelevare, manipolare e trattare campioni di origine umana ed animale;
  2. definisce procedure di emergenza per affrontare incidenti;
  3. verifica la presenza di agenti biologici sul luogo di lavoro al di fuori del contenimento fisico primario, se necessario o tecnicamente realizzabile;
  4. predispone i mezzi necessari per la raccolta, l’immagazzinamento e lo smaltimento dei rifiuti in condizioni di sicurezza, mediante l’impiego di contenitori adeguati ed identificabili eventualmente dopo idoneo trattamento dei rifiuti stessi;
  5. concorda procedure per la manipolazione ed il trasporto in condizioni di sicurezza di agenti biologici all’interno e all’esterno del luogo di lavoro.

Articolo 273 - Misure igieniche

1. In tutte le attività nelle quali la valutazione di cui all’articolo 271 evidenzia rischi per la salute dei lavoratori, il datore di lavoro assicura che:

  1. i lavoratori dispongano dei servizi sanitari adeguati provvisti di docce con acqua calda e fredda, nonché, se del caso, di lavaggi oculari e antisettici per la pelle;
  2. i lavoratori abbiano in dotazione indumenti protettivi od altri indumenti idonei, da riporre in posti separati dagli abiti civili;
  3. i dispositivi di protezione individuale ove non siano mono uso, siano controllati, disinfettati e puliti dopo ogni utilizzazione, provvedendo altresì a far riparare o sostituire quelli difettosi prima dell’utilizzazione successiva;
  4. gli indumenti di lavoro e protettivi che possono essere contaminati da agenti biologici vengano tolti quando il lavoratore lascia la zona di lavoro, conservati separatamente dagli altri indumenti, disinfettati, puliti e, se necessario, distrutti.

2. Nelle aree di lavoro in cui c’è rischio di esposizione è vietato assumere cibi e bevande, fumare, conservare cibi destinati al consumo umano, usare pipette a bocca e applicare cosmetici.

[5] Una sintesi del protocollo è consultabile sul sito web istituzionale del Ministero della Salute a questo link.

[6] Si rinvia per una rassegna di tali misure all’apposita scheda informativa pubblicata sul sito web istituzionale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, consultabile a questo link.

[7] Per un interessante commento a questi temi, si rinvia a E. Santoro, “Diritto alla salute e prevenzione in carcere: problemi teorici e pratici di gestione del coronavirus negli istituti di pena”, Legislazione Penale, 4 maggio 2020, consultabile a questo link.

[8] I dati sono tratti dalla sezione “Monitoraggio Covid negli istituti penitenziari” presente nel sito web istituzionale del Ministero della Giustizia e consultabile a questo link.

[9] La notizia è tratta dal sito web del Garante ed è consultabile a questo link.