Le operazioni soggettivamente inesistenti: la struttura, le implicazioni fiscali e l’onere probatorio

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Le operazioni soggettivamente inesistenti: la struttura, le implicazioni fiscali e l’onere probatorio

 

 

PREMESSA

Le operazioni inesistenti costituiscono uno degli aspetti più delicati e controversi del diritto tributario, rappresentando una categoria di fenomeni illeciti caratterizzati dall’assenza totale o parziale della realtà economica sottostante alla documentazione fiscale.

Tali operazioni si distinguono in oggettivamente inesistenti, quando l’atto o il servizio attestato non sono mai stati posti in essere, e soggettivamente inesistenti, nel caso in cui l’operazione sia effettivamente avvenuta, ma tra soggetti diversi da quelli formalmente indicati nei documenti.

La suddetta distinzione comporta implicazioni giuridiche e probatorie di grande rilevanza, soprattutto in relazione alla tutela del contribuente e al contrasto delle frodi fiscali da parte dell’Amministrazione finanziaria.

In particolare, l’ambito delle operazioni soggettivamente inesistenti si presta a una complessa valutazione sotto il profilo dell’onere probatorio, poiché si confrontano:

  • da un lato, la necessità di sanzionare condotte fraudolente che minano la correttezza del sistema fiscale;
  • dall’altro, la salvaguardia della buona fede dei contribuenti, che possono trovarsi coinvolti in dinamiche fraudolente senza esserne pienamente consapevoli.

La disciplina normativa e la giurisprudenza (unionale e nazionale) hanno delineato i confini entro cui muoversi, stabilendo criteri chiari per la distinzione tra operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti, nonché per la ripartizione dell’onere probatorio tra Amministrazione e contribuente, fondato sulla dimostrazione della mala fede di quest’ultimo.

In tale contesto, la natura e il grado di prova richiesti assumono un rilievo cruciale, influenzando l’efficacia degli strumenti di accertamento e la garanzia di un processo equo.

La complessità delle problematiche affrontate impone, quindi, un’analisi approfondita, volta a comprendere le implicazioni giuridiche e pratiche dell’onere della prova nel quadro delle operazioni soggettivamente inesistenti, con particolare attenzione agli sviluppi normativi e giurisprudenziali più recenti.

 

LE OPERAZIONI INESISTENTI: DEFINIZIONE E TIPOLOGIE

Per comprendere pienamente il fenomeno delle frodi fiscali basate su operazioni fittizie, è necessario partire da un inquadramento normativo generale del concetto di “operazioni inesistenti”.

Preliminarmente, occorre evidenziare che, in ambito tributario, assumono rilevanza tutte le operazioni che danno luogo a rapporti economicamente significativi, idonei a generare obblighi o diritti fiscalmente rilevanti sia ai fini delle imposte dirette sia ai fini IVA.

Quando tali operazioni economiche presentano una discrasia tra realtà documentale e realtà fattuale, si parla di “operazioni inesistenti”, locuzione con la quale si fa riferimento a condotte fraudolente poste in essere dai contribuenti con la finalità di sottrarre, in modo indebito, materia imponibile ai danni dell’Erario.

L’inesistenza dell’operazione può configurarsi:

  • in senso oggettivo, quando l’operazione non è mai stata posta in essere nella realtà fattuale;
  • in senso soggettivo, quando l’operazione è stata effettivamente realizzata, ma tra soggetti diversi da quelli indicati nei documenti fiscali.

Tale distinzione trova fondamento normativo nell’art. 1, lett. a), D.Lgs. n. 74/2000, a norma del quale:

«(…) per "fatture o altri documenti per operazioni inesistenti" si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l'imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l'operazione a soggetti diversi da quelli effettivi».

In altri termini, ai sensi di tale definizione, per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” si intendono quelli:

  • emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate, in tutto o in parte (inesistenza oggettiva). In tale ipotesi la fattura documenta un’operazione commerciale che non è mai stata effettivamente realizzata (inesistenza oggettiva cd. assoluta o totale) oppure effettuata solo in parte, per quantitativi inferiori a quelli indicati (inesistenza oggettiva cd. relativa o parziale);
  • che riportano corrispettivi o importi di IVA in misura superiore a quella reale. In tali casi, l’operazione è realmente avvenuta, ma la rappresentazione documentale è alterata per “gonfiare” artificialmente il costo, con finalità elusive o fraudolente (sovrafatturazione);
  • ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli che l’hanno concretamente posta in essere, configurando un’alterazione soggettiva della realtà negoziale (inesistenza soggettiva).

A tale tripartizione (inesistenza oggettiva, sovrafatturazione; inesistenza soggettiva), la giurisprudenza di legittimità ha aggiunto una quarta categoria: la c.d. inesistenza giuridica dell’operazione.

Tale forma di inesistenza si verifica quando il negozio giuridico rappresentato nei documenti fiscali è, nella sostanza, diverso da quello effettivamente posto in essere dalle parti.

Nello specifico, la Corte di Cassazione, Sez. Terza Penale, con la sentenza n. 45114/2022, ha così affermato:

«Ai fini dell'esame della questione, appare utile osservare, innanzitutto, che, come più volte affermato dalla giurisprudenza, fatture per operazioni inesistenti sono anche "quelle che si connettono, ad esempio, al compimento di un negozio giuridico apparente diverso da quello realmente intercorso tra le parti (inesistenza giuridica per simulazione relativa)" (cfr., in particolare, Sez. 3, n. 1996 del 25/10/2007, dep. 2008, Figura, Rv. 238547-01, e Sez. 3, n. 1998 del 15/11/2019, dep. 2020, Moiseev, Rv. 278378-01).

A fondamento di questa conclusione si muove dalla disposizione di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 1, comma 1, lettera a), secondo il quale per fatture o altri documenti per operazioni inesistenti si intendono quelli "emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l'imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l'operazione a soggetti diversi da quelli effettivi".

Sulla base di questa previsione normativa, precisamente, si è affermato da tempo il "principio secondo il quale oggetto della sanzione di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2 è ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale, tenuto conto dello speciale coefficiente di insidiosità che si connette all'utilizzazione della falsa fattura" (così, in motivazione §3 dei Motivi della Decisione, Sez. 3, n. 1996 del 25/10/2007, dep. 2008, Figura, Rv. 238547-01).

E, più di recente, si è ribadito e puntualizzato: "La fattura, al pari di tutti gli elementi equipollenti, deve contenere una rappresentazione veritiera di tutti gli elementi in grado di incidere su aspetti fiscalmente rilevanti, sicché assume rilevanza anche l'inesistenza giuridica, la quale si verifica ogniqualvolta la divergenza tra realtà e rappresentazione riguardi la natura della prestazione documentata in fattura (è il caso in cui l'oggetto del negozio giuridico indicato sia diverso da quello effettivamente realizzato) con ciò determinandosi una alterazione del contenuto del documento contabile" (così, in motivazione, § 3 del Considerato in Diritto, Sez. 3, n. 1998 del 15/11/2019, dep. 2020, Moiseev, Rv. 278378-01).».

La suddetta classificazione delle operazioni inesistenti, così come delineata dalla normativa e precisata dalla giurisprudenza, rappresenta il fondamento teorico necessario per valutare, in concreto, le implicazioni fiscali e probatorie che tali operazioni comportano, specie in caso di inesistenza soggettiva.

 

LE OPERAZIONI SOGGETTIVAMENTE INESISTENTI

Tra le diverse tipologie di operazioni inesistenti particolare attenzione merita l’ipotesi dell’inesistenza soggettiva, la quale presenta significative implicazioni in ambito fiscale, ponendo specifiche criticità in ordine all’onere della prova e alla ricostruzione dell’effettiva natura del rapporto tra le parti.

 

DEFINIZIONE E STRUTTURA                               

Le operazioni soggettivamente inesistenti rappresentano una particolare forma di dissimulazione negoziale, in cui l’apparente realtà documentale non corrisponde all’effettivo svolgimento dell’operazione sotto il profilo soggettivo, ossia in relazione all’identità delle parti coinvolte.

A differenza delle operazioni oggettivamente inesistenti, nelle quali manca in tutto o in parte la prestazione stessa, nell’inesistenza soggettiva l’operazione economica si è effettivamente svolta, ma è stata falsificata la qualità soggettiva di uno dei contraenti.

Tanto premesso, occorre brevemente evidenziare come, nell’ambito delle operazioni soggettivamente inesistenti, il medesimo fatto materiale (consistente nell’emissione o nell’utilizzo di fatture inesistenti in senso soggettivo) assume una duplice rilevanza sia nell’ambito del diritto tributario sia in quello del diritto penale.

Ed invero, la suddetta condotta integra – ove ricorrano tutti gli elementi costitutivi della fattispecie delittuosa – l’illecito previsto dall’art. 2 D.Lgs. n. 74/2000, rubricato “Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”.

Tale duplice rilevanza (penale e tributaria) costituisce un tratto distintivo delle operazioni soggettivamente inesistenti, assumendo rilievo sia sul versante sostanziale, per le conseguenze giuridiche che ne derivano, sia su quello processuale, in quanto la stessa condotta è suscettibile di essere sottoposta a valutazione sia da parte del giudice penale sia da parte del giudice tributario.

Per comprendere la rilevanza, in ambito tributario, dell’inesistenza soggettiva delle operazioni economiche, è opportuno muovere dal combinato disposto degli artt. 18, comma 1, e 21, comma 1, D.P.R. n. 633 del 1972, dai quali si evince che l’obbligo di emissione della fattura grava sul soggetto che effettua la cessione di beni o la prestazione di servizi, nei confronti del soggetto che ne è destinatario.

In base a tale assetto normativo, i soggetti tra i quali sorge l’obbligo di fatturazione sono, da un lato, il cedente o prestatore e, dall’altro, il cessionario o committente.

Pertanto, l’inesistenza soggettiva si configura – ed è rilevante ai fini fiscali – ogniqualvolta vi sia una divergenza tra i soggetti effettivamente coinvolti nell’operazione e quelli indicati nei documenti fiscali, anche nel caso in cui l’alterazione riguardi una sola delle parti del rapporto giuridico.

L’elemento rilevante, dunque, è costituito dalla non coincidenza tra i soggetti effettivamente coinvolti nell’operazione economica e quelli formalmente indicati nel documento fiscale.

Come si dirà meglio nel prosieguo, la struttura tipica delle operazioni soggettivamente inesistenti rappresenta il terreno su cui si sviluppano le c.d. “frodi carosello”, la cui comprensione impone un’analisi puntuale delle concrete modalità operative, delle implicazioni tributarie e degli specifici profili probatori.

 

Le frodi carosello: definizione e modalità operative

Come si è anticipato, nelle ipotesi più complesse l’operazione soggettivamente inesistente si colloca all’interno di un sistema composito, caratterizzato da una pluralità di passaggi e da una concatenazione di condotte artificiose. In tale contesto si riscontrano fatturazioni relative a operazioni tanto oggettivamente quanto soggettivamente inesistenti, con l’interposizione di c.d. cartiere, la cui funzione è esclusivamente strumentale alla frode.

È questo il fenomeno delle c.d. “frodi carosello”, definite come una catena di transazioni economiche che intervengono tra soggetti passivi stabiliti in diversi Stati membri dell’UE e collegate tra loro da un comune disegno volto all’evasione dell’IVA mediante l’emissione e l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti.

Questo meccanismo di frode è stato ben descritto dalla Commissione europea nella Relazione della Commissione al Consiglio ed al Parlamento europeo sull’utilizzo degli accordi di cooperazione amministrativa nella lotta antifrode in materia di IVA” del 16 aprile 2004, ove, al punto 3.2.2., così si legge:

«La frode si configura nel seguente modo: una cosiddetta “società intermedia” (A) effettua una fornitura di merci intracomunitaria esente ad una “società fittizia” (B) in un altro Stato membro. La società (B) acquista le merci senza pagare l’IVA e poi effettua una fornitura nazionale ad una terza società (C), denominata “broker”. La “società fittizia” incassa l’IVA sulle vendite fatte al “broker”, ma non versa l’IVA all’Erario e scompare. Il “broker” (C) chiede il rimborso dell’IVA sugli acquisti effettuati presso B. Di conseguenza, la perdita finanziaria per l’Erario è pari all’IVA pagata da C a B. In seguito, la società C può dichiarare una fornitura intracomunitaria esente alla società (A) e quest’ultima può, a sua volta, effettuare una fornitura intracomunitaria esente a (B) ed il ciclo della frode si ripete, e questo spiega l’appellativo di “frode carosello”.

Per sviare le indagini sull’IVA, le merci vengono spesso fornite da (B) a (C) tramite società intermediarie, denominate “società cuscinetto”. Può capitare che la società cuscinetto sia all’oscuro della frode in atto, ma nella maggior parte dei casi è conscia del fatto di essere coinvolta in un tipo di transazione irregolare (data la natura insolita della transazione commerciale).».

È, dunque, evidente che l’elemento attorno al quale ruota l’intero meccanismo della “frode carosello” è costituito dall’omesso versamento dell’IVA da parte del “missing trader” (ossia la società fittizia B).

Tale omissione riveste un ruolo determinante per due ordini di ragioni:

  • in primo luogo, perché, in assenza di essa, l’operazione perderebbe ogni convenienza economica per il “broker” (ossia la società terza C), il quale si troverebbe ad acquistare beni o servizi a condizioni non più favorevoli rispetto al mercato, rendendo antieconomica la condotta della società interposta;
  • in secondo luogo, perché verrebbe meno l’effetto elusivo/fraudolento del meccanismo stesso, atteso che la detrazione operata dal soggetto interponente (c.d. “broker”) troverebbe un corrispettivo nell’imposta regolarmente versata dal fornitore apparente (“missing trader”), escludendo così qualsiasi danno per l’Erario.

In tale contesto, assumono peculiare rilievo i profili della deducibilità dei costi e della detraibilità dell’IVA ai fini della determinazione del reddito.

 

LE IMPLICAZIONI FISCALI: DEDUCIBILITÀ DEI COSTI, DETRAIBILITÀ DELL’IVA  E ONERE PROBATORIO

Nell’ambito delle operazioni soggettivamente inesistenti, i profili relativi alla deducibilità dei costi e alla detraibilità dell’IVA rappresentano aspetti fondamentali, caratterizzati da un complesso equilibrio tra principi fiscali e tutela del contribuente.

Tali aspetti impongono un’attenta analisi alla luce della normativa vigente e della giurisprudenza consolidata, anche con riferimento al riparto dell’onere probatorio tra Amministrazione finanziaria e contribuente, che costituisce elemento centrale ai fini dell’accertamento.

 

Deducibilità dei costi: i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (inserite, o meno, in una “frode carosello”) sono sempre deducibili per il solo fatto che siano stati sostenuti

In merito alla deducibilità dei costi ai fini delle imposte dirette nelle operazioni soggettivamente inesistenti, il dato normativo a cui volgere lo sguardo è l’art. 8 del D.L. n. 16/2012, convertito con modificazioni con L. 44/2012, il quale prevede, con specifico riferimento alle imposte dirette, la deducibilità delle fatture soggettivamente inesistenti.

Nello specifico, l’art. 8, primo comma, D.L. n. 16/2012 (convertito con modificazioni con L. 44/2012) ha modificato l’art. 14, comma 4-bis, della L. n. 537/1993, restringendo l’area di indeducibilità dei “costi da reato” ai soli costi “direttamente utilizzati” per il compimento di atti qualificabili come delitto non colposo e alla condizione che per tale fattispecie il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale con l’espressa attribuzione di efficacia retroattiva alla intervenuta modifica normativa, salvo aggiungere, cripticamente, che “ove del caso” l'indeducibilità dei costi documentati da fatture soggettivamente false può comunque discendere dall'applicabilità di altre disposizioni normative “inerenti i requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinabilità” con evidente richiamo ai requisiti previsti per i componenti negativi o positivi del reddito di impresa dall'art. 109, primo comma, del TUIR.

Di conseguenza, alla luce dell’art. 8 del D.L. n. 16/2012, sono deducibili i costi di fatture emesse da un soggetto diverso da quello che ha realmente effettuato la prestazione o la cessione del bene, a condizione, però, che ricorrano i requisiti generali di deducibilità dei costi previsti dal TUIR (art. 109).

In conformità a tale disposto normativo, la Corte di Cassazione è ormai granitica nel ritenere che, in tema di imposte sui redditi, i costi documentati da fatture soggettivamente inesistenti, purché supportati a fronte di operazioni effettive e reali, sono deducibili dal reddito d’impresa e che il soggetto passivo non può essere sanzionato con il diniego del diritto alla deduzione, anche nel caso di consapevolezza del carattere fraudolento dell’operazione (ex multis: Cass. n. 27566/2018, cit.; Cass. n. 17788/2018; Cass. n. 16528/2018; Cass. n. 25249/2016; Cass. n. 13803/2014; Cass. n. 24426/2013; Cass. n. 12503/13; Cass. n. 10167/12).

In particolare, secondo l’oramai granitico orientamento di legittimità, poiché nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, i beni acquistati - di regola - non sono stati utilizzati direttamente per commettere il reato ma, nella maggior parte dei casi, per essere commercializzati, non è più sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da un soggetto diverso dall’effettivo venditore perchè non siano deducibili, ai fini delle imposte dirette, i costi relativi a dette operazioni; ferma restando, tuttavia, la verifica della concreta deducibilità dei costi stessi in relazione ai requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità.

Tale consolidato principio è stato, da ultimo, affermato dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 33114 del 18 dicembre 2024 (nello stesso senso: Cass. n. 4641/2023; Cass. n. 8480/2022; Cass. n. 4965/2021; Cass. n. 29400/2021; Cass. n. 4645/2020; Cass. n. 32587/2019; Cass. n. 17788/2018), ove i giudici di legittimità hanno così ribadito:

«Indubitabilmente vale il principio secondo cui, "in tema di imposte sui redditi, a norma dell'art. 14, comma 4 bis, della L. n. 537 del 1993, nella formulazione introdotta con l'art. 8, comma 1, del D.L. n. 16 del 2012, conv. Dalla L. n. 44 del 2012, l'acquirente dei beni può dedurre i costi relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti, non utilizzati direttamente per commettere il reato, anche per l'ipotesi in cui sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che, a norma del T.U. delle imposte sui redditi approvato con D.P.R. n. 917 del 1986, siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità" (Sez. 5, Ordinanza n. 11020 del 05/04/2022, Rv. 664285-01).».

In altri termini, in tema di imposte dirette, sono sempre deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (inserite, o meno, in una “frode carosello”), per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità oppure di costi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo.

 

Detraibilità dell’IVA: l’onere probatorio, il principio di buona fede e la massima diligenza esigibile alla luce della giurisprudenza unionale e nazionale

L’inesistenza soggettiva dell’operazione rileva non solo ai fini della deducibilità dei costi, ma incide altresì sul diritto alla detrazione dell’IVA.

In questo ambito, la giurisprudenza unionale e nazionale ha delineato un sistema fondato sul bilanciamento tra l’onere probatorio gravante sull’Amministrazione finanziaria e la tutela della buona fede del soggetto passivo, il quale è tenuto ad adottare la massima diligenza esigibile per evitare il coinvolgimento, anche inconsapevole, in meccanismi evasivi.

 

  • L’onere probatorio gravante sull’Amministrazione finanziaria

In tema di detraibilità dell’IVA, secondo un granitico orientamento di legittimità, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una “frode carosello”, ha l’onere di provare, anche per presunzioni, che l’operazione riportata in fattura non è stata mai posta in essere.

Come meglio si dirà nel prosieguo, a fronte di tale dimostrazione, è onere del contribuente fornire la prova contraria, ossia prova idonea a dimostrare l’effettività dell’operazione.

Più nello specifico, grava sull’Amministrazione finanziaria l’onere di fornire la prova, non solo dell’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche della consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in un’evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente.

Sotto tale specifico profilo, pertanto, l’Amministrazione finanziaria deve provare:

  • l’alterità soggettiva dell’imputazione delle operazioni in forza della fittizia interposizione del soggetto apparente;
  • che il cessionario sapeva, o avrebbe dovuto sapere, che la cessione si inseriva in un meccanismo rivolto all’evasione d’imposta.

Ove l’Amministrazione assolva a detto onere probatorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere agito in buona fede e aver adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi.

Le suesposte considerazioni in materia di IVA riposano sulla costante giurisprudenza della Corte di Giustizia, secondo cui la natura indebita della detrazione si configura nel caso in cui un soggetto passivo avrebbe dovuto sapere di avere preso parte, tramite l’operazione di cui trattasi e, in particolare, con il proprio acquisto, a un’operazione che si iscriveva in un’evasione dell’IVA commessa dal fornitore o da un altro operatore intervenuto a monte o a valle nella catena di cessione.

In tal senso, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea con la sentenza del 1 dicembre 2022, in C-512/21, paragrafi 26 – 33 (nello stesso senso: Corte di Giustizia UE, 19 ottobre 2017, C-101/16; Corte di Giustizia UE, 22 ottobre 2015, C-277/14; Corte di Giustizia UE, 6 settembre 2012, C-324/11), ha affermato che:

«29. A tale riguardo, la Corte ha infatti stabilito che non è compatibile con il regime del diritto a detrazione previsto dalla direttiva 2006/112 sanzionare con il diniego di tale diritto un soggetto passivo che non sapeva e non avrebbe potuto sapere che l'operazione interessata si iscriveva in un'evasione commessa dal fornitore, o che un'altra operazione nell'ambito della catena delle cessioni, anteriore o posteriore a quella realizzata da detto soggetto passivo, era viziata da evasione dell'IVA, posto che l'istituzione di un sistema di responsabilità oggettiva andrebbe al di là di quanto necessario per garantire i diritti dell'Erario (sentenza dell'11 novembre 2021, Ferimet, C-281/20, EU:C:2021:910, punto 49 e giurisprudenza ivi citata).

 

30. Inoltre, secondo una giurisprudenza costante della Corte, poiché il diniego del diritto a detrazione è un'eccezione all'applicazione del principio fondamentale che tale diritto costituisce, incombe alle autorità tributarie dimostrare adeguatamente gli elementi oggettivi che consentono di concludere che il soggetto passivo ha commesso un'evasione dell'IVA o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l'operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in una simile evasione. Spetta poi ai giudici nazionali verificare se le amministrazioni finanziarie interessate abbiano dimostrato l'esistenza di detti elementi oggettivi (sentenza dell'11 novembre 2021, Ferimet, C-281/20, EU:C:2021:910, punto 50 e giurisprudenza ivi citata).

 

31. Poiché il diritto dell'Unione non prevede norme relative alle modalità dell'assunzione delle prove in materia di evasione dell'IVA, tali elementi oggettivi devono essere stabiliti dall'autorità tributaria secondo le norme in materia di prova previste dal diritto nazionale. Tuttavia, tali norme non devono pregiudicare l'efficacia del diritto dell'Unione (sentenza dell'11 novembre 2021, Ferimet, C-281/20, EU:C:2021:910, punto 51 e giurisprudenza ivi citata).

 

32. Dalla giurisprudenza rammentata ai punti da 27 a 31 della presente sentenza deriva che il beneficio del diritto a detrazione può essere negato a tale soggetto passivo solo se, dopo aver proceduto ad una valutazione globale di tutti gli elementi e di tutte le circostanze di fatto del caso di specie, effettuata conformemente alle norme in materia di prova del diritto nazionale, è accertato che quest'ultimo ha commesso un'evasione dell'IVA o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l'operazione invocata a fondamento di tale diritto rientrava in una siffatta evasione. Il beneficio del diritto a detrazione può essere negato solo qualora tali fatti siano stati sufficientemente dimostrati con mezzi che non siano supposizioni (v., in tal senso, sentenza dell'11 novembre 2021, Ferimet, C-281/20, EU:C:2021:910, punto 52 e giurisprudenza ivi citata).

 

33. Se ne deve dedurre che l'autorità tributaria che intende negare il beneficio del diritto a detrazione deve dimostrare in modo adeguato, conformemente alle norme in materia di prova previste dal diritto nazionale e senza pregiudicare l'efficacia del diritto dell'Unione, sia gli elementi oggettivi che provino l'esistenza dell'evasione stessa dell'IVA, sia quelli che dimostrino che il soggetto passivo ha commesso tale evasione o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l'operazione invocata a fondamento di tale diritto rientrava in detta evasione" (…)».

 

Ebbene, in coerenza con le numerose pronunce della Corte di Giustizia, la Corte di Cassazione, con un orientamento ormai granitico (ex multis: Cass. n. 13324/2025; Cass. n. 3949/2025; Cass. n. 16361/2024; Cass. n. 33620/2023; Cass. n. 2922/2022; Cass. n. 15369/2020; Cass. n. 5873/2019; Cass. n. 9851/2018), ha affermato che:

«(…) qualora l'Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attiene ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell'ambito di una frode carosello, incombe sulla stessa l'onere di provare la consapevolezza del destinatario che l'operazione si inseriva in una evasione dell'imposta dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l'ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l'Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un'operazione volta ad evadere l'imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto(…)».

Inoltre, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 8130 del 27 marzo 2025 (nello stesso senso: Cass. n. 13545/2018; Cass. n. 13803/2014), ha chiarito i suesposti principi così affermando: 

«(…) in tema di IVA, in virtù degli artt. 19 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e 17 della Direttiva UE 17 maggio 1977, n. 388, osta al riconoscimento del diritto alla relativa detrazione da parte del cessionario, non soltanto la prova del suo coinvolgimento nella frode fiscale, ma anche quella della mera conoscibilità dell'inserimento dell'operazione in un fenomeno criminoso, volto all'evasione fiscale, la quale sussiste ove il cessionario, pur essendo estraneo alle condotte evasive, ne avrebbe potuto acquisire consapevolezza mediante l'impiego della specifica diligenza professionale richiesta all'operatore economico, avuto riguardo alle concrete modalità e alle condizioni di tempo e di luogo in cui si sono svolti i rapporti commerciali, mentre non occorre anche il conseguimento di un effettivo vantaggio (…)».

In altri termini, esclusi ogni automatismo probatorio o criterio generale predeterminato, l’onere dell’Amministrazione finanziaria sulla consapevolezza del cessionario si incentra nell’individuazione di elementi obbiettivi e specifici in ordine al fatto che il contribuente-cessionario dei beni o dei diritti conoscesse o avrebbe dovuto conoscere, secondo i criteri dell'ordinaria diligenza ed alla luce della qualificata posizione professionale ricoperta, e tenuto conto delle circostanze esistenti al momento della conclusione dell'affare ed afferenti alla sua sfera di azione, che la realtà documentalmente espressa nelle fatture non corrispondeva a quella effettiva.

Con specifico riferimento al “tipo” di prova incombente sull’Amministrazione finanziaria, la giurisprudenza sia unionale che interna ha più volte precisato che essa può ritenersi raggiunta se l’Ufficio fornisce attendibili indizi idonei ad integrare una presunzione semplice, non occorrendo una prova “certa” e “incontrovertibile”.

In altri termini, la prova circa l’oggettiva fittizietà del fornitore e la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in un’evasione dell’imposta può ritenersi raggiunta qualora l’Amministrazione finanziaria fornisca attendibili indizi, idonei ad integrare una presunzione semplice.

 

  • L’onere probatorio gravante sul contribuente: la buona fede e la massima diligenza esigibile

Raggiunta la suddetta prova da parte dell’Ufficio, incombe sul contribuente l’onere di dimostrare, oltre all’effettività del cedente, la propria buona fede, ossia di avere agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto - secondo i criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto - al fine di evitare di essere coinvolto in una tale situazione, in presenza di indizi idonei a far insorgere il sospetto che l’operazione si inseriva in un’evasione dell’imposta.

Sul punto, secondo il consolidato orientamento della Corte di Giustizia (ex multis: Corte di Giustizia UE, 18 maggio 2017, C624/15; Corte di Giustizia, 22 ottobre 2015, C-277/14; Corte di Giustizia UE, 18 dicembre 2014, C-131/13, C-163/13 e C-164/13; Corte di Giustizia UE, 6 dicembre 2012, C-285/11; Corte di Giustizia UE, 21 giugno 2012, C-80/11 e C-142/11; Corte di Giustizia UE, 6 luglio 2006, C-439/04 e C-440/04), deve essere soddisfatta l’esigenza di tutela della buona fede del soggetto passivo, il quale non può essere sanzionato, con il diniego del diritto di detrazione, se non sapeva o non avrebbe potuto sapere di avere preso parte, tramite l’operazione di cui trattasi e, in particolare, con il proprio acquisto, a un’operazione che si iscriveva in un’evasione dell’IVA commessa dal fornitore o da un altro operatore intervenuto a monte o a valle nella catena di cessione.

Per tali ragioni, la giurisprudenza unionale è granitica nel ritenere che:

«(…) sia esigibile da un accorto operatore commerciale l'adozione di tutte le misure che gli si possa ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che l'operazione effettuata non lo conduca a partecipare a una evasione di imposte (Corte di Giustizia UE, 17 dicembre 2020, n. Bakati Plus, C-656/19, punto 80; Corte di Giustizia UE, Corte di Giustizia UE, 17 ottobre 2019, Unitel, C-653/18, punto 33; Corte di Giustizia UE, 28 marzo 2019, Vin, C-275/18, punto 33; Corte di Giustizia UE, 8 novembre 2018, Cartrans Spedition, C-495/17, punto 41; Corte di Giustizia UE, Litdana, cit., punto 34).».

Da tanto ne consegue che, sebbene al destinatario non sia generalmente richiesto di conoscere la struttura e le modalità operative del proprio fornitore, sorge tuttavia un obbligo di verifica, nei limiti dell’esigibile, qualora emergano indizi personali o operativi anomali nell’operazione commerciale o nelle scelte da questi effettuate, tali da far presumere irregolarità e potenziale evasione. Tale obbligo assume maggiore rilievo in considerazione del carattere strutturale e professionale della presenza dell’imprenditore nel settore di mercato in cui opera, nonché dell’aspettativa, fisiologica e ordinaria, che i rapporti commerciali con gli altri operatori siano proficui e destinati a protrarsi nel tempo.

Pertanto, la sussistenza di indizi, suscettibili di far sospettare irregolarità o evasioni nella sfera dell’emittente, impone all’operatore diligente di acquisire adeguate informazioni riguardo al soggetto da cui intende acquistare beni o servizi (ex multis: Cass. n. 21072/2022; Cass. n. 38012/2021; Cass. n. 34531/2021).

In altri termini, la diligenza richiesta a un operatore accorto, al fine di escludere il coinvolgimento in una frode IVA, consiste nell’adozione di tutte le misure necessarie per verificare l’effettiva esistenza del fornitore, sia attraverso un’indagine diretta sulla sua struttura organizzativa, sia mediante un’attenta analisi delle modalità con cui si è sviluppato il rapporto commerciale con l’emittente (Cass., 27 settembre 2022, n. 28165).

Ad ogni modo, come chiarito dalla giurisprudenza unionale e nazionale, la diligenza dovuta dal soggetto passivo e le misure che gli si possono ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che, con il suo acquisto, non possa essere consapevole di un’evasione IVA commessa da un operatore a monte dipendono dalle circostanze del caso di specie e, in particolare, dalla questione se esistano o meno indizi che consentano al soggetto passivo, al momento dell'acquisto da lui effettuato, di sospettare l'esistenza di irregolarità o di una frode (sul punto si veda: CGUE, 11 gennaio 2024, Global Ink Trade, C-537/22, punto 39).

Inoltre, sul tema della diligenza esigibile dal contribuente, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 14102 del 21 maggio 2024, ha evidenziato che l’assenza di cautele del cessionario non può essere provata pretendendo verifiche complesse e approfondite, analoghe a quelle svolte dall’Amministrazione finanziaria con tutti i mezzi a sua disposizione.

Sul punto, con la citata ordinanza citata è stato enunciato il seguente principio di diritto:

«ai fini dell’assolvimento dell’onere della prova della conoscenza o conoscibilità, secondo la massima diligenza esigibile da un accorto operatore professionale, dell’esistenza di una frode IVA consumata a monte della catena produttiva o distributiva, le cautele che si richiede che il concessionario sia tenuto ragionevolmente ad adottare, perché si escluda il suo coinvolgimento, anche solo per colpevole ignoranza, nella frode commessa a monte, non possono attingere a verifiche complesse e approfondite, analoghe a quelle che l’amministrazione finanziaria avrebbe i mezzi per effettuare.».

In altri termini, la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che:

  • il beneficio del diritto alla detrazione può essere negato al soggetto passivo solo se l’Ufficio dimostra la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’IVA o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento di tale diritto rientrava in una siffatta evasione;
  • per l’assolvimento dell’onere probatorio della conoscenza o conoscibilità dell’acquirente della frode consumata dal fornitore, l’Amministrazione non può pretendere che il contribuente svolga verifiche complesse e analoghe a quelle che la stessa Amministrazione può eseguire con i propri mezzi.

In conclusione, il regime della detraibilità dell’IVA in presenza di operazioni soggettivamente inesistenti si configura come il risultato di un bilanciamento sistemico tra il dovere dell’Amministrazione finanziaria di contrastare le frodi fiscali e il diritto del contribuente alla tutela della propria buona fede.

Tale equilibrio si realizza attraverso una distribuzione degli oneri probatori che impone all’Amministrazione finanziaria di fornire elementi oggettivi idonei a dimostrare, anche in via presuntiva, la consapevolezza – o la conoscibilità secondo criteri professionali – della natura fraudolenta dell’operazione da parte del soggetto passivo. A sua volta, il contribuente è chiamato a provare l’adozione di misure diligenti, proporzionate alle circostanze del caso concreto, atte a escludere il proprio coinvolgimento, anche inconsapevole, in condotte elusive.

 

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

Alla luce delle suesposte considerazioni, appare evidente che le operazioni inesistenti costituiscono un tema di grande complessità nell’ambito del diritto tributario, che richiede un attento bilanciamento tra l’esigenza di contrastare efficacemente le frodi fiscali e la tutela dei contribuenti che agiscono in buona fede.

La distinzione tra operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti si traduce in una pluralità di implicazioni che si riflettono soprattutto nel diverso trattamento giuridico e probatorio attribuito a ciascuna tipologia.

In particolare, la giurisprudenza unionale e nazionale è granitica nel ritenere che l’onere probatorio in materia di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti è così ripartito:

  • l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare, anche mediante presunzioni (purché siano connotate dai requisiti di gravità, precisione e concordanza), non solo dell’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche della consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in un’evasione dell’imposta, dimostrando che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente;
  • a fronte di tale dimostrazione, spetta al contribuente dimostrare, oltre all’effettività del cedente, la propria buona fede, ossia di avere agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un'evasione fiscale e con la massima diligenza esigibile da un operatore accorto.

È ben evidente che, nell’ambito delle operazioni soggettivamente inesistenti, la dimostrazione della mala fede del contribuente rappresenta un elemento essenziale ma non sempre agevolmente accertabile.

Proprio questa necessità di bilanciare la repressione delle condotte fraudolenti con la tutela dei diritti del contribuente ha spinto il Legislatore e la giurisprudenza (unionale e nazionale) a definire criteri sempre più rigorosi e precisi.

L’importanza di un sistema probatorio rigoroso e proporzionato si conferma, dunque, fondamentale per garantire un processo equo e per evitare che la lotta contro l’evasione fiscale si traduca in un meccanismo troppo gravoso o punitivo nei confronti di contribuenti che agiscono in buona fede.