La prova indiretta nel Procedimento Penale
La prova indiretta nel Procedimento Penale
Indice
La fattispecie giudicata in Cass., sez. pen V, 14 settembre 2020, n. 28559
L’antefatto di Cass., sez. pen. V, 14 settembre 2020, n. 28559
Il ricorso dell’imputato per Cassazione
Il motivo del ricorso oggetto di accoglimento
I concetti di indizio e di prova indiziaria
Come si pone il Giudice di legittimità nei confronti della prova indiziaria
La fattispecie giudicata in Cass., sez. pen V, 14 settembre 2020, n. 28559
Il grande merito di Cass., sez. pen. V, 14 settembre 2020, n. 28559 consta nell’aver fornito una preziosa definizione giurisprudenziale dei lemmi “indizio” e “sospetto”. Gli indizi sono “elementi probatori raggiunti attraverso un ragionamento inferenziale che, partendo da un fatto noto (l’indizio) conduce ad un fatto ignoto (il fatto da provare), in virtù dell’applicazione di regole scientifiche, ovvero di massime d’esperienza”.
Diversamente, il lemma “sospetto” sta ad indicare “una nozione che oscilla tra due estremi semantici, ovvero tra il significato di fenomeno soggettivo, congettura, quindi di ipotesi senza prove, o, meglio, alla ricerca di prove, ed il significato di indizio equivoco e, quindi, debole. Tale ultimo concetto connota gli elementi suscettibili di assecondare distinte ed alternative ipotesi, anche contrapposte, nella spiegazione dei fatti oggetto di prova”.
L’antefatto di Cass., sez. pen. V, 14 settembre 2020, n. 28559
La Sentenza del 2020 qui in parola ha parzialmente annullato la pronuncia d’appello impugnata, nella quale si condannava l’imputato per il solo fatto che il proprio cellulare aveva agganciato la cella telefonica del luogo in cui, in quel momento, si stava compiendo un furto. Cass., sez. pen. V, 14 settembre 2020, n. 28559 ha cassato la precedente Sentenza di secondo grado “per violazione di legge e per vizio di motivazione”, in tanto in quanto “la condanna è stata unicamente fondata sulla circostanza [non sufficientemente probatoria] dell’aggancio dell’utenza in uso all’imputato delle celle prossime al luogo ove era stato commesso il furto”.
Più dettagliatamente, la Corte d’Appello di Milano, con Sentenza del 25/05/2018, parzialmente riformante la Sentenza di primo grado recante data 04/05/2011, aveva dichiarato colpevole l’imputato “in relazione al reato di furto pluriaggravato di materiale elettronico, posto in essere all’interno di due distinti centri commerciali, commesso sfondando una porta antipanico, utilizzando come ariete una vettura precedentemente rubata”. La pena comminata in appello era stata pari a due anni, meni nove e quattro giorni di reclusione, più euro 613,00 di multa.
Il ricorso dell’imputato per Cassazione
Il ricorso per Cassazione dell’imputato si suddivideva in tre motivi:
- il primo motivo era fondato sulla “violazione di legge” e sul “vizio di motivazione”, poiché il difensore dell’imputato deduceva “l’inutilizzabilità patologica della prova costituita dal rilevamento dell’impronta palmare, poiché non è stato chiarito su quale superficie fosse stata rinvenuta la stessa”;
- il secondo motivo era anch’esso fondato sulla “violazione di legge” e sul “vizio di motivazione”; ovverosia, il difensore reputava cassabile l’aver fondato la Sentenza d’appello “[unicamente ed insufficientemente] sulla circostanza dell’aggancio dell’utenza in uso all’imputato delle celle prossime al luogo ove era stato commesso il furto”. Nel dettaglio, il ricorso per Cassazione sosteneva che l’aggancio del cellulare alla cella telefonica del locus commissi delicti “è una prova indiretta, indiziaria ed insufficiente, ai sensi del comma 2 Art. 192 Cpp, a fondare un’affermazione di responsabilità”. Del pari, il difensore dell’imputato censura l’ulteriore ed insufficiente prova indiziaria costituita dal fatto che il reo aveva precedenti per furti, commessi sempre a mezzo di un ariete. Di nuovo, ex comma 2 Art. 192 Cpp, tale precedente, di natura indiziaria, non può e non deve assurgere al rango di prova certa e diretta;
- il terzo ed ultimo motivo era fondato su una “violazione di legge”, ovverosia “non è stata presa in considerazione la richiesta di riconoscimento della disciplina della continuazione con fatti già giudicati; [continuità] riconosciuta, invece, dalla prima Sentenza di appello del 2012”;
- La ratio di fondo di Cass., sez. pen. V, 14 settembre 2020, n. 28559.
Il Precedente di legittimità qui in esame ha accolto solamente il motivo sub 2) posto a fondamento del ricorso promosso dal difensore dell’imputato
Il motivo sub 1) del ricorso per Cassazione è stato giudicato “inammissibile e generico” per due motivi. In primo luogo, il difensore non ha prodotto il verbale del rilievo dell’impronta digitale dell’imputato. Tale basilare documento riguardava un atto irripetibile ed è stato regolarmente inserito nel fascicolo del dibattimento. D’altra parte, anche Cass., sez. pen. II, 23 gennaio 2009, n. 17423 precisa che “i verbali delle operazioni di polizia giudiziaria volte al prelievo, sul luogo del fatto, di impronte digitali, in quanto relativi ad atti irripetibili, sono acquisiti al fascicolo per il dibattimento, senza che possa rilevare, in senso contrario, l’assenza del previo avviso al difensore dell’indagato, che ha solo il diritto di assistere agli accertamenti irripetibili”.
In secondo luogo, anche alla luce del comma 2 Art. 357 Cpp e dell’Art. 373 Cpp, il rilievo delle impronte digitali è un atto della PG che può pacificamente essere effettuato senza la presenza del difensore dell’indagato. A tal proposito, anche Cass., sez. pen. I, 6 ottobre 2006, n. 34022 stabilisce che l’acquisizione delle impronte digitali può essere effettuata dalla PG, durante le indagini preliminari, senza il preventivo avviso e la partecipazione del difensore dell’indagato. Pertanto, il verbale relativo alle impronte digitali non è contestabile. La non contestabilità del rilievo delle impronte digitali è ribadita pure da Cass., sez. pen. V, 28 settembre 2018, n. 54493, ossia “il risultato delle indagini dattiloscopiche offre piena garanzia di attendibilità e può costituire fonte di prova, senza elementi sussidiari di conferma anche nel caso in cui sia relativo all’impronta di un solo dito, purché evidenzi almeno sedici o diciassette punti caratteristici, uguali per forma e posizione, in quanto fornisce la certezza che la persona, con riguardo alla quale detta verifica è effettuata, si è trovata sul luogo in cui è stato commesso il reato; ne consegue che il risultato [delle indagini dattiloscopiche] è legittimamente [e sempre] utilizzabile dal giudice [del merito] ai fini del giudizio di colpevolezza, in assenza di giustificazioni o prova contraria su detta presenza”.
Il motivo sub 3) del ricorso per Cassazione qui esaminato è stato, parimenti, giudicato inammissibile, in tanto in quanto contenuto in una Sentenza d’appello diversa da quella impugnata nella presente sede.
Il motivo del ricorso oggetto di accoglimento
Cass., sez. pen. V., 14 settembre 2020, n. 28559 ha accolto il motivo del ricorso sub 2), afferente all’insufficienza della sola prova constante nel fatto che il telefono cellulare dell’imputato ha agganciato le celle telefoniche del luogo in cui, nel frattempo, veniva consumato il delitto.
Con il lemma “sospetto”, Cass., sez. pen. V, 14 settembre 2020, n. 28559 indica una prova a-giuridica, ovverosia “il sospetto è un dato che si sostanzia in un fenomeno soggettivo, in una congettura, quindi un’ipotesi senza prove o, meglio, ancora in cerca di prove”.
Il Precedente di legittimità del 2020 qui in parola definisce anche il sospetto alla stregua di un “indizio equivoco” che, come tale, è “debole, e, comunque […] è un elemento suscettibile di assecondare distinte ed alternative ipotesi, anche contrapposte, nella spiegazione dei fatti oggetto di prova”. Viceversa, sempre in Cass., sez. pen. V, 14 settembre 2020, n. 28559, il lemma “indizi” indica “gli elementi probatori raggiunti attraverso un ragionamento inferenziale che, partendo da un fatto noto (indizio) conduce ad un fatto ignoto (il fatto da provare – in tal caso, la partecipazione dell’imputato al furto), in virtù dell’applicazione di regole scientifiche, ovvero di massime d’esperienza”.
Anzi, lodevolmente e pertinentemente, Cass., sez. pen. V, 14 settembre 2020, n. 28559 distingue, sotto il profilo qualificatorio, tra “massime d’esperienza” e “mere congetture”. Ossia, “nel caso della massima d’esperienza, il dato è stato già o, comunque, viene sottoposto a verifica empirica e, quindi, la massima può essere formulata sulla scorta dell’id quod plerumque accidit; nel caso delle mere congetture, invece, tale verifica non vi è stata e, dunque, la congettura rimarrà insuscettibile di verifica empirica e di conseguente dimostrazione”.
La distinzione tra “massime d’esperienza” e “congetture” è ribadita anche da Cass., sez. pen. I, 22 ottobre 1990, n. 329, nel senso che “poiché il giudizio che viene formulato a conclusione del processo penale non può mai essere di probabilità, ma di certezza, potranno trovare ingresso, nella concatenazione logica dei vari sillogismi in cui si sostanzia la Motivazione, anche le massime d’esperienza, ma non certo le mere congetture”
In tale strenua difesa del principio di certezza del Diritto, s’innesta pure Cass., sez. pen. IV, 12 novembre 2009, n. 48320, la quale, nel commentare la ratio, ex comma 2 Art. 192 Cpp, della gravità, precisione e concordanza, afferma che la prova indiziaria, già ontologicamente debole, è ammissibile solo “previa verifica [in Cassazione] della correttezza del ragionamento probatorio del giudice di merito, il quale deve fornire [ex comma 2 Art. 192 Cpp] una ricostruzione [dei fatti] non inficiata da manifeste illogicità e non fondata su base meramente congetturale, in assenza di riferimenti individualizzanti o sostenuta da riferimenti palesemente inadeguati”.
Come si può notare, Cass., sez. pen. IV, 12 novembre 2009, n. 48320 collega il trinomio gravità/precisone/concordanza, ex comma 2 Art. 192 Cpp, al binomio indizi/massime di esperienza. All’opposto, viceversa, il binomio mere congetture/indizi equivoci si sposa con l’anti-ratio giuridica della tenuità/imprecisione/discordanza degli elementi probatori.
Del pari, Cass., sez. pen. I, 11 febbraio 2014, n. 18118 ammette l’impiego della prova indiziaria ex comma 2 Art. 192 Cpp soltanto se “il giudice di merito non ha fatto ricorso a mere congetture consistenti in ipotesi non fondate sull’id quod plerumque accidit e non suscettibili di verifica empirica. […] [Inoltre, il Magistrato del merito] non deve mai fare ricorso [nell’ applicare il comma 2 Art. 192 Cpp] ad una regola generale priva di una pur minima plausibilità”. Per il vero, anche Cass., sez. pen. I, 11 febbraio 2014, n. 18118 manifesta un sottile sfavore nei confronti dell’istituto della prova indiziaria contemplato dal comma 2 Art. 192 Cpp. Anche il tenore letterale del comma 2 Art. 192 Cpp lascia intravvedere una fiducia non certo illimitata in questa tipologia di prova penale indiretta.
Analoga ratio kelseniana della certezza del Diritto sta alla base di Cass., sez. pen. II, 28 ottobre 2009, n. 43923, nella quale si ribadisce la differenziazione tra “indizi” e “mere congetture”, poiché solo gli indizi, anche nell’ambito del comma 2 Art. 192 Cpp, “consistono in fatti ontologicamente certi che, collegati tra di loro, sono suscettibili di una ben determinata interpretazione”. Quindi, seppur indirettamente, pure Cass., sez. pen. II, 28 ottobre 2009, n. 43923 ri-conferma, nel contesto della prova indiziaria ex comma 2 Art. 192 Cpp, l’indispensabile ruolo della gravità, della precisione e della concordanza, come espressamente previsto a livello codicistico.
Altrettanto restrittivamente, la summenzionata certezza della prova indiziaria è rimarcata da Cass., sez. pen. V, 14 settembre 2020, n. 28559, in tanto in quanto “gli indizi devono possedere in maniera concorrente i tre requisiti dettati dal comma 2 Art. 192 Cpp, nel senso che la mancanza di anche uno solo di essi rende l’indizio inidoneo a fondare la responsabilità penale.
In particolare, gli indizi devono essere gravi, ovverosia in grado di esprimere un’elevata probabilità di derivazione del fatto ignoto da quelle noto, precisi, cioè non equivoci, e concordanti, cioè convergenti verso l’identico risultato”. A parere di chi redige, di nuovo, tali asserti ermeneutici di Cass., sez. pen. V, 14 settembre 2020, n. 28559 confermano che, nella Giurisprudenza di legittimità degli Anni Duemila, la prova indiziaria ex comma 2 Art. 192 Cpp non è vista con grande entusiasmo. Migliore è, senz’altro, la prova diretta, più oggettiva, più automatica e più affidabile.
Similmente, Cass., sez. pen. V, 10 dicembre 2013, n. 4663 invita alla massima cautela, perché “il giudice di legittimità dovrà verificare l’esatta applicazione dei criteri legali dettai dal comma 2 Art. 192 Cpp e la corretta applicazione delle regole della logica nell’interpretazione dei risultati probatori”. Questa esortazione al rispetto della “logica giuridica”, in Cass., sez. pen. V, 10 dicembre 2013, n. 4663 ri-conferma che la prova indiziaria ex comma 2 Art. 192 Cpp è estremamente delicata e potrebbe recare a “mere congetture” contrarie al “giusto processo” ex Art. 111 Cost.. Il funzionamento della prova indiretta non è né semplice né scontato. Viceversa, la prova diretta possiede un carattere maggiormente matematico ed im-mediato, nel senso etimologico.
I concetti di indizio e di prova indiziaria
In Cass., sez. pen. V, 14 settembre 2020, n. 28559, per “prova diretta” (detta anche rappresentativa o storica) s’intende “quel ragionamento che, dal fatto noto, ricava, per rappresentazione, l’esistenza del fatto da provare. Tra il fatto noto […] e il fatto ignoto […] vi è di mezzo la valutazione di credibilità della fonte e di attendibilità della rappresentazione. Una volta ritenuta credibile la fonte ed attendibile la narrazione, il giudice ottiene il seguente risultato probatorio: è ragionevole ritenere che, ad esempio, il racconto del testimone corrisponda allo svolgimento del fatto al quale il testimone ha assistito”.
In secondo luogo, Cass., sez. pen. V, 14 settembre 2020, n. 28559 definisce la “prova indiretta” (detta anche critica) come “la deduzione di un fatto ignoto (c.d. fatto da provare) da un fatto noto (c.d. circostanza indiziante), tramite un procedimento gnoseologico che poggia su massime di esperienza ricavate dall’osservazione del normale ordine di svolgimento delle vicende naturali e umane. La massima di esperienza, dunque, esprime ciò che avviene nella maggior parte dei casi (id quod plerumque accidit), tramite il ragionamento basato sul principio <<in casi simili vi è un identico comportamento>>”.
Dunque, in Cass., sez. pen. V, 14 settembre 2020, n. 28559, il criterio dell’“id quod plerumque accidit”, all’interno della prova indiziaria, sta a significare che il fatto ignoto deriva dal fatto noto, ex comma 2 Art. 192 Cpp, “con un elevato grado di probabilità”; ma Cass., sez. pen. IV, 25 gennaio 1993, n. 2967 (riconfermata da Cass., sez. pen. II, 20 ottobre 2009, n. 43923) invita ad utilizzare la prova indiretta con la massima prudenza, in tanto in quanto “il procedimento indiziario [ex comma 2 Art. 192 Cpp] deve [sempre e comunque] muovere da premesse certe [rectius: gravi, precise e concordanti], ovverosia da circostanze fattuali non dubbie, non potendo esso consistere in dati fondati su mere ipotesi, o congetture, ovvero su indizi di verosomiglianza”.
Sotto il profilo del de jure condito, in Dottrina, Siracusano (2018) afferma che “il faro della nostra analisi deve essere l’Art. 192 Cpp, il quale ribadisce il principio del libero convincimento del giudice nella valutazione della prova, individuandone, al contempo, due limiti: da un lato, ribadisce il tradizionale obbligo motivazionale; dall’altro, esclude che possa derivarne la valutabilità di prove illegittimamente acquisite”. Parimenti, anche Nappi (2007), Grevi (1993) e Nobili (1989) rimarcano anch’essi, nel contesto dell’Art. 192 Cpp, la necessità dell’obbligo motivazionale e la non valutabilità di prove illegittimamente acquisite. Sempre in Dottrina, anche Nobili (1990), nel solco di un’interpretazione assai restrittiva, ribadisce che “nel comma 2 Art. 192 Cpp si riconosce che non v’è [ne può esservi, ndr] una predeterminazione legale del valore persuasivo delle prove, ma si afferma, tuttavia, l’esigenza di legalità del procedimento probatorio”.
In Giurisprudenza, si sottolinea costantemente che, nel comma 2 Art. 192 Cpp, i criteri della gravità, della precisione e della concordanza debbono essere contestuali, con il corollario che l’assenza di anche uno solo di tali tre parametri inficia la potenziale precettività dell’intero comma 2 Art. 192 Cpp. P.e., a tal proposito, Cass., sez. pen. IV, 2 aprile 2003, n. 22391 sostiene, giustamente, che “ai sensi del comma 2 Art. 192 Cpp, gli indizi, oltre a corrispondere a dati di fatto certi, devono essere gravi, precisi e concordanti: la norma [codicistica] subordina, pertanto, alla presenza di [tutti] questi tre concorrenti requisiti l’equiparazione della prova critica (o indiretta) alla prova rappresentativa (o storica o diretta), con la conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di essi, gli indizi non possono assurgere al rango di vera e propria prova idonea a fondare la dichiarazione della responsabilità penale”.
Altrettanto importante, nella Giurisprudenza di legittimità degli Anni Duemila, è la regola tale per cui il comma 2 Art. 192 Cpp diventa precettivo soltanto se gli indizi sono più di uno. P.e., Cass., sez. pen. I, 8 marzo 2000, n. 7027 afferma che “la prova indiziaria di cui al comma 2 Art. 192 Cpp deve essere costituita da più [di un] indizio, e non solo da uno solo di essi; e i molteplici indizi, nel loro insieme, devono essere univocamente concordanti rispetto al fatto da dimostrare, nonché storicamente certi e rappresentativi di una rilevante contiguità logica con il fatto ignoto”. Tuttavia, tale principio dell’esistenza di almeno due indizi, nella fattispecie di cui al comma 2 Art. 192 Cpp, non è una regola pacifica, in Giurisprudenza, per esempio, in Cass., sez. pen. V, 22 ottobre 2003, n. 4565, l’imputato è stato egualmente condannato per la presenza di un solo indizio “grave e preciso”. D’altra parte, chi scrive fa notare che, anche sotto il profilo grammaticale, è pur vero che, nel comma 2 Art. 192 Cpp, gli attributi “gravi, precisi e concordanti” sono declinati al plurale.
Ciononostante, pure in Dottrina, Grevi (ibidem) non ipostatizza, nella prova indiziaria, la necessità della presenza di almeno due, o più, indizi, giacché “la regola della necessaria pluralità degli indizi non va intesa in senso assoluto, in quanto [sotto il profilo della ratio] non necessariamente le prove indiziarie sono più fragili o meno persuasive delle prove dirette”. Analogo è, sempre in Dottrina, il parere di Nobili (ibidem), Fassone (1986) e Ferrua (1990).
Senza dubbio, la Giurisprudenza di legittimità manifesta una tendenziale diffidenza nei confronti della prova indiziaria, la quale recherebbe in sé una diminuzione ontologica del granitico garantismo accusatorio che sta alla base dell’Art. 111 Cost. in tema di “giusto processo”. In effetti, anche in Dottrina, Nappi (ibidem) osserva quanto segue: “si è sostenuto che il comma 2 Art. 192 Cpp recepisca la nozione di indizio come probatio minor, proveniente dalla tradizione pratica, rilevando come il riferimento alla distinzione tra prove dirette e prove indirette finirebbe per limitare irragionevolmente la libertà di convincimento del giudice, imponendogli di considerare la prova indiziaria sempre e comunque meno persuasiva di quella rappresentativa.
[Ma va] superata la tradizionale distinzione tra prova diretta e prova indiretta, effettuata esclusivamente al fine di attribuire maggiore o minore valore processuale all’una piuttosto che all’altra […]. Esistono prove indirette a cui va riconosciuto un rilievo di attendibilità superiore a quelle rientranti nella categoria delle prove dirette o rappresentative, e, anzi, che possono addirittura valere a verificare queste ultime (si pensi ad un’identificazione dattiloscopica, che, di per sé, può essere decisiva, e ad una testimonianza, che deve, invece, superare il controllo di attendibilità di colui che la rende e che può restare soccombente nel confronto con l’altra”.
Interessante è pure l’analisi tanto giurisprudenziale quanto dottrinaria dei tre parametri, ex comma 2 Art. 192 Cpp, della gravità, della precisione e della concordanza degli indizi nella prova indiretta.
- la “gravità” degli indizi, secondo Cass., sez. pen. VI, 4 novembre 2011, n. 3882, è “la misura della capacità dimostrativa (detta anche grado di inferenza) degli indizi. La gravità esprime l’elevata probabilità di derivazione del fatto noto da quello ignoto”. Più un indizio è grave, più la prova indiretta è credibile. A parere di Cass., sez. pen. V, 14 settembre 2020, n. 28559, “è grave [ex comma 2 Art. 192 Cpp] l’indizio che è resistente alle obiezioni e che, pertanto, ha un’elevata persuasività”
- la “precisione” degli indizi, secondo Tonini & Conti (2012), “designa la loro idoneità a far desumere il fatto non conosciuto e varia in relazione inversa alla loro equivocità: [detto in maniera molto diretta] indizi precisi sono quelli che consentono un ristretto numero di interpretazioni, tra le quali è inclusa quella pertinente al fatto da provare. È chiaro che l’indizio non dotato di precisione è inconsistente in sé. La precisione di ogni circostanza indiziante emersa costituisce un pre-requisito necessario, perché si possa procedere oltre nel ragionamento indiziario”.
A mo’ di corollario, si segnala che, secondo Cass., sez. pen. IV, 19 marzo 2009, n. 19730, esiste pure la figura dell’“indizio necessario”, ossia dell’indizio “totalmente grave e preciso […]. L’indizio necessario è quello che comporta un’unica soluzione ed è caratterizzato dalla correlazione obbligata del fatto ignoto da quello noto, al quale, sulla base delle leggi scientifiche, il primo è legato in modo certo e inevitabile. L’indizio necessario, poiché dotato di precisione e gravità assolute, basta, da solo, ad integrare la prova e non postula il concorso di altri indizi, né, di riflesso, il requisito della concordanza [con ulteriori, pleonastici indizi]”.
- la “concordanza” degli indizi, secondo Cass., sez. pen. VI, 4 novembre 2011, n. 3882, sta a significare “la convergenza degli indizi verso l’identico risultato ed è qualificata dalle interazioni riscontrabili tra una pluralità di indizi gravi e precisi, i quali, pur essendo, da soli, insufficienti a giustificare una determinata conclusione, [ciononostante] acquistano il carattere dell’univocità, in ragione del reciproco collegamento e della loro simultanea convergenza in una medesima direzione, assumendo, così, il crisma della prova [utilizzabile] e l’efficacia dimostrativa che a questa inerisce”
Ciò premesso, è utile menzionare, in tema di “contro-indizi”, Iacoviello (2013), il quale precisa che “la gravità degli indizi [ex comma 2 Art. 192 Cpp] non è invalidata dalla presenza di contro-indizi. Gli indizi non si contano, si pesano. Nel processo penale non vale l’algebra degli indizi, vale la loro sintassi, cioè la loro organizzazione in una trama coerente, che consenta una ricostruzione ragionevole della vicenda”.
Viceversa, secondo Tonini (2000) non è né grave, né preciso, né concordante un contro-indizio “totalmente incompatibile con la ricostruzione del fatto storico […]. In tal caso, un solo indizio [pur non corrispondente ai tre parametri ex comma 2 Art. 192 Cpp] sarà idoneo a dimostrare con certezza che il fatto non si è verificato così come ricostruito dal Pubblico Ministero”. Nella Giurisprudenza di legittimità, inoltre, rimane completamente escluso dai tre canoni di cui al comma 2 Art. 192 Cpp quell’indizio che risulta “un elemento del tutto agnostico sul piano probatorio … un elemento non probatoriamente rilevante …”
Come si pone il Giudice di legittimità nei confronti della prova indiziaria
A parere di Cass., SS.UU., 4 febbraio 1992, n. 6682, il Giudice di Cassazione “in un primo momento, […] [deve] accertare il maggiore o minore livello della gravità e della precisione degli indizi, ciascuno considerato isolatamente […]. In un secondo momento, [deve valutare il terzo fattore, quello della concordanza], posto che, nella valutazione complessiva, il limite della valenza di ciascun indizio risulta superato e l’incidenza probatoria positiva viene esaltata, in modo da conferire all’intero complesso indiziario un pregnante ed univoco [rectius: concordante] significato dimostrativo, per il quale può affermarsi conseguita la prova logica del fatto”
Sempre a tal proposito, Cass., sez. pen. IV, 12 novembre 2009, n. 48320 (assai simile a Cass., sez. pen. I, 11 febbraio 2014, n. 18118) precisa che “il sindacato di legittimità deve tradursi nel controllo logico-giuridico della struttura della Motivazione, al fine di verificare se sia stata data un’esatta applicazione ai [tre] criteri legali dettati dal comma 2 Art. 192 Cpp; e se siano state coerentemente applicate le regole [del sillogismo giudiziale, ndr] nell’interpretazione dei risultati probatori. Occorre, in altre parole, verificare che il ragionamento probatorio del giudice del merito fornisca una ricostruzione non inficiata da manifeste illogicità e non fondata su mere congetture, consistenti in ipotesi non fondate sull’id quod plerumque accidit, insuscettibili di verifica empirica”.
Similmente, Cass., sez. pen. VI, 15 novembre 2002, n. 20474 sostiene, pertinentemente, che “l’esame della gravità, della precisione e della concordanza degli indizi [ex comma 2 Art. 192 Cpp] da parte del giudice di legittimità è il controllo sul rispetto, da parte del giudice del merito, dei [tre] criteri dettati in materia di valutazione delle prove dal comma 2 Art. 192 Cpp; controllo eseguito [ex Art. 606 Cpp] con il ricorso ai consueti parametri della completezza, della correttezza e della logicità del discorso motivazionale”.
Rimane, ad ogni modo, fermo ed incontestabile l’asserto di Cass., sez. pen. IV, 19 marzo 2009, n. 19730, ovverosia “spetta alla Corte di Cassazione sindacare l’[eventuale] errata configurazione, come elemento indiziario, ad opera del giudice di merito, di un semplice sospetto. Quest’ultimo, infatti, consiste in un’illazione soggettiva meramente congetturale, fonte di conclusioni in termini di mera possibilità. I sospetti non sono altro che intuizioni, opinioni del tutto personali, che, per quanto ragionevoli, sono meramente ipotetiche e non si fondano [ex comma 2 Art. 192 Cpp] su una concreta circostanza indiziante [grave, precisa e concordante]”.
Come notato da Cass., sez. pen. V, 14 settembre 2020, n. 28559, “alla Corte di Cassazione non è consentito di addentrarsi in una sorta di rivisitazione degli itinerari valutativi attraverso i quali si è formato il convincimento giudiziale, allo scopo di dimostrare che, svalutando certi elementi probatori e rivalutandone altri, si sarebbe dovuti pervenire ad un diverso risultato. E ciò proprio grazie alla lett. e) comma 1 Art. 606 Cpp, preciso baluardo contro il rischio di invasioni arbitrarie nella sfera delle valutazioni probatorie proprie dei giudici di merito”.