x

x

La rinuncia del Pubblico Ministero all’istanza di fallimento

Nota a Tribunale di Firenze - Sezione Terza Civile, Decreto 28 settembre 2011
Con la pronuncia riportata in calce, il Tribunale di Firenze, preso atto delle desistenze poste in essere dai creditori e della rinuncia implicita cui ha dato luogo il comportamento processuale del Pubblico Ministero, dispone l’archiviazione delle domande di fallimento proposte nei confronti di una s.r.l.

La decisione del giudice di merito è di particolare interesse, offrendo una limpida qualificazione del ruolo che il Pubblico Ministero assume nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, qualificazione che risulta ormai essere diritto positivo per effetto del D.lgs n. 5/2006, con il quale il legislatore ha ottemperato alla riforma della materia fallimentare.

La rinnovata Legge Fallimentare, prevedendo l’espunzione dall’ordinamento giuridico di qualsivoglia iniziativa d’ufficio per la dichiarazione di fallimento, oltre alla conseguente posizione di terzietà del giudice fallimentare ed all’attribuzione in capo al p.m. di un potere di iniziativa non generalizzato, ha fatto sì che detti elementi concorressero ad attribuire a quest’ultimo la posizione di vera e propria parte processuale pubblica.

Infatti nella nuova disciplina degli interessi che risultano essere collegati alla crisi dell’imprenditore commerciale, la legislazione in materia fallimentare si è orientata nel senso di confermare la valutazione dell’esistenza di un interesse di tipo pubblico all’accertamento dell’insolvenza, tenuto conto del fatto che quest’ultima può coinvolgere gli interessi economici di un elevato numero di persone che si trovino ad essere in rapporto con l’imprenditore commerciale insolvente e che tale rete di rapporti costituisca un potente mezzo di trasmissione dell’insolvenza ad altri operatori economici.

Tuttavia l’esistenza dell’interesse pubblico all’accertamento dell’insolvenza dell’imprenditore commerciale non si traduce, come nel caso dell’abrogata disciplina del R.D. n. 267/1942, nell’attribuzione in capo al giudice di un potere di procedere d’ufficio o nella riduzione delle garanzie del contraddittorio per l’imprenditore insolvente attraverso la disciplina di un procedimento per la dichiarazione di fallimento di carattere sommario, ma nell’attribuzione all’ufficio del p.m., chiaramente deputato a garantire il rispetto della legge, del potere di azione per l’accertamento dello stato di insolvenza, qualora tale stato risulti a detto ufficio sulla base di notizie qualificate.

Né la tutela dell’interesse pubblico conduce all’attribuzione alla parte pubblica di facoltà processuali che non possono essere attribuite alla parte privata, atteso che nella dialettica processuale, l’interesse pubblico tutelato dall’ufficio attore e quello privato dell’imprenditore a non essere dichiarato fallito, sono posti sullo stesso piano, mentre il giudice terzo ed imparziale è chiamato a dare applicazione alla legge attraverso la propria decisione, senza poter influire in alcun modo sulla stessa natura dell’interesse azionato dalle diverse parti.

Dunque l’intenzione del legislatore è quella di bilanciare l’eliminazione del fallimento d’ufficio con l’attribuzione dell’iniziativa al Pubblico Ministero, bilanciamento che è possibile solo in caso dell’attribuzione di un’iniziativa che sia effettiva e non meramente teorica.

Una volta inserita nella legge fallimentare del 1942 la previsione della legittimazione del p.m. alla presentazione dell’istanza di fallimento, la natura del ruolo a tale organo assegnato, era fortemente caratterizzato dalla concezione di fallimento come luogo ove vengono tutelati interessi che tracendono quelli eminentemente individuali coinvolti nel dissesto di un’impresa.

Un primo tema dibattuto atteneva alla descrizione del Pubblico Ministero quale organo dello Stato che partecipa al processo in qualità di organo di giustizia quale rappresentante (in senso atecnico) di un interesse pubblico all’affermazione di un determinato accertamento giurisdizionale.

Con la conseguenza che la partecipazione di detto ufficio al processo non era espressione della rappresentanza dello Stato amministrazione e neppure di interessi collettivi e superindividuali, quando soggettivizzati, dal momento che in tali occasioni una legittimazione è riconosciuta a soggetti che sono portatori di una corrispondente tutela esponenziale.

Quindi se è vero che la giurisdizione civile ha come paradigma, per ciò che attiene all’iniziativa, il potere di impulso della parte secondo quanto dispone l’art. 2907 cc, il legislatore può solo riservarsi di attribuire anche al p.m. poteri di impulso processuale, purché ciò avvenga in casi predeterminati e tassativamente identificati.

In tale contesto si è soliti affermare che il p.m. esercita l’azione civile non già per far valere un determinato diritto sostanziale di cui non è e non può essere titolare (dato che si è escluso il p.m. come espressione dello Stato amministrazione) ma per vedere affermata la giurisdizione in modo obiettivo.

Nel caso di inziativa, dunque, per la dichiarazione di fallimento (nella visione del 1942) il fine non era all’evidenza del diritto di credito che il creditore-parte vorrebbe vedere tutelato (in via mediata) ma neppure l’insieme dei diritti dei creditori coinvolti nel dissesto, posto che questi diritti non esauriscono gli interessi in gioco.

L’interesse era più ampio, concerneva anche la posizione del debitore come quella dell’intero sistema economico del paese che poteva temere come da un’insolvenza non risolta, potessero derivare altre insolvenze, dispersione di ricchezza e perdita di posti di lavoro.

L’iniziativa del p.m. nasceva dunque senza che vi fosse il cordone ombelicale con un diritto soggettivo sostanziale, talché l’azione tendeva ad essere qualificata come mera azione processuale, spesso connotata dalla replica dei diritti che spettavano alla parte titolare anche del diritto sostanziale, ma talvolta anche contraddistinta da una disomogeneità con la griglia dei diritti e degli obblighi che di regola si applicano alle parti private.

Alla regola della discrezionalità, quindi, deve poi accompagnarsi, come necessario corollario, l’altrettanto stimolante quesito sull’esistenza di una disponibilità da parte del p.m. dell’ azione processuale: può essere questa oggetto di rinuncia?

Proprio in merito a ciò, il Tribunale di Firenze ha avuto modo di prendere posizione, con la pronuncia in esame, nella quale afferma che il Pubblico Ministero è, al pari delle parti private, titolare di un diritto di azione e che questa può essere oggetto di rinuncia.

Rinuncia tanto esplicita, quanto implicita se dedotta dal comportamento processuale del p.m. stesso.

D’altronde la condizione di parità delle parti costituisce principio costituzionale strettamente correlato a quello di terzietà e di imparzialità del giudice e da essa deve trarsi la possibilità che il Pubblico Ministero, sulla base di specifiche valutazioni operate caso per caso, non coltivi la domanda.

Il Tribunale pertanto afferma che l’inerzia del p.m. deve essere valutata come rinuncia implicita alla domanda di fallimento.

Le conseguenze sono di non poco conto, posto che ciò significa applicare al Pubblico Ministero l’intero statuto di parte processuale, seppure portatrice di un interesse pubblico.



TRIBUNALE DI FIRENZE – III SEZIONE CIVILE - DECRETO DEL 28/09/2011.

Fallimento – Iniziativa - Pubblico Ministero – Parte processuale – Rinuncia.

Il rinnovato art. 6 della Legge Fallimentare, così come modificato dal D. Lgs 9 gennaio 2006 n. 5, prevede che la procedura non possa più essere avviata d’ufficio, ma che l’iniziativa spetti necessariamente al debitore, al creditore e al Pubblico Ministero.

Quest’ultimo è pertanto da considerarsi, sia pure per il perseguimento di un interesse pubblico, titolare di un diritto di azione al pari delle altre parti private.

Diritto di azione che può essere passibile di rinuncia, sia esplicita che implicita.

Svolgimento del processo

Il Tribunale, letti gli atti, sentito il giudice relatore, osserva quanto segue.

1. Deve in primo luogo evidenziarsi – con riferimento alle doglianze sollevate dalla debitrice - che la procedura ha avuto uno svolgimento del tutto conforme alle previsioni legislative, e strettamente correlato al succedersi di istanze di fallimento presentate da diversi creditori della YY oltre che dal P.M. e dall’esercizio da parte del Collegio dei poteri ufficiosi previsti dall’art. 15 L.F.

La prima istanza di fallimento è del 12.10.2010 della AA srl, desistita il 29.12.2010 (con archiviazione pronunciata il 5-10 gennaio 2011) dopo che era stata avanzata il 25.11.2010 richiesta di fallimento da parte del P.M. E’ seguita istanza di fallimento del 17.5.2011 de BB spa, desistita il 30.5.2011, seguita da istanza di fallimento di CC del 14.6.2011, desistita il 7.7.2011.

Tale succedersi di istanze costituivano manifestazione di inadempimenti che ai sensi dell’art. 5 LF portavano elementi di conferma di quello stato di insolvenza dedotto altresì dal P.M. e negato dalla memoria della difesa YY.

Il Tribunale ha ritenuto opportuno – facendo uso dei poteri ufficiosi previsti dall’art. 15 LF (che menziona esplicitamente la possibilità di ammissione d’ufficio di mezzi istruttori) - acquisire elementi di valutazione in specie in relazione alla memoria con documenti prodotti dalla debitrice e alla sintetica risposta fornita dalla Guardia di Finanza alla richiesta del Tribunale, sulla base dell’ esame dei documenti forniti dall’amministratore. In tal modo il Tribunale ha potuto avere puntuale contezza (ciò che sovente avviene nelle procedure) dei debiti scaduti esistenti verso l’Erario nonché verso INAIL ed INPS. Successivamente, all’udienza del 28.9.2011 YY ha dedotto e quindi documentato la presentazione di istanze di rateizzazione di tali debiti presentante il 27.9.2011 (nelle more del deposito della presente decisione sono stati altresì depositate le missive di Equitalia relative all’accoglimento di dette istanze rispettivamente per gli importi di € 702.649,64 e 554.424,45).

Motivi della decisione

2. Tanto premesso, con riferimento alla prima eccezione sollevata dalla difesa YY circa l’attuale carenza di domande di fallimento, va rilevato che le istanze presentate dalle parti private sono state tutte seguite da espliciti atti di desistenza.

Quanto alla domanda del Pubblico Ministero la debitrice rileva che questi – quale unica attuale parte istante – mai è comparso e mai ha coltivato la propria richiesta così da doversi ritenere intervenuta rinuncia alla domanda. A tal fine evidenzia che il P.M non ha minimamente coltivato la propria iniziativa, non avendo partecipato ad alcuna delle udienze, non avendo redatto scritti e/o difese e non avendo chiesto di provare alcunché.

Rileva il Tribunale che con la modifica dell’art. 6 della legge fallimentare del 2006 L.F., è stata soppressa la possibilità che la procedura sia aperta di ufficio, lasciando la iniziativa al riguardo al debitore, al creditore e al pubblico ministero. Il Pubblico Ministero è dunque, al pari delle parti private, sia pure per il perseguimento di un interesse pubblico, titolare di un diritto di azione. In virtù degli artt. 69 e 72 c.p.c., ha gli stessi poteri delle parti, e malgrado la natura pubblicistica dell’interesse che presiede all’esercizio dell’azione, deve ritenersi assimilato alle altre parti circa la libertà – e corrispondenti oneri - di far valere i suoi poteri, fino al punto di legittimare la disponibilità da parte sua della mera azione processuale (fuor di questione essendo ogni rinuncia alla pretesa sostanziale). D’altronde una tale rinuncia non avrebbe carattere definitivo considerato che all’esito del procedimento, in ipotesi di desistenza, come di rinuncia, non si forma alcun giudicato, potendo il ricorso essere riproposto senza limiti (ovviamente ove ne siano i presupposti normativi), senza pregiudizio dunque per gli interessi pubblicistici sottesi.

D’altronde la condizione di parità delle parti costituisce principio costituzionale strettamente correlato a quello della terzietà ed imparzialità del giudice (in conformità del quale la nuova formulazione dell’art. 6 non prevede più, come già ricordato, la procedibilità d’ufficio), e da essa deve trarsi la possibilità per il Pubblico Ministero, sulla base delle specifiche valutazioni che egli faccia di ciascun caso e delle risultanze e sviluppi processuali, di non coltivare o di abbandonare la domanda. Ritiene di conseguenza il Tribunale che debba ritenersi giuridicamente ammissibile la rinuncia agli atti da parte del P.M, rinuncia che, al pari di quanto avviene per ogni parte processuale, può essere tanto esplicita quanto implicita.

Deve quindi valutarsi in concreto se nel caso di specie sia ravvisabile una rinuncia implicita come eccepito dalla debitrice.

Osserva il Collegio che il P.M. aveva formulato la propria istanza di fallimento deducendo che la YY aveva chiuso il bilancio del 2008 con una perdita di oltre € 1,6 milioni di euro e il bilancio del 2009 con una perdita di oltre 1,3 milioni di euro, oltre ad aver subito il protesto di cambiali per quasi € 40.000.

A tale istanza è seguito il deposito di una memoria difensiva della debitrice accompagnata da documentazione e da una relazione del proprio tecnico di parte, dott. zz, che ha illustrato il rapporto tra le perdite e il capitale sociale negando lo stato di insolvenza. A tali allegazioni sono seguiti approfondimenti istruttori – già sopra riferiti – oltre che la presentazione di istanze di fallimento private, seguite da desistenze. Si sono inoltre tenute tre udienze collegiali, a nessuna delle quali il Pubblico Ministero è intervenuto, nonostante la rituale comunicazione della fissazione di ciascuna di essa, senza che il P.M abbia depositato proprie osservazioni o deduzioni, o esito di eventuali accertamenti che il Pubblico Ministero ben può di norma effettuare avvalendosi della Polizia Giudiziaria, a supporto dell’onere probatorio dal quale è gravato, ed al quale non deve necessariamente ovviarsi tramite i poteri ufficiosi del Tribunale.

Tanto premesso ritiene il Tribunale che a fronte del deposito da parte di tutti i debitori istanti di atti di desistenza, sintomatici della capacità della società debitrice di trovare un accordo con i propri creditori; della prova della circostanza che le cambiali menzionate dal Pubblico Ministero sono state restituite alla YY, con conseguente venir meno di uno dei motivi dedotti a sostegno della domanda; della sussistenza di un piano di ristrutturazione aziendale (nelle note difensive depositate all’udienza del 28.9.2011 si espone che Y, amministratore unico entrato in carica il 28.2.2011 – e dunque successivamente alla domanda del P.M.- una volta presa contezza della situazione aziendale creatasi nei mesi precedenti e dei fatti di gestione già posti in essere dal precedente organo amministrativo si è adoperato per definire in modo organico e compiuto un piano di riorganizzazione aziendale - specificamente descritto fornendo documentazione di riscontro) e della rateizzazione dei debiti vantati da Equitalia, l’inerzia del Pubblico Ministero nel coltivare la domanda debba essere valutata come rinuncia implicita alla stessa. Difatti a fronte degli elementi predetti la condotta di mancata presentazione alle udienze e di mancanza di svolgimento di deduzioni e di formulazione di richieste istruttorie in relazione alle emergenze e vicende processuali risulta incompatibile con la volontà di proseguire, attualmente, nella domanda proposta.

Va infine rilevato che la rinuncia all’istanza di fallimento non richiede alcuna forma di accettazione del debitore (Cass. 18620/2010).

Per tali motivi deve essere dunque disposta l’archiviazione (Cass. 21834/2009 e 3472/2011) delle domande di fallimento proposte nei confronti di YY srl, non ravvisandosi i presupposti per una pronuncia di condanna alle spese, in relazione alla natura del provvedimento adottato, oltre che in ragione del fatto che ad esso si perviene per desistenze depositate dai debitori e in relazione alla rinuncia implicita da parte del Pubblico Ministero, parte pubblica.

P.Q.M.

Dispone l’archiviazione della domanda di fallimento di YYY srl avanzata dal P.M. nonché da BB e CC.

Con la pronuncia riportata in calce, il Tribunale di Firenze, preso atto delle desistenze poste in essere dai creditori e della rinuncia implicita cui ha dato luogo il comportamento processuale del Pubblico Ministero, dispone l’archiviazione delle domande di fallimento proposte nei confronti di una s.r.l.

La decisione del giudice di merito è di particolare interesse, offrendo una limpida qualificazione del ruolo che il Pubblico Ministero assume nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, qualificazione che risulta ormai essere diritto positivo per effetto del D.lgs n. 5/2006, con il quale il legislatore ha ottemperato alla riforma della materia fallimentare.

La rinnovata Legge Fallimentare, prevedendo l’espunzione dall’ordinamento giuridico di qualsivoglia iniziativa d’ufficio per la dichiarazione di fallimento, oltre alla conseguente posizione di terzietà del giudice fallimentare ed all’attribuzione in capo al p.m. di un potere di iniziativa non generalizzato, ha fatto sì che detti elementi concorressero ad attribuire a quest’ultimo la posizione di vera e propria parte processuale pubblica.

Infatti nella nuova disciplina degli interessi che risultano essere collegati alla crisi dell’imprenditore commerciale, la legislazione in materia fallimentare si è orientata nel senso di confermare la valutazione dell’esistenza di un interesse di tipo pubblico all’accertamento dell’insolvenza, tenuto conto del fatto che quest’ultima può coinvolgere gli interessi economici di un elevato numero di persone che si trovino ad essere in rapporto con l’imprenditore commerciale insolvente e che tale rete di rapporti costituisca un potente mezzo di trasmissione dell’insolvenza ad altri operatori economici.

Tuttavia l’esistenza dell’interesse pubblico all’accertamento dell’insolvenza dell’imprenditore commerciale non si traduce, come nel caso dell’abrogata disciplina del R.D. n. 267/1942, nell’attribuzione in capo al giudice di un potere di procedere d’ufficio o nella riduzione delle garanzie del contraddittorio per l’imprenditore insolvente attraverso la disciplina di un procedimento per la dichiarazione di fallimento di carattere sommario, ma nell’attribuzione all’ufficio del p.m., chiaramente deputato a garantire il rispetto della legge, del potere di azione per l’accertamento dello stato di insolvenza, qualora tale stato risulti a detto ufficio sulla base di notizie qualificate.

Né la tutela dell’interesse pubblico conduce all’attribuzione alla parte pubblica di facoltà processuali che non possono essere attribuite alla parte privata, atteso che nella dialettica processuale, l’interesse pubblico tutelato dall’ufficio attore e quello privato dell’imprenditore a non essere dichiarato fallito, sono posti sullo stesso piano, mentre il giudice terzo ed imparziale è chiamato a dare applicazione alla legge attraverso la propria decisione, senza poter influire in alcun modo sulla stessa natura dell’interesse azionato dalle diverse parti.

Dunque l’intenzione del legislatore è quella di bilanciare l’eliminazione del fallimento d’ufficio con l’attribuzione dell’iniziativa al Pubblico Ministero, bilanciamento che è possibile solo in caso dell’attribuzione di un’iniziativa che sia effettiva e non meramente teorica.

Una volta inserita nella legge fallimentare del 1942 la previsione della legittimazione del p.m. alla presentazione dell’istanza di fallimento, la natura del ruolo a tale organo assegnato, era fortemente caratterizzato dalla concezione di fallimento come luogo ove vengono tutelati interessi che tracendono quelli eminentemente individuali coinvolti nel dissesto di un’impresa.

Un primo tema dibattuto atteneva alla descrizione del Pubblico Ministero quale organo dello Stato che partecipa al processo in qualità di organo di giustizia quale rappresentante (in senso atecnico) di un interesse pubblico all’affermazione di un determinato accertamento giurisdizionale.

Con la conseguenza che la partecipazione di detto ufficio al processo non era espressione della rappresentanza dello Stato amministrazione e neppure di interessi collettivi e superindividuali, quando soggettivizzati, dal momento che in tali occasioni una legittimazione è riconosciuta a soggetti che sono portatori di una corrispondente tutela esponenziale.

Quindi se è vero che la giurisdizione civile ha come paradigma, per ciò che attiene all’iniziativa, il potere di impulso della parte secondo quanto dispone l’art. 2907 cc, il legislatore può solo riservarsi di attribuire anche al p.m. poteri di impulso processuale, purché ciò avvenga in casi predeterminati e tassativamente identificati.

In tale contesto si è soliti affermare che il p.m. esercita l’azione civile non già per far valere un determinato diritto sostanziale di cui non è e non può essere titolare (dato che si è escluso il p.m. come espressione dello Stato amministrazione) ma per vedere affermata la giurisdizione in modo obiettivo.

Nel caso di inziativa, dunque, per la dichiarazione di fallimento (nella visione del 1942) il fine non era all’evidenza del diritto di credito che il creditore-parte vorrebbe vedere tutelato (in via mediata) ma neppure l’insieme dei diritti dei creditori coinvolti nel dissesto, posto che questi diritti non esauriscono gli interessi in gioco.

L’interesse era più ampio, concerneva anche la posizione del debitore come quella dell’intero sistema economico del paese che poteva temere come da un’insolvenza non risolta, potessero derivare altre insolvenze, dispersione di ricchezza e perdita di posti di lavoro.

L’iniziativa del p.m. nasceva dunque senza che vi fosse il cordone ombelicale con un diritto soggettivo sostanziale, talché l’azione tendeva ad essere qualificata come mera azione processuale, spesso connotata dalla replica dei diritti che spettavano alla parte titolare anche del diritto sostanziale, ma talvolta anche contraddistinta da una disomogeneità con la griglia dei diritti e degli obblighi che di regola si applicano alle parti private.

Alla regola della discrezionalità, quindi, deve poi accompagnarsi, come necessario corollario, l’altrettanto stimolante quesito sull’esistenza di una disponibilità da parte del p.m. dell’ azione processuale: può essere questa oggetto di rinuncia?

Proprio in merito a ciò, il Tribunale di Firenze ha avuto modo di prendere posizione, con la pronuncia in esame, nella quale afferma che il Pubblico Ministero è, al pari delle parti private, titolare di un diritto di azione e che questa può essere oggetto di rinuncia.

Rinuncia tanto esplicita, quanto implicita se dedotta dal comportamento processuale del p.m. stesso.

D’altronde la condizione di parità delle parti costituisce principio costituzionale strettamente correlato a quello di terzietà e di imparzialità del giudice e da essa deve trarsi la possibilità che il Pubblico Ministero, sulla base di specifiche valutazioni operate caso per caso, non coltivi la domanda.

Il Tribunale pertanto afferma che l’inerzia del p.m. deve essere valutata come rinuncia implicita alla domanda di fallimento.

Le conseguenze sono di non poco conto, posto che ciò significa applicare al Pubblico Ministero l’intero statuto di parte processuale, seppure portatrice di un interesse pubblico.



TRIBUNALE DI FIRENZE – III SEZIONE CIVILE - DECRETO DEL 28/09/2011.

Fallimento – Iniziativa - Pubblico Ministero – Parte processuale – Rinuncia.

Il rinnovato art. 6 della Legge Fallimentare, così come modificato dal D. Lgs 9 gennaio 2006 n. 5, prevede che la procedura non possa più essere avviata d’ufficio, ma che l’iniziativa spetti necessariamente al debitore, al creditore e al Pubblico Ministero.

Quest’ultimo è pertanto da considerarsi, sia pure per il perseguimento di un interesse pubblico, titolare di un diritto di azione al pari delle altre parti private.

Diritto di azione che può essere passibile di rinuncia, sia esplicita che implicita.

Svolgimento del processo

Il Tribunale, letti gli atti, sentito il giudice relatore, osserva quanto segue.

1. Deve in primo luogo evidenziarsi – con riferimento alle doglianze sollevate dalla debitrice - che la procedura ha avuto uno svolgimento del tutto conforme alle previsioni legislative, e strettamente correlato al succedersi di istanze di fallimento presentate da diversi creditori della YY oltre che dal P.M. e dall’esercizio da parte del Collegio dei poteri ufficiosi previsti dall’art. 15 L.F.

La prima istanza di fallimento è del 12.10.2010 della AA srl, desistita il 29.12.2010 (con archiviazione pronunciata il 5-10 gennaio 2011) dopo che era stata avanzata il 25.11.2010 richiesta di fallimento da parte del P.M. E’ seguita istanza di fallimento del 17.5.2011 de BB spa, desistita il 30.5.2011, seguita da istanza di fallimento di CC del 14.6.2011, desistita il 7.7.2011.

Tale succedersi di istanze costituivano manifestazione di inadempimenti che ai sensi dell’art. 5 LF portavano elementi di conferma di quello stato di insolvenza dedotto altresì dal P.M. e negato dalla memoria della difesa YY.

Il Tribunale ha ritenuto opportuno – facendo uso dei poteri ufficiosi previsti dall’art. 15 LF (che menziona esplicitamente la possibilità di ammissione d’ufficio di mezzi istruttori) - acquisire elementi di valutazione in specie in relazione alla memoria con documenti prodotti dalla debitrice e alla sintetica risposta fornita dalla Guardia di Finanza alla richiesta del Tribunale, sulla base dell’ esame dei documenti forniti dall’amministratore. In tal modo il Tribunale ha potuto avere puntuale contezza (ciò che sovente avviene nelle procedure) dei debiti scaduti esistenti verso l’Erario nonché verso INAIL ed INPS. Successivamente, all’udienza del 28.9.2011 YY ha dedotto e quindi documentato la presentazione di istanze di rateizzazione di tali debiti presentante il 27.9.2011 (nelle more del deposito della presente decisione sono stati altresì depositate le missive di Equitalia relative all’accoglimento di dette istanze rispettivamente per gli importi di € 702.649,64 e 554.424,45).

Motivi della decisione

2. Tanto premesso, con riferimento alla prima eccezione sollevata dalla difesa YY circa l’attuale carenza di domande di fallimento, va rilevato che le istanze presentate dalle parti private sono state tutte seguite da espliciti atti di desistenza.

Quanto alla domanda del Pubblico Ministero la debitrice rileva che questi – quale unica attuale parte istante – mai è comparso e mai ha coltivato la propria richiesta così da doversi ritenere intervenuta rinuncia alla domanda. A tal fine evidenzia che il P.M non ha minimamente coltivato la propria iniziativa, non avendo partecipato ad alcuna delle udienze, non avendo redatto scritti e/o difese e non avendo chiesto di provare alcunché.

Rileva il Tribunale che con la modifica dell’art. 6 della legge fallimentare del 2006 L.F., è stata soppressa la possibilità che la procedura sia aperta di ufficio, lasciando la iniziativa al riguardo al debitore, al creditore e al pubblico ministero. Il Pubblico Ministero è dunque, al pari delle parti private, sia pure per il perseguimento di un interesse pubblico, titolare di un diritto di azione. In virtù degli artt. 69 e 72 c.p.c., ha gli stessi poteri delle parti, e malgrado la natura pubblicistica dell’interesse che presiede all’esercizio dell’azione, deve ritenersi assimilato alle altre parti circa la libertà – e corrispondenti oneri - di far valere i suoi poteri, fino al punto di legittimare la disponibilità da parte sua della mera azione processuale (fuor di questione essendo ogni rinuncia alla pretesa sostanziale). D’altronde una tale rinuncia non avrebbe carattere definitivo considerato che all’esito del procedimento, in ipotesi di desistenza, come di rinuncia, non si forma alcun giudicato, potendo il ricorso essere riproposto senza limiti (ovviamente ove ne siano i presupposti normativi), senza pregiudizio dunque per gli interessi pubblicistici sottesi.

D’altronde la condizione di parità delle parti costituisce principio costituzionale strettamente correlato a quello della terzietà ed imparzialità del giudice (in conformità del quale la nuova formulazione dell’art. 6 non prevede più, come già ricordato, la procedibilità d’ufficio), e da essa deve trarsi la possibilità per il Pubblico Ministero, sulla base delle specifiche valutazioni che egli faccia di ciascun caso e delle risultanze e sviluppi processuali, di non coltivare o di abbandonare la domanda. Ritiene di conseguenza il Tribunale che debba ritenersi giuridicamente ammissibile la rinuncia agli atti da parte del P.M, rinuncia che, al pari di quanto avviene per ogni parte processuale, può essere tanto esplicita quanto implicita.

Deve quindi valutarsi in concreto se nel caso di specie sia ravvisabile una rinuncia implicita come eccepito dalla debitrice.

Osserva il Collegio che il P.M. aveva formulato la propria istanza di fallimento deducendo che la YY aveva chiuso il bilancio del 2008 con una perdita di oltre € 1,6 milioni di euro e il bilancio del 2009 con una perdita di oltre 1,3 milioni di euro, oltre ad aver subito il protesto di cambiali per quasi € 40.000.

A tale istanza è seguito il deposito di una memoria difensiva della debitrice accompagnata da documentazione e da una relazione del proprio tecnico di parte, dott. zz, che ha illustrato il rapporto tra le perdite e il capitale sociale negando lo stato di insolvenza. A tali allegazioni sono seguiti approfondimenti istruttori – già sopra riferiti – oltre che la presentazione di istanze di fallimento private, seguite da desistenze. Si sono inoltre tenute tre udienze collegiali, a nessuna delle quali il Pubblico Ministero è intervenuto, nonostante la rituale comunicazione della fissazione di ciascuna di essa, senza che il P.M abbia depositato proprie osservazioni o deduzioni, o esito di eventuali accertamenti che il Pubblico Ministero ben può di norma effettuare avvalendosi della Polizia Giudiziaria, a supporto dell’onere probatorio dal quale è gravato, ed al quale non deve necessariamente ovviarsi tramite i poteri ufficiosi del Tribunale.

Tanto premesso ritiene il Tribunale che a fronte del deposito da parte di tutti i debitori istanti di atti di desistenza, sintomatici della capacità della società debitrice di trovare un accordo con i propri creditori; della prova della circostanza che le cambiali menzionate dal Pubblico Ministero sono state restituite alla YY, con conseguente venir meno di uno dei motivi dedotti a sostegno della domanda; della sussistenza di un piano di ristrutturazione aziendale (nelle note difensive depositate all’udienza del 28.9.2011 si espone che Y, amministratore unico entrato in carica il 28.2.2011 – e dunque successivamente alla domanda del P.M.- una volta presa contezza della situazione aziendale creatasi nei mesi precedenti e dei fatti di gestione già posti in essere dal precedente organo amministrativo si è adoperato per definire in modo organico e compiuto un piano di riorganizzazione aziendale - specificamente descritto fornendo documentazione di riscontro) e della rateizzazione dei debiti vantati da Equitalia, l’inerzia del Pubblico Ministero nel coltivare la domanda debba essere valutata come rinuncia implicita alla stessa. Difatti a fronte degli elementi predetti la condotta di mancata presentazione alle udienze e di mancanza di svolgimento di deduzioni e di formulazione di richieste istruttorie in relazione alle emergenze e vicende processuali risulta incompatibile con la volontà di proseguire, attualmente, nella domanda proposta.

Va infine rilevato che la rinuncia all’istanza di fallimento non richiede alcuna forma di accettazione del debitore (Cass. 18620/2010).

Per tali motivi deve essere dunque disposta l’archiviazione (Cass. 21834/2009 e 3472/2011) delle domande di fallimento proposte nei confronti di YY srl, non ravvisandosi i presupposti per una pronuncia di condanna alle spese, in relazione alla natura del provvedimento adottato, oltre che in ragione del fatto che ad esso si perviene per desistenze depositate dai debitori e in relazione alla rinuncia implicita da parte del Pubblico Ministero, parte pubblica.

P.Q.M.

Dispone l’archiviazione della domanda di fallimento di YYY srl avanzata dal P.M. nonché da BB e CC.