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La soluzione proposta dalla Cassazione in materia di risarcimento danni per morte o lesioni da circolazione stradale: un rimedio peggiore del male

“Alle cause relative al risarcimento dei danni da morte o lesioni, conseguenti ad incidenti stradali, si applicano le norme processuali di cui al libro II, titolo IV, capo I del codice di procedura civile.”

Così il legislatore, con l’art. 3 della legge 21 febbraio 2006 n. 102, ha innovato la tutela giurisdizionale dei diritti dei danneggiati per morte o lesioni da circolazione stradale.

Sin dall’emanazione della norma è stato rilevato, da più parti e nelle sedi più diverse, che “… l’intervento legislativo sia frutto di un’autentica improvvisazione normativa ed espressione di una scelta niente affatto ponderata …”[1] e che l’innovazione avrebbe creato più problemi che benefici, tanto da indurre il legislatore (sia quello della XV legislatura e sia quello dell’attuale XVI legislatura) a farne prevedere l’abrogazione[2] .

In particolare, la formulazione della norma, con il rinvio all’intero blocco di norme concernenti il processo del lavoro (dall’art. 409 all’art. 441 del codice di procedura civile), ha indotto gli interpreti a dubitare che il legislatore abbia voluto lasciare immutata la previgente normativa in materia di competenza per valore e materia, invece che attribuire la competenza in subiecta materia in via esclusiva al Giudice del Lavoro presso il Tribunale.

Dopo circa due anni e mezzo dall’entrata in vigore, a seguito di un conflitto di competenza sollevato dal Tribunale di Reggio Calabria con ordinanza del 3 ottobre 2007, è intervenuta la Corte di Cassazione che, con ordinanza 7 agosto 2008 n. 21418, ha dato la propria interpretazione dell’art. 3 citato.

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Il Giudice di Pace di Reggio Calabria, dovendo decidere un giudizio per risarcimento danni per lesioni personali da circolazione stradale, dichiarava la propria incompetenza.

Tale pronuncia veniva fondata sul rilievo che l’art.3 della legge n. 102/ 2006 avesse attribuito al Tribunale in funzione di Giudice del Lavoro la competenza esclusiva in tema al risarcimento dei danni per morte o lesioni da incidenti stradali e così modificando la previsione contenuta nell’art. 7 comma 2° c.p.c..

Il Tribunale di Reggio Calabria, innanzi al quale il giudizio era stato riassunto, con ordinanza del 3/10/2007, richiedeva d’ufficio il regolamento di competenza sollevava conflitto di competenza, ritenendo che il provvedimento declinatorio della competenza fosse erroneo.

La Corte di Cassazione, con ordinanza 7 agosto 2008 n. 21418, in accoglimento dell’istanza di regolamento, ha dichiarato la competenza del Giudice di Pace di Reggio Calabria, fissando il seguente principio di diritto:

“Deve escludersi che la norma dell’art. 3 della l. n. 102 del 2006, nel prevedere che alle cause relative al risarcimento dei danni per morte o lesioni, conseguenti ad incidenti stradali, si applicano le norme processuali di cui al libro II, titolo IV, capo I del codice di procedura civile, abbia attribuito al Tribunale la competenza su tali cause, così sottraendole alla previsione di competenza del giudice di pace per materia con il limite di valore, di cui all’art. 7, secondo comma c.p.c.. “.

Con la medesima decisione la Corte ha, inoltre, chiarito che:

“Deve escludersi che l’intentio legis di cui è espressione l’art. 3 si sia voluta indirizzare nel senso di disporre l’applicabilità delle norme del c.d. rito del lavoro anche quando le cennate controversie debbano essere trattate dinanzi il al giudice di pace, onde la norma in discorso si deve intendere riferita soltanto all’ipotesi di causa davanti al tribunale”.

In definitiva e secondo la Cassazione, a sensi dell’art. 3, i giudizi in materia di incidentistica stradale per danni da morte o lesioni vanno proposti, nel rispetto della competenza per valore di cui all’art. 7 c.p.c., al giudice di pace con rito ordinario ed al tribunale (non in funzione di giudice del lavoro) con il rito del lavoro.

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Tutt’altro che convincente si rivela la decisione della Corte e la interpretazione proposta, per più versi, produce conseguenze più gravi di quelle che hanno dato luogo alla stessa decisione.

In particolare, la Corte pone a sostegno della decisione sette distinti motivi.

1 - Secondo il primo motivo l’estensione del “rito del lavoro” al giudice di pace incontrerebbe un limite nel carattere “estremamente formalizzato” di tale rito tanto da renderlo incompatibile con l’esercizio della giurisdizione da parte di un giudice “… onorario …”.

L’argomento utilizzato (oltre che ingiustificatamente irriverente nei confronti di una componente ormai essenziale del sistema giurisdizionale) è del tutto privo di rilevanza in quanto la soluzione del thema decidendum non presuppone la valutazione delle capacità del giudice ritenuto di volta in volta competente.

D’altra parte, non esiste un principio codificato secondo cui al giudice di pace (ed al magistrato onorario in generale) non possano essere assegnati affari da trattare con il “rito del lavoro”[3].

2 - Con la seconda e la terza argomentazione la Corte ritiene di poter escludere l’utilizzabilità del “rito del lavoro” da parte del giudice di pace onde rispettare il principio di coerenza con le intenzioni del legislatore di assegnare ai giudizi di cui all’art. 3 un “… rito più celere di quello ordinario …”.

E ciò sia perché il “rito del lavoro” costituirebbe “… uno strumento processuale più sofisticato e, quindi, più difficile da gestire per il giudice non togato [anche qui con evidente scarso rispetto] …” e sia perché il rito ordinario innanzi il giudice di pace è già di per sé caratterizzato da concentrazione, speditezza e semplificazione di forme di grado maggiore rispetto al “rito del lavoro”.

Anche queste motivazioni risultano, però, inaccettabili sia perchè del tutto prive di collegamento con il contenuto della norma in esame e sia perché confonde il dettato normativo con il risultato della sua applicazione.

Se il legislatore avesse riscontrato il rispetto delle proprie intenzioni (assegnazione ai giudizi di cui all’art. 3 un iter processuale più veloce) nel rito ordinario già assegnato al giudice di pace avrebbe adottato una normativa diversa o, addirittura, avrebbe esteso al tribunale il rito ordinario del giudice di pace …!

3 - Con la quarta motivazione la Corte sembra voler ancora escludere l’applicabilità del “rito del lavoro” ai giudizi innanzi il giudice di pace per effetto di quanto disposto dall’art. 40 comma 3° c.p.c..

In realtà, il riferimento operato dalla Corte, lungi dall’essere risolutivo o concorrentemente tale, introduce un argomento utilizzabile esclusivamente per porre in evidenza la maldestra formulazione della norma in esame.

Se l’art. 3 richiama tutte le norme proprie del “rito del lavoro”, per effetto dell’art. 40 comma 3°, il giudizio in cui siano stati richiesti danni a persona ed a cose dovrà essere trattato con il solo rito speciale, mentre prevarrà il rito ordinario (coincidente con quello applicabile nei casi di richiesta di risarcimenti per danni soltanto a cose) se si dovesse ritenere non ricorrente una ipotesi di contestuale proposizione di un giudizio rientrante tra quelli indicati “… negli articoli 409 e 442 ...”.

Così che, ove dovesse essere ritenuta più corretta la seconda interpretazione, le intenzioni del legislatore se ne andrebbero … a pallino …, risultando discriminante, per la scelta del rito, la categoria di giudizi per danni a cose cui lo stesso legislatore non ha riconosciuto alcun privilegio … e ciò anche per i giudizi di competenza per valore del tribunale …!

4 - La Corte ha espressamente definito “… argomento decisivo …” la circostanza secondo cui, a sensi dell’art. 311 c.p.c., il rinvio alle “… norme relative al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica …” avrebbe natura di “… c.d. metanorma, cioè di norma sul modo di legiferare in ordine al rito processuale applicabile in genere dinnanzi a quel giudice …”.

Questo “…decisivo …” motivo non contiene, però, alcuna indicazione delle ragioni che impedirebbero al giudice di pace di trattare i giudizi di cui all’art. 3 con il “rito del lavoro”, tanto più se si consideri che, se l’art. 3 dovesse essere considerato non direttamente incidente sul rito da osservare innanzi il giudice di pace, l’innovazione introdotta dallo stesso art. 3 per i giudizi innanzi il giudice monocratico presso il tribunale diverrebbe estensibile al giudice di pace proprio per effetto del rinvio di cui all’art. 311 c.p.c. …!

5 - Precisa la Corte che “… nessun lume sulle questioni interpretative … è venuto dalla recente ord. n. 280 del 2008 della Corte Costituzionale …” in quanto meramente dichiarativa di inammissibilità.

Eppure la q.l.c. sollevata dal Giudice di Pace di Alcamo con ordinanza del 14/5/2007 era ed è di certa rilevanza.

Secondo il giudice rimettente la q.l.c. consisterebbe nella disparità dei termini utilizzabili dalle parti convenute nei giudizi assoggettati al rito del lavoro, rispetto a quelli più ampi utilizzabili nei giudizi assoggettati al rito ordinario.

Qui ci si limita ad osservare l’incongruenza derivante:

a) dall’immotivata assegnazione alle parti convenute di termini minimi differenziati,

b1) dalla predisposizione delle difese (70 giorni nel rito ordinario, arg. ex artt. 163 bis comma 1° e 166 c.p.c., e 20 giorni nel rito del lavoro, arg. ex artt. 415 comma 5° e 416 comma 1° c.p.c.) e

c) dalla costituzione (20 giorni nel rito ordinario, cfr. art. 166 c.p.c., e 10 giorni nel rito del lavoro, cfr. art. 416 c.p.c.), nonostante la maggior complessità ed importanza dei giudizi oggetto della norma in esame rispetto a quelli aventi ad oggetto soltanto danni a cose.

6 - Nel dichiarare di condividere la relazione di cui all’art. 380 bis c.p.c., la Corte, tra l’altro, ha fatto propria anche l’argomentazione secondo cui all’art. 3 non può essere attribuita “… la natura di norma sulla competenza di carattere speciale rispetto alla norma di cui al secondo comma dell’art. 7 c.p.c. …”.

La relazione riconosce che tra le norme richiamate dall’art. 3 vi è anche l’art. 413 c.p.c. che “… allude solo ad una competenza del tribunale …”.

“Tuttavia [così continua la relazione] va dato rilievo alla circostanza che l’art. 3 dispone l’applicazione non delle norme di cui al libro II, titolo IV, capo I del codice di procedura civile nella loro interezza, bensì con una specificazione: si deve trattare di <<norme processuali>> …”.

Ebbene, secondo la relazione, l’art. 413 rinvia all’art. 409 ed in quest’ultimo non sono comprendibili le tipologie di giudizi di cui all’art. 3, con la doppia conseguenza:

a) che il “rito del lavoro” non è estensibile ai giudizi assegnabili al giudice di pace a sensi dell’invariato art. 7 c.p.c. e

b) che i giudizi non assegnabili al giudice di pace ma al tribunale andranno trattati semplicemente con il “rito del lavoro”, senza alcuna possibilità di attribuzione al giudice del lavoro presso il tribunale.

In realtà, nulla consente di attribuire un significato particolare (e tanto meno quello indicato dalla decisione in esame) ai termini “norme processuali” per come contenuti nell’art. 3 in antitesi rispetto a diverse e non individuabili “norme sostanziali”, rimanendo evidente soltanto una maldestra tecnica di formulazione della norma.

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La decisione della Cassazione ha un’evidente finalità conservativa della norma in esame, anche in ossequio ad una funzione di politica giudiziaria diretta a non scompensare i carichi di lavoro rispettivamente gravanti su giudici di pace e tribunali.

Questa finalità non è però condivisibile in quanto avulsa dai compiti istituzionali assegnati alla giurisdizione di legittimità, non aderente al significato proprio di quanto contenuto nella norma esaminata e soprattutto per la scarsa rilevanza delle motivazioni poste a base della decisione.

La differenziazione dei riti proposta dalla Cassazione, a seconda che si tratti di giudizi rientranti nella competenza del giudice di pace o del tribunale, appare artificiosa e non conforme alla lettera, al contenuto ed alla ratio della norma, contribuendo, comunque, a rendere ancora più consistente il numero e la varietà dei riti che caratterizzano il giudizio civile[4].

La soluzione proposta dalla Cassazione, tra gli altri problemi ingenerati, impone, in caso di impugnazione della decisione di primo grado adottata da un giudice di pace con “rito ordinario”, una incongrua utilizzazione del “rito del lavoro” per la fase di secondo grado[5] …!

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Secondo la formulazione della norma la parte richiamata del codice di procedura civile corrisponde agli artt. 409 e segg. sino all’art. 441.

Il rinvio, per come formulato, ha immediatamente posto in luce una serie di problemi, risolti di volta in volta in maniere diverse e relativi tra l’altro:

a) all’obbligo di far precedere l’azione giudiziaria, dall’assegnazione del termine dilatorio di gg. 90 (art. 145 codice assicurazioni), nonché dal tentativo di conciliazione (art. 410 c.p.c.);

b) alla determinazione della competenza funzionale esclusiva e per territorio (art. 413 c.p.c.);

c) alla formulazione del domanda introduttiva con ricorso (art. 414 c.p.c.);

e) al regime delle preclusioni;

f) alla decisione (art. 429 c.p.c.);

g) al passaggio dal rito ordinario a quello speciale (art. 426 c.p.c.); h) alla separata proposizione, per lo stesso sinistro, di separati giudizi per danni a cosa ed a persona;

i) alla provvisoria esecutorietà della sentenza (art. 431 c.p.c.);

l) al sistema delle impugnazioni.

A - La natura e la quantità dei problemi verificatisi a causa dell’infelice formulazione della norma non possono condizionarne l’interpretazione, soprattutto se la si compara con altre norme similari in cui il legislatore ha ritenuto opportuno rendere applicabile, in qualche modo, il solo “rito del lavoro” a rapporti giuridici diversi da quelli indicati dall’art. 409 c.p.c..

A1 - L’art. 47 legge 3 maggio 1982 n. 203 (concernente il rito processale da applicare alle controversie agrarie per le quali “… si osservano le disposizioni dettate dal capo I del titolo IV del libro II del codice di procedura civile …”) è formalmente identico a quello in esame.

I limiti di detta norma, però, risultano individuabili sulla base di altre disposizioni (cfr. ad esempio, la disciplina specifica del tentativo di conciliazione, art. 46 legge n. 203/1982, la competenza funzionale della sezione specializzata agraria, art. 26 legge 11 febbraio 1971 n. 11 ed art. 409 1° comma n. 2 c.p.c.) che eliminano buona parte dei problemi invece posti dall’art. 3 legge n. 102/2006.

A2 - L’art. 447 bis c.p.c. (concernente il rito processuale da applicare alle controversie locazione, comodato, affitto) utilizza il diverso sistema dell’indicazione delle singole norme utilizzabili e, comunque, contiene la disposizione di chiusura (inesistente nel caso in esame) costituita dalla formula “… in quanto applicabili …”.

Sulla scorta di tali precedenti legislativi, va, quindi, ritenuto che l’art. 3 legge n. 102/2006 dispone un rinvio ad un blocco di norme, senza indicare se alcune di tali norme possano essere ritenute incompatibili con la materia degli “incidenti stradali” e, quindi, non applicabili.

B - Occorrerebbe, pertanto, utilizzare un criterio inverso e ricavare non dalla norma in esame, ma dalla materia degli “incidenti stradali” elementi idonei ad individuare le ragioni di incompatibilità di alcuna delle norme richiamate in blocco.

Anche utilizzando questo criterio non si perviene ad un risultato diverso da “… quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse …”, così come prescrive l’art. 12 primo comma, disp. prel., c.c.; non si rilevano, infatti, nella vigente normativa in materia di “incidenti stradali” specifici ostacoli all’applicazione dell’intero blocco di norme richiamate dall’art. 3 in esame.

Tra l’altro, non costituisce un ostacolo alla proposta interpretazione il fatto che verrebbe ad applicarsi il tentativo obbligatorio di conciliazione, in aggiunta all’onere della preventiva richiesta di cui all’art. 145 del nuovo Codice delle Assicurazioni.

Ben potendo giustificarsi l’ulteriore differimento dell’accesso alla giurisdizione con la necessità di affidare ad un soggetto terzo la potestà di intervento onde ridurre il proliferare delle azioni giudiziarie.

Ed a nulla varrebbe il rilievo che il tentativo di conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c. andrebbe effettuato presso un Ufficio (quale quello “provinciale del lavoro” privo di una specifica competenza in materia di incidentistica stradale), attenendo questo rilievo alla imperfetta tecnica di produzione legislativa, piuttosto che ad un ostacolo all’interpretazione della norma.

C - Né, ancora, a diverso risultato è possibile pervenire usando il criterio residuale indicato dal citato art. 12 e costituito dalla valutazione della “… intenzione del legislatore …”.

E’, purtroppo, ben noto che la frenesia legislativa che ha caratterizzato l’ultima parte della XIV legislatura ha prodotto non pochi casi di carenza di coordinamento tra le varie innovazioni di volta in volta introdotte.

E così, nel caso in specie, l’originaria intenzione del legislatore (“Art. 3 - Accelerazione dei processi civili in materia di risarcimento per danni da incidenti stradali - Dopo l’art. 175 del codice di procedura civile è inserito il seguente art. 175 bis: Domande di risarcimento in caso di incidenti stradali - Quando è chiamato a pronunciare su domanda di risarcimento relativa a lesioni personali mortali o gravissime provocate da incidente stradale il giudice istruttore fissa le udienze di trattazione successive alla prima a non più di due mesi l’una dall’altra. Nei processi di cui al primo comma sono vietate le udienze di mero rinvio”, così nel primo disegno di legge presentato alla Camera dei Deputati il 6/6/2001) non aveva nessun rapporto con la versione definitiva della norma in esame[6].

Negli atti parlamentari successivi si lascia inalterata l’originaria struttura della norma, aggiungendosi la riduzione a metà dei termini previsti per lo scambio di memorie e repliche istruttorie e conclusionali (cfr. parere 6/5/2003 della IIa commissione permanente (Giustizia) sul testo unificato).

Soltanto nel testo unificato approvato il 7-9/3/2005 dal Comitato ristretto di studio del processo civile, per la prima volta, compare un testo dell’art. 3 identico a quello attuale e si manifesta, così, per la prima volta, la palese intenzione del legislatore di rendere più celeri i giudizi in materia di incidentistica stradale attraverso l’utilizzazione del “rito del lavoro”, rispetto al più lento giudizio civile ordinario per come allora disciplinato.

Già allora, però, la risoluzione del legislatore appariva del tutto inattuale se rapportata alla nuova e più rapida disciplina del giudizio civile ordinario, per come introdotta pochi giorni dopo dal d.l. 14 marzo 2005 n. 35 (convertito in legge 14 maggio 2005 n. 80 ed oggetto, poi, di successive modifiche ed integrazioni); questo rilievo, peraltro, è tanto più decisivo se si consideri che le innovazioni del giudizio civile ordinario risultano essere entrate in vigore il 1°/3/2006 e, quindi, prima dell’entrata in vigore della legge n. 102/2006.

A conferma della disattenzione del legislatore, si veda l’altro pastrocchio creato dall’art. 5 della legge n. 102/2006 ov’è stato effettuato un intervento su una norma (art. 24 legge 24 dicembre 1969 n. 990) non più esistente perché abrogata dall’art. 354, primo comma, lett. d) d.lgs 7 settembre 2005 n. 209 (entrato in vigore sin dal 1° gennaio 2006) ...!

Per altro verso e per come già accennato, le intenzioni del legislatore non possono essere ritenute chiare ed evidenti soltanto per le incongruenze che altrimenti si verificherebbero: se la norma è stata mal costruita, non se ne può dare un’interpretazione che ne consenta una sorta di sanatoria.

In definitiva, a seguito dell’analisi della norma de qua, appare corretto ritenere che l’unica interpretazione possibile sia quella di ritenere l’applicabilità alla materia dell’incidentistica stradale (sia pure limitata ai casi di lesioni e morte) dell’intero blocco delle norme richiamate dall’art. 3 legge n. 102/2006, con la sola esclusione di quelle sole norme specificamente destinate a regolare particolari fattispecie (come, ad esempio, l’art. 412 ter c.p.c.) e, quindi, di ritenere sussistente la competenza funzionale del giudice del lavoro presso il tribunale.

L’interpretazione della norma de qua nel senso sopra illustrato induce un fondato sospetto di illegittimità costituzionale della stessa norma per violazione dei principi fissati dagli artt. 2, 3, 24 e 111 Cost.:

a) per l’introduzione di irrazionali ostacoli (tentativo obbligatorio di conciliazione da aggiungersi all’obbligo della preventiva richiesta di risarcimento con lettera racc. a.r.) all’accesso del cittadino-danneggiato alla giurisdizione,

b) per la ingiustificata disparità di trattamento tra danni a cose e danni a persone,

c) per l’ingiustificata deroga a principi di ripartizione della giurisdizione tra Giudice ordinario presso il Tribunale e Giudice del Lavoro, nonché tra Giudice Ordinario presso il Tribunale e Giudice di Pace,

d) per l’immotivata assegnazione alle parti convenute di termini minimi differenziati d1) per la predisposizione delle difese (70 giorni nel rito ordinario, arg. ex artt. 163 bis comma 1° e 166 c.p.c., e 20 giorni nel rito del lavoro, arg. ex artt. 415 comma 5° e 416 comma 1° c.p.c.) e d2) per la costituzione (20 giorni nel rito ordinario, cfr. art.166 c.p.c., e 10 giorni nel rito del lavoro, cfr. art. 416 c.p.c.), nonostante la maggior complessità ed importanza dei giudizi oggetto della norma in esame rispetto a quelli aventi ad oggetto soltanto danni a cose,

e) per la predisposizione di un processo niente affatto “giusto” nel senso fissato dall’art. 111 Cost..

In particolare e per quanto riguarda il non infrequente caso in cui lo stesso danneggiato abbia subito danni a persona ed a cose ed abbia proposto un unico giudizio per il risarcimento di entrambi i danni, le intenzioni del legislatore verrebbero totalmente disattese, dovendosi applicare quanto disposto dall’art. 40, comma 3°, c.p.c. e disporsi la trattazione del giudizio con il rito ordinario[7] …!

In conclusione ed in attesa che la norma in esame venga abrogata, il travet del diritto, l’avvocato … condotto …, il giudice più sensibile alla realtà sociale piuttosto che alla politica giudiziaria non possono far altro che prendere atto di come, ancora una volta, siano costretti ad utilizzare uno strumento di lavoro inadeguato, mal costruito e spesso fonte di inestricabili problemi ...!



[1] Hazan Maurizio e Daniela Zorzit, Rc auto, gli incidenti dopo la riforma. Se i dubbi diventano freni procedurali, Diritto e Giustizia, 2006, n.21, 99 e segg..

Anche la Corte di Cassazione, nell’ordinanza n. 21418/2008, che l’art.3 è stato segnalato da più parti come norma di “… pessima fattura …” (così si esprime anche Scala A., La nuova disciplina dei giudizi di risarcimento dei danni da incidenti stradali dopo la legge n.102/2006, in Giur.It 2008, 2103).

[2] In questo senso si veda l’art. 53 della proposta di d.d.l. recante “Disposizioni per la razionalizzazione e l’accelerazione del processo civile” approvato dal Consiglio dei Ministri durante la XV legislatura e meglio noto come “d.d.l. Mastella”, nonché il più recente art. 58 del disegno di legge n. 1441 bis approvato dalla Camera dei Deputati nella seduta del 5 agosto 2008.

[3] Il convincimento manifestato dalla Corte sembra essere fondato non già su quanto disposto dal vigente art. 43 bis r.d. 30 gennaio 1941 n.12 (che tra le materie da non affidare ai giudici onorari non comprende quelle da trattare con il rito del lavoro), ma … soltanto …sulla circolare P 27060 del 19/12/2005 emessa dal Consiglio Superiore della Magistratura …!

[4] La proliferazione dei riti nel giudizio civile non accenna affatto a diminuire.

Anche nel citato disegno di legge n 1441 bis del 2008 non v’è alcuna iniziativa diretta alla unificazione dei riti e si continua a rendere la giustizia civile ancora più farraginosa a) con interventi meramente correttivi e parzialmente modificativi dell’esistente, costituenti di fatto un nuovo rito rispetto a quello della novella del 2005 e b) con l’introduzione del nuovo “procedimento sommario di cognizione” …!

[5] Si ricorda che, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, di merito e di legittimità, “…l’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale va effettuata sulla base della qualificazione giuridica del rapporto controverso adottata dal giudice che detto provvedimento ha pronunciato … per il principio della ultrattività del rito …”, così Cass. 30 agosto 2007 n.18813; nello stesso senso si veda Corte Appello Milano 4 febbraio 2006 in Giur.Mer. 2006, 9, 1926, Cass. 14 gennaio 2005 n.682, Cass. 20 ottobre 2000 n.13918, Cass. 21 ottobre 1998 n. 10425 e Cass. 2 agosto 1997 n.7173.

[6] Per la completa successione degli atti parlamentari e del loro contenuto si rinvia a Cutugno D.E. e De Gioia V., Il nuovo processo per il risarcimento dei danni derivati da incidenti stradali, Esperta 2006, 14 e segg..

[7] Anche se vi è chi ha ritenuto l’applicabilità del rito speciale, indipendentemente dalla prescrizione di cui all’art.40 comma 3° c.p.c. e pur riconoscendo l’impossibilità di demandare l’intera materia di cui all’art. 3 legge n.102/2006 al Tribunale in funzione di giudice del lavoro (si veda Cutugno D.E. e De Gioia V., op. cit., 60).

“Alle cause relative al risarcimento dei danni da morte o lesioni, conseguenti ad incidenti stradali, si applicano le norme processuali di cui al libro II, titolo IV, capo I del codice di procedura civile.”

Così il legislatore, con l’art. 3 della legge 21 febbraio 2006 n. 102, ha innovato la tutela giurisdizionale dei diritti dei danneggiati per morte o lesioni da circolazione stradale.

Sin dall’emanazione della norma è stato rilevato, da più parti e nelle sedi più diverse, che “… l’intervento legislativo sia frutto di un’autentica improvvisazione normativa ed espressione di una scelta niente affatto ponderata …”[1] e che l’innovazione avrebbe creato più problemi che benefici, tanto da indurre il legislatore (sia quello della XV legislatura e sia quello dell’attuale XVI legislatura) a farne prevedere l’abrogazione[2] .

In particolare, la formulazione della norma, con il rinvio all’intero blocco di norme concernenti il processo del lavoro (dall’art. 409 all’art. 441 del codice di procedura civile), ha indotto gli interpreti a dubitare che il legislatore abbia voluto lasciare immutata la previgente normativa in materia di competenza per valore e materia, invece che attribuire la competenza in subiecta materia in via esclusiva al Giudice del Lavoro presso il Tribunale.

Dopo circa due anni e mezzo dall’entrata in vigore, a seguito di un conflitto di competenza sollevato dal Tribunale di Reggio Calabria con ordinanza del 3 ottobre 2007, è intervenuta la Corte di Cassazione che, con ordinanza 7 agosto 2008 n. 21418, ha dato la propria interpretazione dell’art. 3 citato.

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Il Giudice di Pace di Reggio Calabria, dovendo decidere un giudizio per risarcimento danni per lesioni personali da circolazione stradale, dichiarava la propria incompetenza.

Tale pronuncia veniva fondata sul rilievo che l’art.3 della legge n. 102/ 2006 avesse attribuito al Tribunale in funzione di Giudice del Lavoro la competenza esclusiva in tema al risarcimento dei danni per morte o lesioni da incidenti stradali e così modificando la previsione contenuta nell’art. 7 comma 2° c.p.c..

Il Tribunale di Reggio Calabria, innanzi al quale il giudizio era stato riassunto, con ordinanza del 3/10/2007, richiedeva d’ufficio il regolamento di competenza sollevava conflitto di competenza, ritenendo che il provvedimento declinatorio della competenza fosse erroneo.

La Corte di Cassazione, con ordinanza 7 agosto 2008 n. 21418, in accoglimento dell’istanza di regolamento, ha dichiarato la competenza del Giudice di Pace di Reggio Calabria, fissando il seguente principio di diritto:

“Deve escludersi che la norma dell’art. 3 della l. n. 102 del 2006, nel prevedere che alle cause relative al risarcimento dei danni per morte o lesioni, conseguenti ad incidenti stradali, si applicano le norme processuali di cui al libro II, titolo IV, capo I del codice di procedura civile, abbia attribuito al Tribunale la competenza su tali cause, così sottraendole alla previsione di competenza del giudice di pace per materia con il limite di valore, di cui all’art. 7, secondo comma c.p.c.. “.

Con la medesima decisione la Corte ha, inoltre, chiarito che:

“Deve escludersi che l’intentio legis di cui è espressione l’art. 3 si sia voluta indirizzare nel senso di disporre l’applicabilità delle norme del c.d. rito del lavoro anche quando le cennate controversie debbano essere trattate dinanzi il al giudice di pace, onde la norma in discorso si deve intendere riferita soltanto all’ipotesi di causa davanti al tribunale”.

In definitiva e secondo la Cassazione, a sensi dell’art. 3, i giudizi in materia di incidentistica stradale per danni da morte o lesioni vanno proposti, nel rispetto della competenza per valore di cui all’art. 7 c.p.c., al giudice di pace con rito ordinario ed al tribunale (non in funzione di giudice del lavoro) con il rito del lavoro.

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Tutt’altro che convincente si rivela la decisione della Corte e la interpretazione proposta, per più versi, produce conseguenze più gravi di quelle che hanno dato luogo alla stessa decisione.

In particolare, la Corte pone a sostegno della decisione sette distinti motivi.

1 - Secondo il primo motivo l’estensione del “rito del lavoro” al giudice di pace incontrerebbe un limite nel carattere “estremamente formalizzato” di tale rito tanto da renderlo incompatibile con l’esercizio della giurisdizione da parte di un giudice “… onorario …”.

L’argomento utilizzato (oltre che ingiustificatamente irriverente nei confronti di una componente ormai essenziale del sistema giurisdizionale) è del tutto privo di rilevanza in quanto la soluzione del thema decidendum non presuppone la valutazione delle capacità del giudice ritenuto di volta in volta competente.

D’altra parte, non esiste un principio codificato secondo cui al giudice di pace (ed al magistrato onorario in generale) non possano essere assegnati affari da trattare con il “rito del lavoro”[3].

2 - Con la seconda e la terza argomentazione la Corte ritiene di poter escludere l’utilizzabilità del “rito del lavoro” da parte del giudice di pace onde rispettare il principio di coerenza con le intenzioni del legislatore di assegnare ai giudizi di cui all’art. 3 un “… rito più celere di quello ordinario …”.

E ciò sia perché il “rito del lavoro” costituirebbe “… uno strumento processuale più sofisticato e, quindi, più difficile da gestire per il giudice non togato [anche qui con evidente scarso rispetto] …” e sia perché il rito ordinario innanzi il giudice di pace è già di per sé caratterizzato da concentrazione, speditezza e semplificazione di forme di grado maggiore rispetto al “rito del lavoro”.

Anche queste motivazioni risultano, però, inaccettabili sia perchè del tutto prive di collegamento con il contenuto della norma in esame e sia perché confonde il dettato normativo con il risultato della sua applicazione.

Se il legislatore avesse riscontrato il rispetto delle proprie intenzioni (assegnazione ai giudizi di cui all’art. 3 un iter processuale più veloce) nel rito ordinario già assegnato al giudice di pace avrebbe adottato una normativa diversa o, addirittura, avrebbe esteso al tribunale il rito ordinario del giudice di pace …!

3 - Con la quarta motivazione la Corte sembra voler ancora escludere l’applicabilità del “rito del lavoro” ai giudizi innanzi il giudice di pace per effetto di quanto disposto dall’art. 40 comma 3° c.p.c..

In realtà, il riferimento operato dalla Corte, lungi dall’essere risolutivo o concorrentemente tale, introduce un argomento utilizzabile esclusivamente per porre in evidenza la maldestra formulazione della norma in esame.

Se l’art. 3 richiama tutte le norme proprie del “rito del lavoro”, per effetto dell’art. 40 comma 3°, il giudizio in cui siano stati richiesti danni a persona ed a cose dovrà essere trattato con il solo rito speciale, mentre prevarrà il rito ordinario (coincidente con quello applicabile nei casi di richiesta di risarcimenti per danni soltanto a cose) se si dovesse ritenere non ricorrente una ipotesi di contestuale proposizione di un giudizio rientrante tra quelli indicati “… negli articoli 409 e 442 ...”.

Così che, ove dovesse essere ritenuta più corretta la seconda interpretazione, le intenzioni del legislatore se ne andrebbero … a pallino …, risultando discriminante, per la scelta del rito, la categoria di giudizi per danni a cose cui lo stesso legislatore non ha riconosciuto alcun privilegio … e ciò anche per i giudizi di competenza per valore del tribunale …!

4 - La Corte ha espressamente definito “… argomento decisivo …” la circostanza secondo cui, a sensi dell’art. 311 c.p.c., il rinvio alle “… norme relative al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica …” avrebbe natura di “… c.d. metanorma, cioè di norma sul modo di legiferare in ordine al rito processuale applicabile in genere dinnanzi a quel giudice …”.

Questo “…decisivo …” motivo non contiene, però, alcuna indicazione delle ragioni che impedirebbero al giudice di pace di trattare i giudizi di cui all’art. 3 con il “rito del lavoro”, tanto più se si consideri che, se l’art. 3 dovesse essere considerato non direttamente incidente sul rito da osservare innanzi il giudice di pace, l’innovazione introdotta dallo stesso art. 3 per i giudizi innanzi il giudice monocratico presso il tribunale diverrebbe estensibile al giudice di pace proprio per effetto del rinvio di cui all’art. 311 c.p.c. …!

5 - Precisa la Corte che “… nessun lume sulle questioni interpretative … è venuto dalla recente ord. n. 280 del 2008 della Corte Costituzionale …” in quanto meramente dichiarativa di inammissibilità.

Eppure la q.l.c. sollevata dal Giudice di Pace di Alcamo con ordinanza del 14/5/2007 era ed è di certa rilevanza.

Secondo il giudice rimettente la q.l.c. consisterebbe nella disparità dei termini utilizzabili dalle parti convenute nei giudizi assoggettati al rito del lavoro, rispetto a quelli più ampi utilizzabili nei giudizi assoggettati al rito ordinario.

Qui ci si limita ad osservare l’incongruenza derivante:

a) dall’immotivata assegnazione alle parti convenute di termini minimi differenziati,

b1) dalla predisposizione delle difese (70 giorni nel rito ordinario, arg. ex artt. 163 bis comma 1° e 166 c.p.c., e 20 giorni nel rito del lavoro, arg. ex artt. 415 comma 5° e 416 comma 1° c.p.c.) e

c) dalla costituzione (20 giorni nel rito ordinario, cfr. art. 166 c.p.c., e 10 giorni nel rito del lavoro, cfr. art. 416 c.p.c.), nonostante la maggior complessità ed importanza dei giudizi oggetto della norma in esame rispetto a quelli aventi ad oggetto soltanto danni a cose.

6 - Nel dichiarare di condividere la relazione di cui all’art. 380 bis c.p.c., la Corte, tra l’altro, ha fatto propria anche l’argomentazione secondo cui all’art. 3 non può essere attribuita “… la natura di norma sulla competenza di carattere speciale rispetto alla norma di cui al secondo comma dell’art. 7 c.p.c. …”.

La relazione riconosce che tra le norme richiamate dall’art. 3 vi è anche l’art. 413 c.p.c. che “… allude solo ad una competenza del tribunale …”.

“Tuttavia [così continua la relazione] va dato rilievo alla circostanza che l’art. 3 dispone l’applicazione non delle norme di cui al libro II, titolo IV, capo I del codice di procedura civile nella loro interezza, bensì con una specificazione: si deve trattare di <<norme processuali>> …”.

Ebbene, secondo la relazione, l’art. 413 rinvia all’art. 409 ed in quest’ultimo non sono comprendibili le tipologie di giudizi di cui all’art. 3, con la doppia conseguenza:

a) che il “rito del lavoro” non è estensibile ai giudizi assegnabili al giudice di pace a sensi dell’invariato art. 7 c.p.c. e

b) che i giudizi non assegnabili al giudice di pace ma al tribunale andranno trattati semplicemente con il “rito del lavoro”, senza alcuna possibilità di attribuzione al giudice del lavoro presso il tribunale.

In realtà, nulla consente di attribuire un significato particolare (e tanto meno quello indicato dalla decisione in esame) ai termini “norme processuali” per come contenuti nell’art. 3 in antitesi rispetto a diverse e non individuabili “norme sostanziali”, rimanendo evidente soltanto una maldestra tecnica di formulazione della norma.

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La decisione della Cassazione ha un’evidente finalità conservativa della norma in esame, anche in ossequio ad una funzione di politica giudiziaria diretta a non scompensare i carichi di lavoro rispettivamente gravanti su giudici di pace e tribunali.

Questa finalità non è però condivisibile in quanto avulsa dai compiti istituzionali assegnati alla giurisdizione di legittimità, non aderente al significato proprio di quanto contenuto nella norma esaminata e soprattutto per la scarsa rilevanza delle motivazioni poste a base della decisione.

La differenziazione dei riti proposta dalla Cassazione, a seconda che si tratti di giudizi rientranti nella competenza del giudice di pace o del tribunale, appare artificiosa e non conforme alla lettera, al contenuto ed alla ratio della norma, contribuendo, comunque, a rendere ancora più consistente il numero e la varietà dei riti che caratterizzano il giudizio civile[4].

La soluzione proposta dalla Cassazione, tra gli altri problemi ingenerati, impone, in caso di impugnazione della decisione di primo grado adottata da un giudice di pace con “rito ordinario”, una incongrua utilizzazione del “rito del lavoro” per la fase di secondo grado[5] …!

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Secondo la formulazione della norma la parte richiamata del codice di procedura civile corrisponde agli artt. 409 e segg. sino all’art. 441.

Il rinvio, per come formulato, ha immediatamente posto in luce una serie di problemi, risolti di volta in volta in maniere diverse e relativi tra l’altro:

a) all’obbligo di far precedere l’azione giudiziaria, dall’assegnazione del termine dilatorio di gg. 90 (art. 145 codice assicurazioni), nonché dal tentativo di conciliazione (art. 410 c.p.c.);

b) alla determinazione della competenza funzionale esclusiva e per territorio (art. 413 c.p.c.);

c) alla formulazione del domanda introduttiva con ricorso (art. 414 c.p.c.);

e) al regime delle preclusioni;

f) alla decisione (art. 429 c.p.c.);

g) al passaggio dal rito ordinario a quello speciale (art. 426 c.p.c.); h) alla separata proposizione, per lo stesso sinistro, di separati giudizi per danni a cosa ed a persona;

i) alla provvisoria esecutorietà della sentenza (art. 431 c.p.c.);

l) al sistema delle impugnazioni.

A - La natura e la quantità dei problemi verificatisi a causa dell’infelice formulazione della norma non possono condizionarne l’interpretazione, soprattutto se la si compara con altre norme similari in cui il legislatore ha ritenuto opportuno rendere applicabile, in qualche modo, il solo “rito del lavoro” a rapporti giuridici diversi da quelli indicati dall’art. 409 c.p.c..

A1 - L’art. 47 legge 3 maggio 1982 n. 203 (concernente il rito processale da applicare alle controversie agrarie per le quali “… si osservano le disposizioni dettate dal capo I del titolo IV del libro II del codice di procedura civile …”) è formalmente identico a quello in esame.

I limiti di detta norma, però, risultano individuabili sulla base di altre disposizioni (cfr. ad esempio, la disciplina specifica del tentativo di conciliazione, art. 46 legge n. 203/1982, la competenza funzionale della sezione specializzata agraria, art. 26 legge 11 febbraio 1971 n. 11 ed art. 409 1° comma n. 2 c.p.c.) che eliminano buona parte dei problemi invece posti dall’art. 3 legge n. 102/2006.

A2 - L’art. 447 bis c.p.c. (concernente il rito processuale da applicare alle controversie locazione, comodato, affitto) utilizza il diverso sistema dell’indicazione delle singole norme utilizzabili e, comunque, contiene la disposizione di chiusura (inesistente nel caso in esame) costituita dalla formula “… in quanto applicabili …”.

Sulla scorta di tali precedenti legislativi, va, quindi, ritenuto che l’art. 3 legge n. 102/2006 dispone un rinvio ad un blocco di norme, senza indicare se alcune di tali norme possano essere ritenute incompatibili con la materia degli “incidenti stradali” e, quindi, non applicabili.

B - Occorrerebbe, pertanto, utilizzare un criterio inverso e ricavare non dalla norma in esame, ma dalla materia degli “incidenti stradali” elementi idonei ad individuare le ragioni di incompatibilità di alcuna delle norme richiamate in blocco.

Anche utilizzando questo criterio non si perviene ad un risultato diverso da “… quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse …”, così come prescrive l’art. 12 primo comma, disp. prel., c.c.; non si rilevano, infatti, nella vigente normativa in materia di “incidenti stradali” specifici ostacoli all’applicazione dell’intero blocco di norme richiamate dall’art. 3 in esame.

Tra l’altro, non costituisce un ostacolo alla proposta interpretazione il fatto che verrebbe ad applicarsi il tentativo obbligatorio di conciliazione, in aggiunta all’onere della preventiva richiesta di cui all’art. 145 del nuovo Codice delle Assicurazioni.

Ben potendo giustificarsi l’ulteriore differimento dell’accesso alla giurisdizione con la necessità di affidare ad un soggetto terzo la potestà di intervento onde ridurre il proliferare delle azioni giudiziarie.

Ed a nulla varrebbe il rilievo che il tentativo di conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c. andrebbe effettuato presso un Ufficio (quale quello “provinciale del lavoro” privo di una specifica competenza in materia di incidentistica stradale), attenendo questo rilievo alla imperfetta tecnica di produzione legislativa, piuttosto che ad un ostacolo all’interpretazione della norma.

C - Né, ancora, a diverso risultato è possibile pervenire usando il criterio residuale indicato dal citato art. 12 e costituito dalla valutazione della “… intenzione del legislatore …”.

E’, purtroppo, ben noto che la frenesia legislativa che ha caratterizzato l’ultima parte della XIV legislatura ha prodotto non pochi casi di carenza di coordinamento tra le varie innovazioni di volta in volta introdotte.

E così, nel caso in specie, l’originaria intenzione del legislatore (“Art. 3 - Accelerazione dei processi civili in materia di risarcimento per danni da incidenti stradali - Dopo l’art. 175 del codice di procedura civile è inserito il seguente art. 175 bis: Domande di risarcimento in caso di incidenti stradali - Quando è chiamato a pronunciare su domanda di risarcimento relativa a lesioni personali mortali o gravissime provocate da incidente stradale il giudice istruttore fissa le udienze di trattazione successive alla prima a non più di due mesi l’una dall’altra. Nei processi di cui al primo comma sono vietate le udienze di mero rinvio”, così nel primo disegno di legge presentato alla Camera dei Deputati il 6/6/2001) non aveva nessun rapporto con la versione definitiva della norma in esame[6].

Negli atti parlamentari successivi si lascia inalterata l’originaria struttura della norma, aggiungendosi la riduzione a metà dei termini previsti per lo scambio di memorie e repliche istruttorie e conclusionali (cfr. parere 6/5/2003 della IIa commissione permanente (Giustizia) sul testo unificato).

Soltanto nel testo unificato approvato il 7-9/3/2005 dal Comitato ristretto di studio del processo civile, per la prima volta, compare un testo dell’art. 3 identico a quello attuale e si manifesta, così, per la prima volta, la palese intenzione del legislatore di rendere più celeri i giudizi in materia di incidentistica stradale attraverso l’utilizzazione del “rito del lavoro”, rispetto al più lento giudizio civile ordinario per come allora disciplinato.

Già allora, però, la risoluzione del legislatore appariva del tutto inattuale se rapportata alla nuova e più rapida disciplina del giudizio civile ordinario, per come introdotta pochi giorni dopo dal d.l. 14 marzo 2005 n. 35 (convertito in legge 14 maggio 2005 n. 80 ed oggetto, poi, di successive modifiche ed integrazioni); questo rilievo, peraltro, è tanto più decisivo se si consideri che le innovazioni del giudizio civile ordinario risultano essere entrate in vigore il 1°/3/2006 e, quindi, prima dell’entrata in vigore della legge n. 102/2006.

A conferma della disattenzione del legislatore, si veda l’altro pastrocchio creato dall’art. 5 della legge n. 102/2006 ov’è stato effettuato un intervento su una norma (art. 24 legge 24 dicembre 1969 n. 990) non più esistente perché abrogata dall’art. 354, primo comma, lett. d) d.lgs 7 settembre 2005 n. 209 (entrato in vigore sin dal 1° gennaio 2006) ...!

Per altro verso e per come già accennato, le intenzioni del legislatore non possono essere ritenute chiare ed evidenti soltanto per le incongruenze che altrimenti si verificherebbero: se la norma è stata mal costruita, non se ne può dare un’interpretazione che ne consenta una sorta di sanatoria.

In definitiva, a seguito dell’analisi della norma de qua, appare corretto ritenere che l’unica interpretazione possibile sia quella di ritenere l’applicabilità alla materia dell’incidentistica stradale (sia pure limitata ai casi di lesioni e morte) dell’intero blocco delle norme richiamate dall’art. 3 legge n. 102/2006, con la sola esclusione di quelle sole norme specificamente destinate a regolare particolari fattispecie (come, ad esempio, l’art. 412 ter c.p.c.) e, quindi, di ritenere sussistente la competenza funzionale del giudice del lavoro presso il tribunale.

L’interpretazione della norma de qua nel senso sopra illustrato induce un fondato sospetto di illegittimità costituzionale della stessa norma per violazione dei principi fissati dagli artt. 2, 3, 24 e 111 Cost.:

a) per l’introduzione di irrazionali ostacoli (tentativo obbligatorio di conciliazione da aggiungersi all’obbligo della preventiva richiesta di risarcimento con lettera racc. a.r.) all’accesso del cittadino-danneggiato alla giurisdizione,

b) per la ingiustificata disparità di trattamento tra danni a cose e danni a persone,

c) per l’ingiustificata deroga a principi di ripartizione della giurisdizione tra Giudice ordinario presso il Tribunale e Giudice del Lavoro, nonché tra Giudice Ordinario presso il Tribunale e Giudice di Pace,

d) per l’immotivata assegnazione alle parti convenute di termini minimi differenziati d1) per la predisposizione delle difese (70 giorni nel rito ordinario, arg. ex artt. 163 bis comma 1° e 166 c.p.c., e 20 giorni nel rito del lavoro, arg. ex artt. 415 comma 5° e 416 comma 1° c.p.c.) e d2) per la costituzione (20 giorni nel rito ordinario, cfr. art.166 c.p.c., e 10 giorni nel rito del lavoro, cfr. art. 416 c.p.c.), nonostante la maggior complessità ed importanza dei giudizi oggetto della norma in esame rispetto a quelli aventi ad oggetto soltanto danni a cose,

e) per la predisposizione di un processo niente affatto “giusto” nel senso fissato dall’art. 111 Cost..

In particolare e per quanto riguarda il non infrequente caso in cui lo stesso danneggiato abbia subito danni a persona ed a cose ed abbia proposto un unico giudizio per il risarcimento di entrambi i danni, le intenzioni del legislatore verrebbero totalmente disattese, dovendosi applicare quanto disposto dall’art. 40, comma 3°, c.p.c. e disporsi la trattazione del giudizio con il rito ordinario[7] …!

In conclusione ed in attesa che la norma in esame venga abrogata, il travet del diritto, l’avvocato … condotto …, il giudice più sensibile alla realtà sociale piuttosto che alla politica giudiziaria non possono far altro che prendere atto di come, ancora una volta, siano costretti ad utilizzare uno strumento di lavoro inadeguato, mal costruito e spesso fonte di inestricabili problemi ...!



[1] Hazan Maurizio e Daniela Zorzit, Rc auto, gli incidenti dopo la riforma. Se i dubbi diventano freni procedurali, Diritto e Giustizia, 2006, n.21, 99 e segg..

Anche la Corte di Cassazione, nell’ordinanza n. 21418/2008, che l’art.3 è stato segnalato da più parti come norma di “… pessima fattura …” (così si esprime anche Scala A., La nuova disciplina dei giudizi di risarcimento dei danni da incidenti stradali dopo la legge n.102/2006, in Giur.It 2008, 2103).

[2] In questo senso si veda l’art. 53 della proposta di d.d.l. recante “Disposizioni per la razionalizzazione e l’accelerazione del processo civile” approvato dal Consiglio dei Ministri durante la XV legislatura e meglio noto come “d.d.l. Mastella”, nonché il più recente art. 58 del disegno di legge n. 1441 bis approvato dalla Camera dei Deputati nella seduta del 5 agosto 2008.

[3] Il convincimento manifestato dalla Corte sembra essere fondato non già su quanto disposto dal vigente art. 43 bis r.d. 30 gennaio 1941 n.12 (che tra le materie da non affidare ai giudici onorari non comprende quelle da trattare con il rito del lavoro), ma … soltanto …sulla circolare P 27060 del 19/12/2005 emessa dal Consiglio Superiore della Magistratura …!

[4] La proliferazione dei riti nel giudizio civile non accenna affatto a diminuire.

Anche nel citato disegno di legge n 1441 bis del 2008 non v’è alcuna iniziativa diretta alla unificazione dei riti e si continua a rendere la giustizia civile ancora più farraginosa a) con interventi meramente correttivi e parzialmente modificativi dell’esistente, costituenti di fatto un nuovo rito rispetto a quello della novella del 2005 e b) con l’introduzione del nuovo “procedimento sommario di cognizione” …!

[5] Si ricorda che, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, di merito e di legittimità, “…l’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale va effettuata sulla base della qualificazione giuridica del rapporto controverso adottata dal giudice che detto provvedimento ha pronunciato … per il principio della ultrattività del rito …”, così Cass. 30 agosto 2007 n.18813; nello stesso senso si veda Corte Appello Milano 4 febbraio 2006 in Giur.Mer. 2006, 9, 1926, Cass. 14 gennaio 2005 n.682, Cass. 20 ottobre 2000 n.13918, Cass. 21 ottobre 1998 n. 10425 e Cass. 2 agosto 1997 n.7173.

[6] Per la completa successione degli atti parlamentari e del loro contenuto si rinvia a Cutugno D.E. e De Gioia V., Il nuovo processo per il risarcimento dei danni derivati da incidenti stradali, Esperta 2006, 14 e segg..

[7] Anche se vi è chi ha ritenuto l’applicabilità del rito speciale, indipendentemente dalla prescrizione di cui all’art.40 comma 3° c.p.c. e pur riconoscendo l’impossibilità di demandare l’intera materia di cui all’art. 3 legge n.102/2006 al Tribunale in funzione di giudice del lavoro (si veda Cutugno D.E. e De Gioia V., op. cit., 60).