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Art. 275 - Criteri di scelta delle misure

1. Nel disporre le misure, il giudice tiene conto della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto.
1-bis. Contestualmente ad una sentenza di condanna, l’esame delle esigenze cautelari è condotto tenendo conto anche dell’esito del procedimento, delle modalità del fatto e degli elementi sopravvenuti, dai quali possa emergere che, a seguito della sentenza, risulta taluna delle esigenze indicate nell’articolo 274, comma 1, lettere b) e c).

2. Ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata.

2-bis. Non può essere applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena. Salvo quanto previsto dal comma 3 e ferma restando l’applicabilità degli articoli 276, comma 1-ter, e 280, comma 3, non può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni. Tale disposizione non si applica nei procedimenti per i delitti di cui agli articoli 423-bis, 572, 612-bis, 612-ter e 624-bis del codice penale, nonché all’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, e quando, rilevata l’inadeguatezza di ogni altra misura, gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell’articolo 284, comma 1, del presente codice. 

2-ter. Nei casi di condanna di appello le misure cautelari personali sono sempre disposte, contestualmente alla sentenza, quando, all’esito dell’esame condotto a norma del comma 1-bis, risultano sussistere esigenze cautelari previste dall’articolo 274 e la condanna riguarda uno dei delitti previsti dall’articolo 380, comma 1, e questo risulta commesso da soggetto condannato nei cinque anni precedenti per delitti della stessa indole.

3. La custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate. Quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 270, 270-bis e 416-bis del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari. Salvo quanto previsto dal secondo periodo del presente comma, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del presente codice nonché in ordine ai delitti di cui agli articoli 575, 600-bis, primo comma, 600-ter, escluso il quarto comma, 600-quinquies e, quando non ricorrano le circostanze attenuanti contemplate, 609-bis, 609-quater e 609-octies del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

3-bis. Nel disporre la custodia cautelare in carcere il giudice deve indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all’articolo 275-bis, comma 1.

4. Quando imputati siano donna incinta o madre di prole di età non superiore a sei anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Non può essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputato sia persona che ha superato l’età di settanta anni.

4-bis. Non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere quando l’imputato è persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate ai sensi dell’articolo 286-bis, comma 2, ovvero da altra malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere.

4-ter. Nell’ipotesi di cui al comma 4-bis, se sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza e la custodia cautelare presso idonee strutture sanitarie penitenziarie non è possibile senza pregiudizio per la salute dell’imputato o di quella degli altri detenuti, il giudice dispone la misura degli arresti domiciliari presso un luogo di cura o di assistenza o di accoglienza. Se l’imputato è persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, gli arresti domiciliari possono essere disposti presso le unità operative di malattie infettive ospedaliere ed universitarie o da altre unità operative prevalentemente impegnate secondo i piani regionali nell’assistenza ai casi di AIDS, ovvero presso una residenza collettiva o casa alloggio di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 5 giugno 1990, n. 135.

4-quater. Il giudice può comunque disporre la custodia cautelare in carcere qualora il soggetto risulti imputato o sia stato sottoposto ad altra misura cautelare per uno dei delitti previsti dall’articolo 380, relativamente a fatti commessi dopo l’applicazione delle misure disposte ai sensi dei commi 4-bis e 4-ter. In tal caso il giudice dispone che l’imputato venga condotto in un istituto dotato di reparto attrezzato per la cura e l’assistenza necessarie.

4-quinquies. La custodia cautelare in carcere non può comunque essere disposta o mantenuta quando la malattia si trova in una fase così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative.

Rassegna giurisprudenziale

Criteri di scelta delle misure (art. 275)

È costituzionalmente illegittimo l’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, nella parte in cui  nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari  non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure (Corte costituzionale, sentenza 265/2010).

È costituzionalmente illegittimo l’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 575 del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure (Corte costituzionale, sentenza 164/2011).

È costituzionalmente illegittimo l’art. 275, comma 3, secondo periodo, nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 74 DPR. 309/1990 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure (Corte costituzionale, sentenza 231/2011).

È costituzionalmente illegittimo l’articolo 275, comma 3, secondo periodo, nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416 del codice penale, realizzato allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure (Corte costituzionale, sentenza 110/2012).

È costituzionalmente illegittimo l’articolo 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2, comma 1, del DL 11/2009, convertito con modificazioni, dalla L. 38/2009, nella parte in cui  nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis Cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari  non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure Corte costituzionale, sentenza 57/2013).

È costituzionalmente illegittimo l’articolo 275, comma 3, secondo periodo, come modificato dall’articolo 2, DL 11/2009, convertito con modificazioni, dalla L.38/2009, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’articolo 630 del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure (Corte costituzionale, sentenza 213/2013).

È costituzionalmente illegittimo l’articolo 275, comma 3, terzo periodo, come modificato dall’articolo 2, DL 11/2009, convertito con modificazioni, dalla L. 38/2009, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’articolo 609-octies del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure (Corte costituzionale, sentenza 232/2013).

È costituzionalmente illegittimo l’art. 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, nella parte in cui  nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis Cod. pen., è applicata custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari  non fa salva, altresì, rispetto al concorrente esterno nel suddetto delitto, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure (Corte costituzionale, sentenza 48/2015).

È illegittima, per violazione del principio di proporzione, l'applicazione al pubblico ufficiale, autore di un delitto contro la pubblica amministrazione, di una misura coercitiva, laddove essa sia esclusivamente diretta a fronteggiare il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie ed abbia sostanzialmente la funzione di impedire l'esercizio di funzioni pubblicistiche, trattandosi di finalità cautelare al cui soddisfacimento è già preordinata, se applicabile, la misura interdittiva prevista dall'art. 289 (Sez. 6, 37083/2021).

Se è vero che le misure custodiali rassicurano maggiormente quanto alla salvaguardia del dato cautelare, evitando, al massimo grado o ad un grado più elevato, il pericolo di reiteratio criminis, non è possibile affermare, con la stessa evidenza, che le misure coercitive non custodiali, anche congiuntamente applicate ed eventualmente corredate da precisi obblighi accessori, siano inidonee a tutelare il bisogno cautelare. Il sistema cautelare ordinario è, del resto, retto dal principio del "minore sacrificio necessario", per cui si impone al giudice di scegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a tutelare le esigenze cautelari ravvisabili nel caso concreto, con la conseguenza che, quando è possibile salvaguardare il dato cautelare con l'applicazione di misure meno afflittive (coercitive non custodiali), al giudice, sul quale incombe un rigoroso onere di motivazione in proposito, è inibita l'applicazione o il mantenimento delle misure cautelari custodiali (Sez. 3, 15669/2022).

Stante la natura strumentale delle misure cautelari e considerata altresì la loro inevitabile attitudine limitativa di posizioni soggettivamente rilevanti dell'individuo che da esse viene attinto, il criterio della congruità e della adeguatezza della misura rispetto alla esigenza cautelare che la stessa è destinata a prevenire non deve intendersi operante solo in caso di sproporzione in eccesso fra la misura ed il rischio tutelato ma tutte le volte in cui non è dato riscontrare un effettivo vincolo di adeguatezza funzionale fra la misura applicata e la esigenza cautelare che essa tende a soddisfare, sicché la stessa risulta ingiustificata non solo laddove sia esageratamente afflittiva ma anche in tutte le ipotesi in cui essa si manifesti come inutile e perciò solo limitativa di una libertà; cosa che si verifica tutte le volte in cui il, pur misurato, sacrificio imposto al destinatario della medesima non si dimostri come effettivamente destinato a prevenire il rischio di recidivanza ovvero un'altra delle rilevanti esigenze cautelari ritenute sussistere (Sez. 3, 21074/2021).

L’art. 275 impone al giudice, nella scelta delle misure cautelari da applicare all’indagato, di tener conto della «specifica idoneità» di ciascuna di esse in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto. Il principio di adeguatezza, al pari di quello della proporzionalità, opera infatti come parametro di commisurazione delle misure cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata del processo, imponendo una costante verifica della idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze di cui all’art. 274, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale (SU, 16085/2011). Tratto saliente complessivo del regime cautelare apprestato dal codice di rito  in conformità al quadro costituzionale di riferimento  è infatti quello di non prevedere automatismi né presunzioni: alla stregua dei ricordati principi di adeguatezza, proporzionalità e minor sacrificio deve essere realizzata una piena «individualizzazione» della coercizione cautelare (Corte costituzionale, 265/2010). Pertanto, la valutazione della proporzionalità di una determinata misura cautelare non può automaticamente comportare che la stessa sia effettivamente idonea a fronteggiare le specifiche esigenze cautelari ravvisabili nel caso concreto. Il legislatore ha infatti apprestato un ventaglio di presidi cautelari, dal più grave della custodia carceraria a quelli meno afflittivi, destinati ad incidere in forma progressivamente più acuta sulle libertà dell’indagato: entro la gamma delle alternative prefigurate dalla legge, il giudice deve prescegliere la misura meno afflittiva, in modo da ridurre al minimo indispensabile la lesività determinata dalla coercizione endoprocedimentale, ma che in ogni caso deve presentarsi idonea a tutelare le esigenze cautelari nel caso concreto (Sez. 6, 8073/2016).

L’art. 275 attribuisce al giudice poteri discrezionali assai estesi nella scelta delle misure cautelare da applicare all’indiziato. Egli, infatti, deve tener conto - al riguardo - della specifica idoneità della misura, che intende applicare, a soddisfare nel caso concreto le esigenze cautelari. Il legislatore non ha, però, inteso attribuire al giudice una discrezionalità assoluta e la formulazione del giudizio di proporzione ed adeguatezza della misura cautelare prescelta e le esigenze da soddisfare è incensurabile, in sede di legittimità, se sorretta da adeguata motivazione, immune da vizi logico- giuridici. La disposizione contenuta nel comma 3 dell’art. 275 non pone infatti a carico del giudice l’obbligo di offrire l’analitica dimostrazione della inadeguatezza di ogni misura diversa da quella restrittiva in carcere; ne consegue che deve ritenersi assolto l’onere motivazionale, allorché venga dimostrato che l’unica misura adeguata ad impedire la prosecuzione dell’attività criminosa sia la permanenza in carcere, rimanendo così superata ed assorbita la dimostrazione della inadeguatezza di misure cautelari meno afflittive. Tale principio generale deve essere adattato al caso in cui si proceda per uno dei reati in relazione ai quali esiste, come nel caso di specie, una presunzione relativa di adeguatezza della misura carceraria. L’esistenza di tale presunzione impone, per la concessione degli arresti domiciliari, la presenza di specifici elementi relativi al caso concreto che consentano di ritenere comunque adeguata la misura meno afflittiva. In presenza di una presunzione relativa, pertanto, la motivazione in ordine alla idoneità esclusiva della misura carceraria deve dare conto dell’assenza di elementi che consentano di ritenere adeguate misure meno afflittive, anche in considerazione delle allegazioni difensive, senza che sia necessario motivare in ordine alla possibile adeguatezza della cautela domiciliare. Né tale attenuazione degli oneri motivazionali risulta incisa dalla previsione contenuta nell’art. 275, comma 3-bis: la motivazione circa la inadeguatezza della misura degli arresti domiciliari, eletta dal legislatore come misura coercitiva “principe” (nella configurazione ordinaria che prevede il controllo elettronico) è richiesta infatti solo in assenza di presunzioni. Ove invece esista una presunzione (sia nella configurazione assoluta che relativa) la struttura della motivazione si “inverte”: il carcere è la misura presuntivamente adeguata, la cui applicazione risulta giustificata in assenza di elementi concretamente indicativi della idoneità preventiva di cautele meno afflittive (Sez. 2, 35665/2018).

Il giudice delle leggi, con sentenza del 12 febbraio 2013 n. 57, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 275, comma 3, secondo periodo, come modificato dal DL 11/2009, art. 2, comma 1, nella parte in cui (nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis Cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari) non faceva salva l’ipotesi in cui fossero stati acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Sulla scia di questa pronunzia, questa Corte ha ribadito che, in tema di misure cautelari, a seguito della sentenza della Corte cost. n. 57 del 2013, la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, di cui all’art. 275, comma 3, per i delitti aggravati ex art. 7 L. 203/1991, possa essere superata quando, in relazione al caso concreto, siano acquisiti elementi specifici dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misureQuesta impostazione è stata rafforzata dalle modifiche operate al codice di rito con la L. 47/2015, che riscrivendo il secondo periodo del comma 3 dell’art. 275 (in perfetta conformità ai principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità) ha disposto che “salvo quanto previsto dal secondo periodo del presente comma, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater, (tra i quali sono ricompresi i reati aggravati ex art. 7 L. 203/91), è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure” (Sez. 2, 35483/2018).

Persone ultrasettantenni

La seconda parte del comma 4 dell'art. 275 c.p.p. condiziona l'applicabilità della custodia in carcere nei confronti di soggetto di età superiore agli anni settanta alla ricorrenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Tale requisito deve essere integrato all'atto dell'applicazione della misura e deve permanere durante l'esecuzione della stessa. Invero, qualora l'ordinanza cautelare ometta di pronunciarsi in punto di sussistenza del pericolo di recidiva di "eccezionale rilevanza" in guisa da mantenere la custodia in carcere nei confronti dell’ultra settantenne con riferimento al solo pericolo di reiterazione del reato, fondato esclusivamente sulle modalità del fatto e sui profili soggettivi diversi da quelli postulati dalla norma, la misura va annullata (Sez. 1, 27917/2020).

Nel caso di misura cautelare nei confronti di soggetto ultrasettantenne e in assenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, il giudice, in sede di applicazione o sostituzione della custodia cautelare in carcere, non può subordinare l’applicazione degli arresti domiciliari alla disponibilità del c.d. braccialetto elettronico. Qualora la concessione degli arresti domiciliari venga erroneamente condizionata alla verifica della disponibilità del braccialetto elettronico, il protrarsi della custodia cautelare in carcere dell’ultrasettantenne integra la violazione dei diritti dell’indagato, non potendo il giudice motivare in ordine all’idoneità a garantire le esigenze cautelari, in carenza di sistemi di controllo a distanza, della sola custodia in carcere, in quanto vietata dalla disposizione di cui all’art. 275, comma quarto, ultima parte (Sez. 5, 27963/2020).

Incidenza del fattore tempo

In tema di custodia cautelare in carcere applicata nei confronti dell’indagato per uno dei delitti per i quali l’art. 275, co. 3, pone una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, qualora intercorra un considerevole lasso di tempo tra l’emissione della misura e i fatti contestati in via provvisoria all’indagato e si tratti, in particolare, di un reato non permanente, il giudice ha l’obbligo di motivare puntualmente in ordine all’attualità delle esigenze cautelari (Sez. 5, 37493/2021).

In tema di misure cautelari, pur se per i reati di cui all'art. 275, comma 3, è prevista una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, il tempo trascorso dai fatti contestati, alla luce della riforma di cui alla legge 16 aprile 2015, n. 47 e di una esegesi costituzionalmente orientata della stessa presunzione, deve essere espressamente considerato dal giudice, ove si tratti di un rilevante arco temporale privo di ulteriori condotte dell'indagato sintomatiche di perdurante pericolosità, che può rientrare tra gli "elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari", cui si riferisce lo stesso art. 275, comma 3. In definitiva, qualora intercorra un considerevole lasso di tempo tra l'emissione della misura e i fatti contestati in via provvisoria all'indagato, il giudice ha l'obbligo di motivare puntualmente, su impulso di parte o d'ufficio, in ordine alla rilevanza del tempo trascorso sull'esistenza e sull'attualità delle esigenze cautelari, anche nel caso in cui, trattandosi di reati associativi o di delitto aggravato dall'art. 7 della L. 203/1991 (ora art. 416-bis 1 c.p.), non risulti la dissociazione dell'indagato dal sodalizio criminale (Sez. 3, 34672/2021).

In tema di custodia cautelare in carcere applicata nei confronti dell’indagato per i delitti per i quali l’art. 275, comma 3, pone una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, qualora intercorra un considerevole lasso di tempo tra l’emissione della misura e i fatti contestati in via provvisoria all’indagato, il giudice ha l’obbligo di motivare puntualmente, su impulso di parte o d’ufficio, in ordine alla rilevanza del tempo trascorso sull’esistenza e sull’attualità delle esigenze cautelari anche nel caso in cui non risulti una dissociazione espressa dal sodalizio (Sez. 3, 6284/2019).

Presunzioni cautelari

In tema di applicazione di misure cautelari personali, anche a seguito della novella attuata con la L. 47/2015, l’art. 275, comma 3 continua a prevedere una doppia presunzione, relativa quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari ed assoluta con riguardo all’adeguatezza della misura carcerariaNe consegue che, in presenza di gravi indizi di colpevolezza del delitto di partecipazione ad un’associazione mafiosa, il giudice non ha un obbligo di dimostrare in positivo la ricorrenza dei pericula libertatis, ma deve soltanto apprezzare l’eventuale sussistenza di segnali di rescissione del legame del soggetto con il sodalizio criminale tali da smentire, nel caso concreto, l’effetto della presunzione, in mancanza dei quali trova applicazione in via obbligatoria la sola misura della custodia in carcere (Sez. 2, 35666/2018).

In tema di misure coercitive disposte per il reato associativo di cui all’art. 74 DPR 309/1990, l’art. 275, comma 3 pone una duplice presunzione relativa, sia quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari che alla scelta della misura, che inverte gli ordinari poli del ragionamento giustificativo, il giudice che applica o che conferma la misura cautelare non ha un obbligo di dimostrare in positivo la ricorrenza dei pericula libertatis, ma soltanto di apprezzamento delle ragioni di esclusione, eventualmente evidenziate dalla parte o direttamente evincibili dagli atti, tali da smentire, nel caso concreto, l’effetto della presunzione. Qualora la presunzione relativa di pericolosità non sia stata superata dalla prova dell’inesistenza di una qualunque esigenza cautelare, è vincolante per il giudice la previsione legale di adeguatezza esclusiva della custodia carceraria a fronteggiare il pericolo presunto, senza che assuma rilievo e possa discutersi della natura e del grado dello stesso e che possano applicarsi forme di coercizione cautelare di intermedia afflittività, ponendosi soltanto l’alternativa tra la custodia intramuraria e lo stato di libertà del soggetto, in deroga ai principi generali sanciti dallo stesso art. 275 e dall’art. 292 comma 2, che impongono una valutazione specifica dell’idoneità di ciascuna misura rispetto alle esigenze del caso e la residualità dell’applicazione della custodia in carcere quando tutte le altre misure siano inefficaci (Sez. 6, 38581/2018).

La presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari opera anche nel caso in cui è contestata la fattispecie di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, ma è superata se risulta esclusa, secondo una valutazione prognostica, la possibilità del ripetersi della situazione che ha dato luogo al contributo dell’extraneus alla vita della consorteria, a differenza di quanto rileva con riferimento alla partecipazione all'associazione mafiosa, giacché in tal caso, atteso l'evidenziarsi di una situazione di "affectio societatis", la presunzione è vinta solo se siano acquisiti elementi tali da dimostrare in concreto un consistente allontanamento del soggetto rispetto all'associazione (Sez. 6, 35686/2019).

In tema di misure cautelari, sebbene per i reati di cui all’art. 275, comma 3, sia prevista una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, qualora intercorra un considerevole lasso di tempo tra l’emissione della misura e i fatti contestati in via provvisoria all’indagato, il giudice ha l’obbligo di motivare puntualmente, su impulso di parte o d’ufficio, in ordine alla rilevanza del tempo trascorso sull’esistenza e sull’attualità delle esigenze cautelari, anche nel caso in cui, trattandosi di reati associativi o di delitto aggravato dall’art. 7 L. 203/1991 (ora art. 416-bis 1 c.p.), non risulti la dissociazione dell’indagato dal sodalizio criminale (Sez. 5, 41049/2019).

Nei confronti dell’indagato (o del condannato in primo grado) per concorso esterno in associazione di tipo mafioso o per reati aggravati dal metodo mafioso o dalla finalità di agevolare un tale tipo di sodalizio, non solo, a norma dell’art. 275, comma 3-bis, la presunzione di adeguatezza della misura della custodia in carcere è relativa e non assoluta, ma il giudizio sulla presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari deve essere effettuato sulla base di altri parametri. In particolare, la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari può essere superata attraverso una valutazione prognostica, ancorata ai dati fattuali emergenti dalle risultanze investigative acquisite, della ripetibilità della situazione che ha dato luogo al contributo dell’extraneus alla vita della consorteria, tenendo conto, in questa prospettiva, dell’attuale condotta di vita e della persistenza o meno di interessi comuni con il sodalizio mafioso, senza necessità di provare la rescissione del vincolo (Sez. 5, 34769/2019).

In tema di misure coercitive disposte per il reato associativo di cui all’art. 74 DPR 309/90, la sussistenza delle esigenze cautelari, rispetto a condotte esecutive risalenti nel tempo, deve essere desunta da specifici elementi di fatto idonei a dimostrarne l’attualità, in quanto tale fattispecie associativa è qualificata unicamente dai reati fine e non postula necessariamente l’esistenza dei requisiti strutturali e delle peculiari connotazioni del vincolo associativo previste per il reato di cui all’art. 416-bis Cod. pen., di talché risulta ad essa inapplicabile la regola di esperienza, elaborata per quest’ultimo, della tendenziale stabilità del sodalizio in difetto di elementi contrari attestanti il recesso individuale o lo scioglimento del gruppo (Sez. 6, 55776/2018).

In tema di misure cautelari e di presunzione di cui all’art. 275 comma 3 è ammessa la prova contraria in presenza di elementi seri che dimostrino l’attenuata pericolosità sociale dell’indagato, soprattutto ove la misura cautelare venga applicata a notevole distanza di tempo dai fatti cui si riferisce: in tal caso il giudice ha l’obbligo di motivare in maniera particolarmente puntuale sull’eventuale esistenza e sull’attualità delle esigenze cautelari (proprio in relazione al tempo trascorso), in quanto si ritiene che la presunzione menzionata tenda ad affievolirsi nel caso in cui un considerevole arco temporale separi il momento di consumazione del reato da quello di intervento cautelare (Sez. 6, 54801/2018).

In tema di attualità e concretezza delle esigenze cautelari si è da tempo affermato - alla luce delle innovazioni introdotte con la L. 47/2015 - che «per ritenere “attuale” il pericolo “concreto” di reiterazione del reato, non è più sufficiente ipotizzare che la persona sottoposta alle indagini/imputata, presentandosene l’occasione, sicuramente (o con elevato grado di probabilità) continuerà a delinquere e/o a commettere i gravi reati indicati dall’art. 274, lett. c), ma è necessario ipotizzare anche la certezza o comunque l’elevata probabilità che l’occasione del delitto si verificherà. Ne consegue che il giudizio prognostico non può più fondarsi sul seguente schema logico: “se si presenta l’occasione sicuramente, o molto probabilmente, la persona sottoposta alle indagini reitererà il delitto”, ma dovrà seguire la diversa, seguente impostazione: “siccome è certo o comunque altamente probabile che si presenterà l’occasione del delitto, altrettanto certamente o comunque con elevato grado di probabilità la persona sottoposta alle indagini/imputata tornerà a delinquere” (Sez. 5, 54526/2018).

In presenza di perduranti esigenze cautelari, la disposizione di cui all’art. 275, comma 3, non consente  in nessun caso  per il reato di cui all’art. 416-bis Cod. pen., l’applicazione di una misura cautelare diversa dalla custodia in carcere: la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere di cui all’art. 275, comma 3, opera, infatti, non solo nel momento di adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva ma anche nelle successive vicende che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari (SU, 34473/2012).

Effetti ai fini cautelari della sentenza di condanna anche non definitiva

In materia di misure cautelari personali, il limite di tre anni di pena detentiva necessario per l'applicazione della custodia in carcere, previsto dall'art. 275, comma 2-bis, opera non solo nella fase di applicazione, ma, costituendo una regola di valutazione della proporzionalità, anche nel corso della esecuzione della misura, sicché questa non può essere mantenuta qualora sopravvenga una sentenza di condanna, quantunque non definitiva, a pena inferiore al suddetto limite (Sez. 5, 28360/2021).

Costituisce ius receptum il principio secondo cui in tema di misure cautelari personali, una volta intervenuta la sentenza di condanna anche non definitiva, la valutazione degli elementi rilevanti ai fini del giudizio incidentale, anche in sede di riesame o di appello, deve mantenersi nell’ambito della ricostruzione operata dalla pronuncia di merito, non solo per quel che attiene all’affermazione di colpevolezza e alla qualificazione giuridica, ma anche per tutte le circostanze del fatto, non potendo essere queste apprezzate in modo diverso dal giudice della cautela (Sez. 5, 13540/2017).

La sopravvenuta sentenza di condanna preclude la questione relativa all’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza, esonerando il giudice della cautela da ogni valutazione sul punto, in quanto l’autonomia della decisione cautelare, inserita nel procedimento incidentale, non può spingersi sino al punto di porsi in contrasto con il contenuto della sentenza, emessa nel processo principale, stante la relazione strumentale tra i due procedimenti e in ragione del preminente principio di assorbimento della regiudicanda cautelare indiziaria nel positivo giudizio probatorio degli elementi di accusa offerto dalla sentenza di condanna, ancorché non irrevocabile (Sez. 1, 12349/2016).

Una pronunzia di condanna, tanto più se confermata in appello, comportante l’irrogazione un’elevata pena detentiva per un grave reato commesso con modalità di particolare allarme in contesti di criminalità organizzata mafiosa ancora vivi e connotati di norma da stabili legami, costituisce un nuovo elemento di valutazione che si presta a confermare, rendendole vieppiù resistenti, le presunzioni relative di cui all’art. 275, comma 3, avuto riguardo alle esigenze citate dalle lett. b) e c) del comma 1 dell’art. 274 (Sez. 1, 7977/2018).

La pronuncia di una sentenza di condanna costituisce di per sé non solo un fatto nuovo che legittima l’emissione di una misura coercitiva personale, non ostando a tal fine la formazione di un giudicato cautelare precedente, ma anche, quando sia relativa ad uno dei reati di cui all’art. 275, comma 3, elemento idoneo a fondare la presunzione di pericolosità che impone la misura della custodia in carcere (Sez. 1, 16602/2017).

Valutazione della possibilità di concessione della sospensione condizionale della pena

La ritenuta sussistenza del pericolo di reiterazione del reato esime il giudice dal dovere di motivare sulla prognosi relativa alla concessione della sospensione condizionale della pena (SU, 1235/2010).

In tema di applicazione o di revoca delle misure cautelari custodiali la valutazione prognostica del giudice circa la concedibilità della sospensione condizionale della pena, richiesta dall’art. 275, comma 2-bis, non può tenere conto dell’eventuale applicazione delle diminuenti previste per i riti speciali, in assenza di elementi specifici, che consentano di ritenere concretamente prevedibile l’accesso a tali forme alternative di definizione del procedimento (Sez. 3, 14057/2018).

Condizioni di salute

La sostituzione del regime carcerario con altra misura meno afflittiva ex art. 275, comma 4-bis non richiede necessariamente l'imminenza del pericolo di vita del detenuto, dovendosi, più semplicemente, assicurare che l'offerta terapeutica risulti adeguata rispetto alla gravità delle condizioni di salute del condannato e dovendosi, al contempo, evitare che la protrazione dello stato detentivo si ponga come fattore di potenziale aggravamento delle patologie, con una valutazione da operarsi in concreto e alla luce dell'emergenza sanitaria da COVID-19. (Nel caso di specie, la Suprema corte ha ritenuto censurabile il provvedimento del tribunale che, pur consapevole del lasso temporale intercorso rispetto agli accertamenti disposti dal giudice per le indagini preliminari e dell'ambivalente contenuto delle valutazioni espresse dal sanitario - che da un lato ha rappresentato la non particolare gravità delle condizioni di salute dell'imputato e la adeguatezza sotto il profilo terapeutico della struttura carceraria, ma dall'altro ha sottolineato l'elevato rischio di contrarre un'infezione virale per la condizione di immunodepressione determinata dalle terapie farmacologiche seguite - ha ritenuto apoditticamente di disattendere la richiesta del detenuto, senza procedere alla necessaria verifica in concreto della attuale disponibilità e dell'adeguatezza della struttura carceraria rispetto alle denunciate condizioni di salute) (Sez. 6, 19127/2021).

La valutazione sull’incompatibilità tra il regime detentivo carcerario e le condizioni di salute del recluso, o sulla possibilità che il mantenimento dello stato di detenzione di persona gravemente debilitata e/o ammalata costituisca trattamento inumano o degradante, va effettuata tenendo comparativamente conto delle condizioni complessive di salute e di detenzione, ed implica un giudizio non soltanto di astratta idoneità dei presidi sanitari e terapeutici posti a disposizione del detenuto, ma anche di concreta adeguatezza delle possibilità di cura ed assistenza che nella situazione specifica è possibile assicurare al predetto (Sez. 5, 11438/2021).

In tema di custodia cautelare in carcere, l’incompatibilità tra le condizioni di salute del detenuto e il regime carcerario, in considerazione del rischio di contrarre l’infezione da Covid-19, deve risultare da elementi specifici che rivelino fattori di effettivo e concreto pericolo, avuto riguardo alla situazione in concreto esistente nella casa circondariale in cui si trova l'interessato, alla presenza di misure di precauzione adottate, nel rispetto delle prescrizioni di legge e di quelle regolamentari, per garantire una distanza di sicurezza tra detenuti “a rischio”, nonché alla possibilità che i reclusi che si trovano in condizioni di salute più precarie possano godere del trasferimento presso atri istituti o presso strutture sanitarie più adeguate del circuito penitenziario. (Nel caso di specie, la Suprema corte ha ritenuto di dover condividere la valutazione operata del tribunale della libertà, che aveva disatteso l'istanza difensiva di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere, alla quale il prevenuto è sottoposto, con quella meno gravosa degli arresti domiciliari. In motivazione, la Corte ha evidenziato che, se è pur vero che la detenzione in carcere costituisce obiettivamente un contesto nel quale è più facile la diffusione del virus, in quanto i detenuti vivono in ambienti nei quali è tendenzialmente più difficile il mantenimento delle distanze di sicurezza ed in cui sono ben possibili fenomeni di assembramento o di sovraffollamento, è anche vero che la norma codicistica, prevede una situazione di concreta ed effettiva, non anche di ipotetica o potenziale, incompatibilità tra le condizioni di salute del recluso e il suo stato di detenzione, se del caso valutate come tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere) (Sez. 6, 27917/2020).

La prevalenza del divieto di custodia in carcere per i soggetti portatori di gravi malattie, previsto dall’art. 275, comma 4-bis, rispetto alla presunzione di adeguatezza esclusiva della custodia in carcere censiti dall’art. 275, comma 3, opera soltanto a condizione che risulti accertato il presupposto costituito dall’incompatibilità delle condizioni di salute del soggetto con lo stato di detenzione (intendendosi per tale anche quello attuabile presso taluna delle “idonee strutture sanitarie penitenziarie” indicate nello stesso art. 275, comma 4-ter (Sez. 1, 14801/2018).

Ogni volta che le condizioni di salute dell’indagato costituiscano uno degli elementi prospettati ai fini del sindacato sul grado delle esigenze cautelari da soddisfare (art. 275), il tribunale del riesame non può sottrarsi al dovere di prenderle in considerazione e motivare anche sotto tale profilo il rigetto dell’impugnazione. Non è preclusa infatti all’indagato, in sede di riesame, la produzione di documentazione afferente le condizioni di salute quando le medesime dispieghino incidenza sulle esigenze cautelari e sui criteri di applicazione delle stesse (Sez. 5, 27965/2020).

Le condizioni di salute dell’indagato incompatibili con lo stato di detenzione non possono costituire motivo di censura contro l’ordinanza impositiva della misura coercitiva, ma debbono essere fatte eventualmente valere davanti al giudice competente ex art. 279, in sede di richiesta di revoca o di sostituzione della misura, formulata ai sensi dell’art. 299 (Sez. 1, 39715/2016).

La prevalenza del divieto di custodia in carcere per i soggetti portatori di gravi malattie, quale previsto dal comma 4-bis dell’art. 275, opera anche rispetto alla presunzione d’adeguatezza esclusiva della custodia in carcere, nei casi di cui al precedente terzo comma dello stesso articolo, sempre che risulti accertato il presupposto costituito dall’incompatibilità delle condizioni di salute del soggetto con lo stato di detenzione (Sez. 6, 18891/2017).

In tema di misure cautelari personali, è illegittimo il provvedimento con cui il TDR affermi la compatibilità delle condizioni di salute con lo stato di detenzione sulla base della sottoposizione del detenuto a continuo monitoraggio. La valutazione della gravità delle condizioni di salute del detenuto e della conseguente incompatibilità con il regime carcerario deve essere effettuata sia in astratto, con riferimento ai parametri stabiliti dalla legge, sia in concreto, con riferimento alla possibilità di effettiva somministrazione nel circuito penitenziario delle terapie di cui egli necessita.

Quando la richiesta di revoca o sostituzione della custodia cautelare in carcere sia fondata, a norma dell’art. 299, comma 4-ter, seconda parte, sulla sussistenza di patologie particolarmente gravi che rendano le condizioni di salute incompatibili con lo stato di detenzione, il giudice, se non accoglie la domanda sulla base degli atti, ha l’obbligo di disporre accertamenti medici da espletare – contrariamente a quanto è previsto dalla prima parte della medesima disposizione a proposito dell’istanza fondata su ragioni diverse – con le formalità e le garanzie previste per la perizia (Sez. 4, 12420/2019).

La prevalenza del divieto di custodia in carcere per i soggetti portatori di gravi malattie (ex art. 275 comma 4-bis), rispetto alla presunzione d’adeguatezza esclusiva della custodia in carcere (ex art. 275 comma 3) opera solo a condizione che risulti accertato l’incompatibilità delle condizioni di salute del soggetto con lo stato di detenzione, intendendosi per tale anche quello attuabile presso taluna delle idonee strutture sanitarie di cui è menzione nel comma quarto-ter del citato art. 275 (Sez. 2, 18221/2018).

In tema di revoca o sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere, secondo la previsione di cui all’art. 299 comma 4-ter, se la richiesta è basata sulle condizioni di salute di cui all’art. 275 comma 4-bis, ovvero se tali condizioni di salute sono segnalate dal servizio sanitario penitenziario, il giudice, se non ritiene di accoglierla sulla base degli atti, dispone con immediatezza e comunque non oltre il termine previsto al comma 3, gli accertamenti medici del caso, nominando un perito. Il giudice, dunque, ha l’obbligo di disporre la perizia solo se sono evidenziate ragioni di salute riconducibili alla previsione di cui all’art. 275 comma 4-bis e cioè: l’essere il richiedente persona affetta da AIDS conclamata o da gravi deficienze immunitarie accertate ai sensi dell’art. 256-bis, comma 2 ovvero da altra malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultino incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere. A far scattare l’obbligo di nominare un perito non basta, dunque, evidentemente, prospettare una qualsivoglia malattia, ma occorre che venga evidenziata e circostanziata una patologia “particolarmente grave”, la cui cura non sia compatibile con il regime carcerario, anche nei centri clinici particolarmente attrezzati disponibili all’interno di talune strutture dell’amministrazione penitenziaria. E se non è onere del richiedente provare in maniera esaustiva tale incompatibilità, per contro la richiesta deve contenere degli elementi che consentano al giudice una delibazione circa la ricaduta del caso in esame nella previsione di cui all’art. 275 comma 4-bis. Al giudice è inibito respingere la domanda solo perché, in via preliminare, si prefiguri la sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, non potendo tale apprezzamento che essere successivo all’accertamento peritale che offre il parametro di comparazione. Tuttavia il giudice chiamato a pronunciarsi sulla richiesta de libertate ex art. 299. sarà chiamato a verificare se quella prospettatagli è una richiesta fondata su esigenze di salute tout court ovvero su quelle situazioni particolarmente gravi enucleabili dal dettato dell’art. 275 comma 4-bis che gli impongono la nomina del perito. E se propende per la prima trova applicazione la prima parte del comma 4-ter dell’art. 299, secondo cui “quando non è in grado di decidere allo stato degli atti, il giudice dispone, anche di ufficio e senza formalità, accertamenti sulle condizioni di salute o su altre condizioni o qualità personali dell’imputato”. Diversamente opinando, evidentemente, se si propendesse per un obbligo del giudice di disporre perizia ogni qualvolta venga solo affermata l’incompatibilità carceraria per ragioni di salute non si comprenderebbe in quali casi potrebbero essere disposti gli “accertamenti sulle condizioni di salute” previsti dalla prima parte della norma richiamata. Naturalmente nulla esclude che gli accertamenti informali disposti presso la struttura carceraria evidenzino che, contrariamente a quanto emergeva dalla prima delibazione operata dal giudice, si versi in un caso particolarmente grave, di quelli riconducibili al comma 4-bis dell’art. 275. Ed allora il giudice, se non ritiene di dover provvedere allo stato degli atti a disporre una misura extracarceraria, dovrà provvedere alla nomina del perito ex art. 299 comma 4-ter (Sez. 3, 5934/2015).

Il riconoscimento della necessità di periodici controlli, clinici e strumentali preordinati alla valutazione nel tempo delle condizioni patologiche riscontrate ed alla pianificazione della terapia farmacologica più congrua, anche a mezzo di brevi ricoveri presso ambiente specialistico esterno al circuito carcerario non determina di per sé uno stato di incompatibilità rilevante, ex art. 275, comma 4, ai fini dell’operatività del divieto di custodia in carcere, che richiede lo stato morboso in atto, potendo essere salvaguardate ai sensi dell’art. 11, L. 354/1975, con il trasferimento del detenuto in idonei centri clinici dell’amministrazione penitenziaria o in altri luoghi di cura esterni, con il conseguente diritto ad ottenere, in tal caso, detto trasferimento (Sez. 1, 24854/2018).

I motivi di salute non costituiscono  secondo la disciplina della Convenzione europea di estradizione  motivo ostativo alla consegna, potendo rappresentare causa di incompatibilità della custodia cautelare in carcere disposta a fini estradizionali (giusta il combinato disposto degli artt. 714, comma 2, e 275, comma 4-bis) ovvero, nei casi più gravi, ragione di non trasportabilità del consegnando (Sez. 6, 15749/2018).

Assistenza genitoriale

Ai fini dell'integrazione dell'assoluta impossibilità per la madre di dare assistenza al minore, prevista dall'art. 275, comma 4, quale condizione per escludere l'applicazione o il mantenimento della custodia in carcere nei confronti del padre di prole di età inferiore a sei anni, deve essere ravvisabile una situazione nella quale si palesi un difetto assistenziale non altrimenti colmabile, tale da compromettere il processo evolutivo-educativo del figlio. Il mero impegno lavorativo, che impedisca alla madre di accudire personalmente il figlio per tutto il corso della giornata, non integra, dunque, la condizione di "assoluta impossibilità" richiesta dalla norma in esame, trattandosi di un impegno che, di per sé, non è incompatibile - anche a prescindere dalla condizione di detenzione dell'altro genitore - con le esigenze di cura del figlio minore, potendosi fare ricorso ad ausili esterni, anche connessi ai servizi territoriali, per provvedere alle relative incombenze materiali (Sez. 6, 33945/2021).

In tema di misure cautelari personali ai fini dell'integrazione della "assoluta impossibilità" per la madre di dare assistenza al minore, prevista dall'art. 275, comma 4, quale condizione per escludere l'applicazione o il mantenimento della custodia in carcere nei confronti del padre di prole di età inferiore a sei anni, deve sussistere una situazione nella quale si palesi un difetto assistenziale non altrimenti colmabile, tale da compromettere il processo evolutivo-educativo del figlio. Ne consegue che la condizione di madre lavoratrice rileva, quale impedimento assoluto ad assistere i figli, soltanto quando venga adeguatamente dimostrata l'oggettiva impossibilità per la madre di conciliare le esigenze lavorative con l'assistenza alla prole, nonché di avvalersi dell'ausilio di parenti od altre figure di riferimento, ovvero di strutture pubbliche (Sez. 6, 23015/2021).

In tema di misure cautelari personali l’assoluta impossibilità per la madre di dare assistenza al minore, prevista dall’art. 275, comma 4 quale condizione per escludere l’applicazione o il mantenimento della custodia in carcere nei confronti del padre di prole di età inferiore a sei anni, si individua avendo riguardo non solo al soggetto chiamato a prestare assistenza, ma anche, e soprattutto, alla situazione del figlio, in considerazione del rischio in concreto derivante per quest’ultimo dal deficit assistenziale, sotto il profilo dell’irreversibile compromissione del processo evolutivo-educativo, dovuta alla mancata, valida ed efficace presenza di entrambi i genitori. E’ stato altresì deciso che, in tema di misure cautelari personali, il mantenimento della misura della custodia cautelare in carcere nei confronti dell’indagato, padre di prole minore di sei anni, sussistendo l’impossibilità della madre di prestare assistenza al minore per impedimento dovuto alle proprie condizioni di salute, non può essere giustificato avendo riguardo alla presenza di altri familiari o di strutture assistenziali, in quanto ad essi il legislatore non riconosce alcuna funzione sostitutiva, considerato che la formazione del bambino può essere gravemente pregiudicata dall’assenza di una figura genitoriale, la cui infungibilità deve, pertanto, fin dove è possibile, essere assicurata, trovando fondamento nella garanzia che l’art. 31 Cost. accorda all’infanzia (Sez. 2, 17720/2018).

L’art. 275, comma 4 impone il bilanciamento tra le esigenze cautelari ed il diritto dei minori all’assistenza genitoriale, ma per la sua natura derogatoria la disposizione è di stretta interpretazione e non implica che al minore debba essere garantita l’assistenza continuativa di almeno un genitore, ma almeno la presenza attiva di uno di essi, di norma individuato nella madre: infatti, la norma dispone che solo nel caso in cui “la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza”, la tutela della prole può essere assicurata dal padre. Peraltro, l’impossibilità del genitore libero di assistere la prole di età inferiore a sei anni è soggetta alla prova rigorosa sia dell’impossibilità assoluta di conciliare detta assistenza con l’attività lavorativa, sia dell’impossibilità di avvalersi dell’ausilio di parenti o altre figure di riferimento o di strutture pubbliche per garantirla (Sez. 1, 36344/2015).

Il consolidato orientamento di legittimità ha più volte ribadito il carattere di norma eccezionale del divieto di disporre la custodia cautelare in carcere, previsto dall’art. 275, 4 comma, non applicabile estensivamente ad altre ipotesi, trattandosi di previsione che mira a tutelare un specifico ambito di situazioni soggettive, caratterizzate dalla particolare condizione dei figli minori ritenuti bisognevoli di un sostegno materiale e psicologico indispensabile per lo sviluppo della persona, condizione che il legislatore ha ritenuto di delimitare sino al raggiungimento dell’età scolare (mostrando di preoccuparsi non di un’assistenza genericamente intesa, ma di quell’assistenza che, nella situazione concreta, può essere garantita esclusivamente dal genitore, sicché ciò che rileva «è dunque una carenza che riguardi non l’assistenza per la quale il genitore è sostituibile, ma quella particolare e più ampia assistenza, nei suoi aspetti anche psicologici ed affettivi, propria del rapporto fra il genitore ed il figlio in tenera età, alla quale non può integralmente sopperirsi ad opera di altri soggetti (Sez. 2, 20156/2018).

Il divieto di custodia cautelare in carcere per l’imputato padre di prole non superiore ai sei anni, in presenza di una madre-lavoratrice rileva, quale impedimento assoluto ad assistere i figli, a condizione che venga adeguatamente dimostrata la totale assenza sia di un supporto pedagogico da parte delle strutture pubbliche, sia di figure di riferimento idonee ad assicurare la tutela del minore (Sez. 2, 15704/2018).