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L’abuso del diritto tributario nella giurisprudenza della Cassazione

Nell’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Cassazione in tema di abuso del diritto, fino al dicembre 2008 si sono delineati tre fondamentali orientamenti.

1. Secondo un primo orientamento, esplicitato nelle sentenze 3 aprile 2000, n. 3979, 3 settembre 2001, n. 11351, e 7 marzo 2002, n. 3345, solo «specifiche» disposizioni di legge possono limitare l’autonomia contrattuale delle parti e la libertà di scelta del contribuente, per cui, «in difetto, si rimane nell’ambito della mera lacuna della disciplina tributaria».

2. Per un secondo, che ha dato origine alle decisioni di cui alle sentenze 21 ottobre 2005, n.20398, 26 ottobre 2005, n. 20816, e 14 novembre 2005, n. 22932, l’analisi del giudice circa l’abuso del diritto, deve concentrarsi, prima che sull’aspetto tributario, su quello civilistico, per cui se la «causa in concreto» del contratto è carente (prima e terza sentenza) o il negozio è compiuto in «frode alla legge» (seconda sentenza) , va dichiarata la nullità del contratto, con le relative ricadute anche sotto il profilo tributario.

3. Un terzo orientamento, concretizzatosi nelle sentenze del 21 febbraio 2006 n. 10353, del 29 settembre 2006 n. 21221, del 4 aprile 2008 n. 8772, del 21 aprile 2008 n. 10257 e del 17 ottobre 2008 n. 25374, si richiama invece alla giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenza Halifax) sul divieto di abuso del diritto. Ma mentre la prima e l’ultima sentenza (sentenze 21 febbraio 2006, n. 10353 e 17 ottobre 2008 n. 25374), in materia IVA (tributo armonizzato), si “limitano” ad applicare nel nostro ordinamento il principio espresso dalla Corte di Giustizia relativamente alle norme comunitarie, per cui non sono opponibili all’Amministrazione finanziaria gli atti che costituiscono “abuso del diritto”, le altre tre ne estendono la portata, affermando che esso trova applicazione in tutti i settori dell’ordinamento tributario e, dunque, anche nell’ambito delle imposte dirette.

Secondo le sentenze citate, poi, la nozione di abuso del diritto prescinde sia dal riferimento alla natura fittizia o fraudolenta di una operazione (nel senso di una prefigurazione di comportamenti diretti a trarre in errore o a rendere difficile all’ ufficio di cogliere la vera natura dell’operazione), sia dall’accertamento della simulazione degli atti posti in essere in violazione del divieto di abuso.

Con due ordinanze del 24 maggio 2006 , è stato allora rimesso l’onere di dirimere il contrasto di giurisprudenza tra i vari orientamenti, all’organo a ciò deputato, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che si sono pronunciate con tre sentenze del 23 dicembre 2008 (le c.d. “tre sentenze di Natale”), su fattispecie di “dividend washing” (acquisto e retrocessione di titoli azionari a cavallo dello stacco delle cedole) e “dividend stripping” (usufrutto di azioni).

Nelle sentenze Cass. SS.UU. nn. 30055 e 30056 del 23 dicembre 2008, una società (la Peruzzi Spa) impugnava innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Arezzo avvisi d’accertamento, ai fini Irpeg e Ilor, che identificavano alcune operazioni come di dividend washing (articoli 6, comma 2, del Tuir, e 37, terzo comma, Dpr 600/1973), disconoscendo la deducibilità delle minusvalenze conseguenti ad acquisti e rivendite di titoli, dopo la riscossione dei dividendi, effettuate dal soggetto verificato con un’altra società, gestore di fondi comuni di investimento, in quanto poste in essere per mere finalità elusive.

I giudici di primo grado accoglievano il ricorso, e favorevoli alla società erano anche le sentenze della Commissione tributaria regionale, secondo la quale, le operazioni poste in essere, solo successivamente contemplate come operazioni elusive dall’allora articolo 14, comma 6-bis, del Tuir (aggiunto dall’articolo 7-bis del Dl 372/1992), erano all’epoca dei fatti del tutto leciti e riconducibili ad un procedimento negoziale indiretto non simulato. Avverso tali sentenze il Ministero dell’Economia e delle Finanze proponeva allora ricorso in Cassazione, deciso, dopo la rimessione alle Sezioni Unite, con le due sentenze citate.

In Cass. SS.UU., sent. 23 dicembre 2008 (2 dicembre 2008), n. 30057 , la controversia riguardava invece un caso di “usufrutto di azioni”. L’ufficio aveva recuperato in sede di imposizione diretta ( IRPEG anno d’imposta 1990) il credito d’imposta sui dividendi incassati e la deduzione del costo di acquisto dell’usufrutto; era stata inoltre rilevata l’omessa effettuazione delle ritenute ex art. 27, comma 3 del dpr. 600/73.

Una società statunitense (B.W.R.C.) senza stabile organizzazione in Italia, aveva ceduto in usufrutto alla società italiana Manifatture Lane Gaetano Marzotto & Figli Spa le azioni di controllo (90%) della società italiana Beloit Italia di Pinerolo Spa, fino al 31.12.1992, a fronte del pagamento anticipato di un corrispettivo pari all’ammontare dei dividendi che presumibilmente la società partecipata avrebbe distribuito nel periodo, riservandosi la cedente il diritto di voto.

La società estera, con la trasformazione del reddito di partecipazione in reddito di negoziazione, non risultava soggetta alla ritenuta a titolo d’imposta, ex art. 27, comma 3, del dpr. 600/73, sui dividendi distribuiti, e la società italiana, titolare del diritto di usufrutto sulle azioni, godeva del credito d’imposta sui dividendi distribuiti, subendo una ritenuta meno onerosa, peraltro a titolo di acconto, ex art. 27, comma 1, del citato dpr. 600/73, e deduceva il costo di acquisto dell’usufrutto.

L’Amministrazione aveva dunque contestato alla società italiana MLGM la simulazione del contratto, con il conseguente recupero del credito d’imposta pari a 9/16 dei dividendi incassati e della deduzione delle quote di ammortamento relative al costo di acquisto dell’usufrutto delle azioni.

Le Sezioni Unite, nelle sentenze citate, hanno in particolare stabilito i seguenti principi:

a. nell’ordinamento tributario nazionale esiste (da sempre) “(…) un generale principio antiabuso”, che non è solo “tendenziale”, come invece era stato ritenuto nelle sentenze nn. 20398 e 22932 del 2005;

b. deve essere pertanto confermata l’inopponibilità, all’Amministrazione finanziaria, dei “vantaggi tributari” conseguiti dai contribuenti con i negozi abusivi, già evidenziata dal terzo indirizzo interpretativo della Sezione tributaria (sentenze 21 febbraio 2006, n. 10353, 29 settembre 2006 n. 21221, 4 aprile 2008 n. 8772, 21 aprile 2008 n. 10257 e 17 ottobre 2008 n. 25374, di cui sopra al punto 3);

c. contrariamente a quanto ritenuto da questo indirizzo, però, “(…) la fonte di tale principio, in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano (…)” e, in particolare, in quelli di “(…) capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.) e di progressività dell’imposizione (art. 53, secondo comma, Cost.) [che] costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere (…)”;

d. l’«abuso del diritto» deve essere poi definito come un“(…)utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustificano l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale (…)”

E’ rilevante sottolineare che le SS. UU., nelle sentenze nn. 30055 e 30056, hanno cassato senza rinvio, confermando in toto gli accertamenti erariali (relativi ad un’operazione di dividend washing), comprese, dunque, le sanzioni amministrative irrogate.

Nella terza (sentenza n. 30057 del 2008) hanno poi ribadito, che, sotto il profilo procedurale, “nessun dubbio può sussistere riguardo alla concreta rilevabilità d’ufficio, in questa sede di legittimità, della inopponibilità del negozio abusivo all’Erario”, purché il carattere elusivo dell’operazione sia desumibile dalla descrizione della fattispecie contenuta negli atti e non si sia formato “giudicato interno” sul punto: prescindendo, dunque, dal fatto che vi sia stata una specifica contestazione di abuso da parte dell’Ufficio.

Le quattro sentenze della sezione tributaria della Cassazione che hanno raccolto il testimone delle SS. UU. sono state: Cass. 21 gennaio 2009 n. 1465, Cass. 8 aprile 2009 n. 8481, Cass. 8 aprile 2009 n. 8487 e Cass. 13 maggio 2009, n. 10981.

Nella sentenza 21 gennaio 2009 n. 1465 , la controversia riguardava il recupero da parte dell’ufficio impositore, per difetto di inerenza, di un ammontare cospicuo di costi sostenuti da una società italiana (ammortamenti, interessi passivi e canoni) con riferimento all’IRPEG per gli anni 1995, 1996 e 1997, in considerazione della presunta carenza di attività produttiva da parte della società accertata.

La Cassazione ha stabilito:

• che “(…) l’abuso in vero costituisce una modalità di “aggiramento” della legge tributaria, utilizzata per scopi non propri, con forme e modelli ammessi dall’ordinamento giuridico (…)”

• che “spetta al giudice – al di là delle deduzioni delle parti - la “qualificazione giuridica” dei fatti e dei comportamenti negoziali, che debbono essere interpretati coerentemente con i principi del sistema tributario, per ricevere la protezione garantita dal formale ossequio alle disposizioni di legge.

• che, secondo la propria precedente giurisprudenza, deve essere “rifiutato un concetto di rilevanza dell’elusione circoscritta ai soli settori legislativamente predeterminati od in ipotesi tassative (come quelle richiamate dall’art. 37-bis del dpr. 600/73), riconoscendo operante a tutto campo una clausola generale antiabuso (nucleo fondante dell’elusione ricavato dall’elaborazione della Corte di giustizia) a valere come regola di rango comunitario, applicabile d’ufficio in ogni stato e grado [del giudizio] a prescindere da specifiche deduzioni (Cass., 24 settembre 2008, n.25374) ed utilizzabile per risolvere casi concreti connotati da fumus di elusività, anche in settori tendenzialmente estranei all’impatto del diritto comunitario, quali quelli riguardanti l’imposizione diretta (Cass., 13 ottobre 2006, n. 22023 e Cass. 4 aprile 2008, n. 8772). E su questo percorso evolutivo si pone la pronunzia delle Sezioni Unite (Cass., 13 ottobre 2008, n. 30057) che ha puntualizzato – anche in ottica costituzionale - come il divieto di trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, rappresenti un principio generale non scritto vigente dell’ordinamento italiano siccome fondato sull’art. 53 Cost.”

• che “l’onere della prova della ricorrenza dei presupposti di una pratica elusiva – avvalendosi anche dei meccanismi presuntivi di cui la legislazione tributaria fa largo uso – grava sull’Amministrazione che intenda procedere alle conseguenti rettifiche (ex multis Cass. 25 marzo 2003, n. 4317), così come è compito del giudice nazionale verificare se gli elementi che gli vengono presentati configurano una operazione elusiva”. “(…)Il sindacato antielusivo di fronte a tali strategie [cioè a disegni e costruzioni finanziarie che implichino il parallelo conseguimento di obiettivi economici ispirati a diverse considerazioni rispetto a quelle di ottenere un mero risparmio d’imposta] non può poi non tener conto dell’evoluzione degli strumenti giuridici necessariamente collegata alle rapide mutazioni della realtà economica, nella quale possono trovare spazio forme nuove non necessariamente collegate a normali logiche di profitto della singola impresa (…)”. Un’operazione economica, oltre allo scopo di ottenere vantaggi fiscali, può perseguire diversi obiettivi, di natura commerciale, finanziaria, contabile: sarà abusiva qualora e nella misura in cui tale scopo si ponga come elemento predominate ed assorbente della transazione, tenuto conto sia della volontà delle parti, che del contesto fattuale e giuridico in cui l’operazione è posta in essere. Non può riscontrarsi abuso del diritto, invece, se la transazione può spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento del risparmio d’imposta.

Spetta all’Amministrazione finanziaria, non solo allegare che il disegno elusivo a sostegno delle operate rettifiche non era altrimenti spiegabile se non per mero vantaggio fiscale, ma anche “(…) esplicitare tale conclusione mettendo a confronto l’asserito comportamento abusato con il comportamento fisiologico aggirato, onde far emergere quella anomala differenza incompatibile con una normale logica economica, se non per pervenire a quel risultato elusivo (…)”. Per converso incombe sul “contribuente opporre l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico” che giustifichino quel genere di operazioni.

Nel caso in esame la Suprema Corte ha accolto il ricorso, cassando la sentenza impugnata e, nel merito, ha accolto i ricorsi introduttivi della società ricorrente, compensate le spese dell’intero giudizio.

La sentenza n. 8481 dell’ 8 aprile 2009 si è occupata, invece, di una controversia relativa ad un’operazione di sale and lease back, realizzata nell’ambito di società appartenenti al medesimo gruppo, e ritenuta dall’Amministrazione abusiva ai fini Irpeg e Ilor.

La Cassazione ha ritenuto che il sale and lease back di cui sopra avesse dato luogo ad un abuso del diritto, realizzato attraverso la deduzione dei canoni di locazione finanziaria da parte delle società che in precedenza avevano ammortizzato e poi ceduto i beni oggetto del contratto di leasing, mentre la società locatrice aveva nuovamente ammortizzato tali beni.

Secondo la Suprema Corte tutto questo sarebbe avvenuto senza che l’operazione sortisse il vantaggio finanziario per cui era concepita, ovvero la maggiore disponibilità di denaro: infatti i soggetti coinvolti appartenevano tutti allo stesso gruppo. Di qui il rigetto del ricorso proposto dal contribuente.

Secondo i Giudici il gruppo societario deve essere concepito come soggetto unitario dal punto di vista imprenditoriale: perciò, anche se i soggetti facenti parte il gruppo sono autonomi, sia dal punto di vista tributario che civilistico, deve essere riconosciuta la rilevanza della sostanziale unità del gruppo.

La Cassazione fa particolare riferimento: agli articoli da 25 – 42 del D.Lgs. 9 aprile 1991 n. 127, in materia di bilancio consolidato; agli articoli 2, 5, e 7 della legge del 10 ottobre 1990 n. 287 sulla concorrenza ed il mercato; all’articolo 22 del D.Lgs. 4 dicembre 1992 n. 480, che si occupa dei marchi di impresa; ed alla copiosa giurisprudenza di legittimità sulla conoscenza dello stato di insolvenza all’interno dei gruppi di società in tema di revocatoria fallimentare.

Fissato il principio, l’operazione di sale and lease back è stata esaminata alla luce dell’articolo 37 bis Dpr. 600 del 29 settembre 1973, modificato dall’articolo 7 del D.Lgs. n. 358 dell’8 ottobre 1997. Nella norma si legge che “sono inopponibili all’Amministrazione finanziaria gli atti, i fatti, e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti”.

Per la Corte, l’operazione di sale and lease back è lecita se riguardata sotto il profilo dell’autonomia contrattuale dei singoli soggetti facenti parte del gruppo (la questione per altro era stata dibattuta nel giudizio di merito), ma, per il gruppo stesso, essa non trova una giustificazione economica, creando dei meri vantaggi fiscali.

Il contratto di sale and lease back, nella pratica commerciale, risponde all’esigenza dell’utilizzatore del bene di reperire liquidità. Ed in effetti, anche nel caso de quo, dal punto di vista dei singoli soggetti coinvolti nell’operazione, il sale and lease back produce questo effetto, ma nell’ottica di gruppo, l’effetto stesso si annullerebbe, essendo il concedente un’emanazione degli utilizzatori.

Ma se dal punto di vista finanziario gli effetti del contratto si annullano, dal punto vista tributario, invece, si creano degli oneri deducibili (i canoni pagati dagli utilizzatori) e degli ammortamenti stanziati dal concedente.

Se l’operazione di cui sopra non fosse stata realizzata, la situazione di liquidità nell’ambito del gruppo sarebbe rimasta immutata e, essendo i beni interamente ammortizzati, gli utilizzatori non avrebbero potuto dedurre alcun costo relativamente a detti beni, mentre il concedente non avrebbe potuto stanziare alcun ammortamento.

I Giudici di legittimità hanno pertanto ravvisato nel comportamento del contribuente, un abuso del diritto, consistente nell’aver realizzato atti leciti e corretti, per conseguire effetti diversi rispetto alle finalità per cui tali atti sono stati concepiti, formulando il seguente principio di diritto: “il contratto di leasing di beni ammortizzabili tra due società del medesimo gruppo realizza un abuso di diritto tributario”. Precisa altresì la Corte che “l’abuso del diritto (…) è oggetto di un divieto che supera le limitazioni temporali (…), perché esso ha fondamento in un principio costituzionale non scritto di divieto di utilizzazione di norme fiscali di favore per fini diversi da quelli per cui esse sono state create (…)”.

Cass. 8 aprile 2009 n. 8487 si pronuncia, negandola, sulla spettanza dell’imposta sostitutiva del 10% disposta dall’art. 29 della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (poi modificato dall’art. 13 della legge 18 febbraio 1999, n. 28), per un trasferimento, a valore normale, di una partecipazione da una controllata residente, alla propria capogruppo non residente in Italia.

La Cassazione, investita della controversia a seguito del ricorso della società contribuente, ha ritenuto abusiva l’operazione in quanto priva di valide ragioni economiche, essendosi il trasferimento realizzato all’interno dello stesso gruppo.

Più in particolare, distinguendo, nell’ambito dell’elusione, tra la “mera devianza”, costituita dall’“utilizzazione impropria di uno strumento normativo”, e l’“abuso del diritto” vero e proprio, che sussisterebbe quando “vengono posti in essere una molteplicità di atti al solo fine di ottenere il risparmio fiscale”, la Corte di Cassazione ha individuato nel caso di specie gli estremi della prima ipotesi, e ha giudicato sufficiente, per il disconoscimento degli effetti fiscali dell’operazione, che il comportamento adottato non fosse sorretto da “idonee valutazioni di carattere economico che prescindano dal profilo fiscale”, la cui assenza rende “improprio o ingiustificato” l’uso “di uno strumento giuridico legittimo”, nonché “delle norme” tributarie, in aperta violazione dell’art. 41 Cost. : si legge nella sentenza che “è evidente che una operazione economica realizzata al solo fine di ottenere un risparmio fiscale è una operazione che contrasta con l’utilità sociale, sia nel senso che lede il principio di solidarietà, sia nel senso che determina una indebita riduzione del gettito fiscale”.

Cass. 13 maggio 2009, n. 10981 riguarda il caso della società Bilat dei Fratelli Basile snc, colpita da un avviso di accertamento relativo a maggiorazione del reddito di impresa ai fini dell’imposta ILOR ed accessori, perché i costi relativi alla utilizzazione degli automezzi della contribuente da parte della ditta individuale di Mario Basile, uno dei soci della Bilat, non erano deducibili, come pure quelli riguardanti i dipendenti della società posti al servizio di tale amministratore.

La Cassazione ha stabilito che una società non può dedurre i costi delle macchine di sua proprietà utilizzate da un’altra società ad essa collegata (la ditta individuale dell’amministratore della prima società). A nulla è valsa la difesa della ricorrente secondo cui "l’attività di produzione e vendita dei prodotti caseari era svolta da due soggetti economici differenti, tuttavia ciò non escludeva che in realtà si trattasse di un’entità unica, e quindi che i costi anche della vendita fossero sopportati dal soggetto produttore": la Corte ha infatti stabilito che "in tema di determinazione del reddito di impresa, l’utile economico rilevante è solo quello effettivamente ritratto dal contribuente e non pure quello ricavato dal altri soggetti di cui quello si sia avvalso per realizzare un’operazione economica (…) Infatti la partecipazione societaria di un soggetto ad un altro, non consente di annullare, neppure a fini fiscali, la soggettività del partecipato e, quindi, di contestare l’attribuzione allo stesso (e non già al partecipante) dei risultati economici prodotti dall’attività imprenditoriale posta in essere dal partecipato medesimo (…) Inoltre va rilevato che il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici. Tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati, nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge stessa, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Esso comporta l’inopponibilità del negozio all’amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell’operazione".

Si occupa di elusione ed operazioni infragruppo (cessione di partecipazioni, con realizzazione di minusvalenza deducibile), l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 1165 del 20 maggio 2009 , senza richiamare, però, isdem verbis l’abuso del diritto.

Una società (Cet), aveva acquistato, da terzi, le azioni di un’altra società del settore (Cit), per il prezzo di L. 7 miliardi circa, ed aveva poi rivenduto le stesse, dopo pochi mesi, alla propria controllante (Cleaning Equipement Holding), al valore nominale delle azioni, cioè L. 2.850.000.000, realizzando una minusvalenza di L. 4.787.596.000. L’Amministrazione considerava elusiva tale operazione e spiccava avviso di accertamento per IRPEG ed ILOR 1995.

La Corte di Cassazione ha confermato la natura elusiva della compravendita azionaria, utilizzando, questa volta, l’art. 39, primo comma, lett. d), del D.P.R. n. 600/1973, in base al quale “l’inesistenza di passività dichiarate è accertabile anche con presunzioni semplici , se gravi, precise e concordanti”, ed equiparando, ai fini della norma citata, la non congruità del prezzo, ad un costo fittizio, e perciò non deducibile.

La giurisprudenza della Cassazione, di cui si è detto, ha destato, e desta, numerose perplessità in dottrina: perché contrasta con l’art. 23 Cost.; perché è poco garantista; perché rende imprevedibile ed inaffidabile l’intero sistema tributario.

Nondimeno questo orientamento esiste e … “resiste”.

Sarebbe allora utile rimediare alle sue peggiori storture, introducendo nell’ordinamento fiscale italiano una norma di sistema, che ponga un principio generale di divieto di abuso di diritto, disciplinandone il relativo procedimento di accertamento, garantito dal più ampio contraddittorio.

Ciò consentirebbe almeno di garantire il procedimento di cui all’art. 37bis commi 4 , 5 e 6, dpr. 600/73, nelle ipotesi previste dal comma 3 dello stesso articolo 37bis, nonché dall’interpello antielusivo ad esso correlato, in tutti i casi di accertamento di pratiche elusive. Il che oggi non è.

Nell’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Cassazione in tema di abuso del diritto, fino al dicembre 2008 si sono delineati tre fondamentali orientamenti.

1. Secondo un primo orientamento, esplicitato nelle sentenze 3 aprile 2000, n. 3979, 3 settembre 2001, n. 11351, e 7 marzo 2002, n. 3345, solo «specifiche» disposizioni di legge possono limitare l’autonomia contrattuale delle parti e la libertà di scelta del contribuente, per cui, «in difetto, si rimane nell’ambito della mera lacuna della disciplina tributaria».

2. Per un secondo, che ha dato origine alle decisioni di cui alle sentenze 21 ottobre 2005, n.20398, 26 ottobre 2005, n. 20816, e 14 novembre 2005, n. 22932, l’analisi del giudice circa l’abuso del diritto, deve concentrarsi, prima che sull’aspetto tributario, su quello civilistico, per cui se la «causa in concreto» del contratto è carente (prima e terza sentenza) o il negozio è compiuto in «frode alla legge» (seconda sentenza) , va dichiarata la nullità del contratto, con le relative ricadute anche sotto il profilo tributario.

3. Un terzo orientamento, concretizzatosi nelle sentenze del 21 febbraio 2006 n. 10353, del 29 settembre 2006 n. 21221, del 4 aprile 2008 n. 8772, del 21 aprile 2008 n. 10257 e del 17 ottobre 2008 n. 25374, si richiama invece alla giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenza Halifax) sul divieto di abuso del diritto. Ma mentre la prima e l’ultima sentenza (sentenze 21 febbraio 2006, n. 10353 e 17 ottobre 2008 n. 25374), in materia IVA (tributo armonizzato), si “limitano” ad applicare nel nostro ordinamento il principio espresso dalla Corte di Giustizia relativamente alle norme comunitarie, per cui non sono opponibili all’Amministrazione finanziaria gli atti che costituiscono “abuso del diritto”, le altre tre ne estendono la portata, affermando che esso trova applicazione in tutti i settori dell’ordinamento tributario e, dunque, anche nell’ambito delle imposte dirette.

Secondo le sentenze citate, poi, la nozione di abuso del diritto prescinde sia dal riferimento alla natura fittizia o fraudolenta di una operazione (nel senso di una prefigurazione di comportamenti diretti a trarre in errore o a rendere difficile all’ ufficio di cogliere la vera natura dell’operazione), sia dall’accertamento della simulazione degli atti posti in essere in violazione del divieto di abuso.

Con due ordinanze del 24 maggio 2006 , è stato allora rimesso l’onere di dirimere il contrasto di giurisprudenza tra i vari orientamenti, all’organo a ciò deputato, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che si sono pronunciate con tre sentenze del 23 dicembre 2008 (le c.d. “tre sentenze di Natale”), su fattispecie di “dividend washing” (acquisto e retrocessione di titoli azionari a cavallo dello stacco delle cedole) e “dividend stripping” (usufrutto di azioni).

Nelle sentenze Cass. SS.UU. nn. 30055 e 30056 del 23 dicembre 2008, una società (la Peruzzi Spa) impugnava innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Arezzo avvisi d’accertamento, ai fini Irpeg e Ilor, che identificavano alcune operazioni come di dividend washing (articoli 6, comma 2, del Tuir, e 37, terzo comma, Dpr 600/1973), disconoscendo la deducibilità delle minusvalenze conseguenti ad acquisti e rivendite di titoli, dopo la riscossione dei dividendi, effettuate dal soggetto verificato con un’altra società, gestore di fondi comuni di investimento, in quanto poste in essere per mere finalità elusive.

I giudici di primo grado accoglievano il ricorso, e favorevoli alla società erano anche le sentenze della Commissione tributaria regionale, secondo la quale, le operazioni poste in essere, solo successivamente contemplate come operazioni elusive dall’allora articolo 14, comma 6-bis, del Tuir (aggiunto dall’articolo 7-bis del Dl 372/1992), erano all’epoca dei fatti del tutto leciti e riconducibili ad un procedimento negoziale indiretto non simulato. Avverso tali sentenze il Ministero dell’Economia e delle Finanze proponeva allora ricorso in Cassazione, deciso, dopo la rimessione alle Sezioni Unite, con le due sentenze citate.

In Cass. SS.UU., sent. 23 dicembre 2008 (2 dicembre 2008), n. 30057 , la controversia riguardava invece un caso di “usufrutto di azioni”. L’ufficio aveva recuperato in sede di imposizione diretta ( IRPEG anno d’imposta 1990) il credito d’imposta sui dividendi incassati e la deduzione del costo di acquisto dell’usufrutto; era stata inoltre rilevata l’omessa effettuazione delle ritenute ex art. 27, comma 3 del dpr. 600/73.

Una società statunitense (B.W.R.C.) senza stabile organizzazione in Italia, aveva ceduto in usufrutto alla società italiana Manifatture Lane Gaetano Marzotto & Figli Spa le azioni di controllo (90%) della società italiana Beloit Italia di Pinerolo Spa, fino al 31.12.1992, a fronte del pagamento anticipato di un corrispettivo pari all’ammontare dei dividendi che presumibilmente la società partecipata avrebbe distribuito nel periodo, riservandosi la cedente il diritto di voto.

La società estera, con la trasformazione del reddito di partecipazione in reddito di negoziazione, non risultava soggetta alla ritenuta a titolo d’imposta, ex art. 27, comma 3, del dpr. 600/73, sui dividendi distribuiti, e la società italiana, titolare del diritto di usufrutto sulle azioni, godeva del credito d’imposta sui dividendi distribuiti, subendo una ritenuta meno onerosa, peraltro a titolo di acconto, ex art. 27, comma 1, del citato dpr. 600/73, e deduceva il costo di acquisto dell’usufrutto.

L’Amministrazione aveva dunque contestato alla società italiana MLGM la simulazione del contratto, con il conseguente recupero del credito d’imposta pari a 9/16 dei dividendi incassati e della deduzione delle quote di ammortamento relative al costo di acquisto dell’usufrutto delle azioni.

Le Sezioni Unite, nelle sentenze citate, hanno in particolare stabilito i seguenti principi:

a. nell’ordinamento tributario nazionale esiste (da sempre) “(…) un generale principio antiabuso”, che non è solo “tendenziale”, come invece era stato ritenuto nelle sentenze nn. 20398 e 22932 del 2005;

b. deve essere pertanto confermata l’inopponibilità, all’Amministrazione finanziaria, dei “vantaggi tributari” conseguiti dai contribuenti con i negozi abusivi, già evidenziata dal terzo indirizzo interpretativo della Sezione tributaria (sentenze 21 febbraio 2006, n. 10353, 29 settembre 2006 n. 21221, 4 aprile 2008 n. 8772, 21 aprile 2008 n. 10257 e 17 ottobre 2008 n. 25374, di cui sopra al punto 3);

c. contrariamente a quanto ritenuto da questo indirizzo, però, “(…) la fonte di tale principio, in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano (…)” e, in particolare, in quelli di “(…) capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.) e di progressività dell’imposizione (art. 53, secondo comma, Cost.) [che] costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere (…)”;

d. l’«abuso del diritto» deve essere poi definito come un“(…)utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustificano l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale (…)”

E’ rilevante sottolineare che le SS. UU., nelle sentenze nn. 30055 e 30056, hanno cassato senza rinvio, confermando in toto gli accertamenti erariali (relativi ad un’operazione di dividend washing), comprese, dunque, le sanzioni amministrative irrogate.

Nella terza (sentenza n. 30057 del 2008) hanno poi ribadito, che, sotto il profilo procedurale, “nessun dubbio può sussistere riguardo alla concreta rilevabilità d’ufficio, in questa sede di legittimità, della inopponibilità del negozio abusivo all’Erario”, purché il carattere elusivo dell’operazione sia desumibile dalla descrizione della fattispecie contenuta negli atti e non si sia formato “giudicato interno” sul punto: prescindendo, dunque, dal fatto che vi sia stata una specifica contestazione di abuso da parte dell’Ufficio.

Le quattro sentenze della sezione tributaria della Cassazione che hanno raccolto il testimone delle SS. UU. sono state: Cass. 21 gennaio 2009 n. 1465, Cass. 8 aprile 2009 n. 8481, Cass. 8 aprile 2009 n. 8487 e Cass. 13 maggio 2009, n. 10981.

Nella sentenza 21 gennaio 2009 n. 1465 , la controversia riguardava il recupero da parte dell’ufficio impositore, per difetto di inerenza, di un ammontare cospicuo di costi sostenuti da una società italiana (ammortamenti, interessi passivi e canoni) con riferimento all’IRPEG per gli anni 1995, 1996 e 1997, in considerazione della presunta carenza di attività produttiva da parte della società accertata.

La Cassazione ha stabilito:

• che “(…) l’abuso in vero costituisce una modalità di “aggiramento” della legge tributaria, utilizzata per scopi non propri, con forme e modelli ammessi dall’ordinamento giuridico (…)”

• che “spetta al giudice – al di là delle deduzioni delle parti - la “qualificazione giuridica” dei fatti e dei comportamenti negoziali, che debbono essere interpretati coerentemente con i principi del sistema tributario, per ricevere la protezione garantita dal formale ossequio alle disposizioni di legge.

• che, secondo la propria precedente giurisprudenza, deve essere “rifiutato un concetto di rilevanza dell’elusione circoscritta ai soli settori legislativamente predeterminati od in ipotesi tassative (come quelle richiamate dall’art. 37-bis del dpr. 600/73), riconoscendo operante a tutto campo una clausola generale antiabuso (nucleo fondante dell’elusione ricavato dall’elaborazione della Corte di giustizia) a valere come regola di rango comunitario, applicabile d’ufficio in ogni stato e grado [del giudizio] a prescindere da specifiche deduzioni (Cass., 24 settembre 2008, n.25374) ed utilizzabile per risolvere casi concreti connotati da fumus di elusività, anche in settori tendenzialmente estranei all’impatto del diritto comunitario, quali quelli riguardanti l’imposizione diretta (Cass., 13 ottobre 2006, n. 22023 e Cass. 4 aprile 2008, n. 8772). E su questo percorso evolutivo si pone la pronunzia delle Sezioni Unite (Cass., 13 ottobre 2008, n. 30057) che ha puntualizzato – anche in ottica costituzionale - come il divieto di trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, rappresenti un principio generale non scritto vigente dell’ordinamento italiano siccome fondato sull’art. 53 Cost.”

• che “l’onere della prova della ricorrenza dei presupposti di una pratica elusiva – avvalendosi anche dei meccanismi presuntivi di cui la legislazione tributaria fa largo uso – grava sull’Amministrazione che intenda procedere alle conseguenti rettifiche (ex multis Cass. 25 marzo 2003, n. 4317), così come è compito del giudice nazionale verificare se gli elementi che gli vengono presentati configurano una operazione elusiva”. “(…)Il sindacato antielusivo di fronte a tali strategie [cioè a disegni e costruzioni finanziarie che implichino il parallelo conseguimento di obiettivi economici ispirati a diverse considerazioni rispetto a quelle di ottenere un mero risparmio d’imposta] non può poi non tener conto dell’evoluzione degli strumenti giuridici necessariamente collegata alle rapide mutazioni della realtà economica, nella quale possono trovare spazio forme nuove non necessariamente collegate a normali logiche di profitto della singola impresa (…)”. Un’operazione economica, oltre allo scopo di ottenere vantaggi fiscali, può perseguire diversi obiettivi, di natura commerciale, finanziaria, contabile: sarà abusiva qualora e nella misura in cui tale scopo si ponga come elemento predominate ed assorbente della transazione, tenuto conto sia della volontà delle parti, che del contesto fattuale e giuridico in cui l’operazione è posta in essere. Non può riscontrarsi abuso del diritto, invece, se la transazione può spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento del risparmio d’imposta.

Spetta all’Amministrazione finanziaria, non solo allegare che il disegno elusivo a sostegno delle operate rettifiche non era altrimenti spiegabile se non per mero vantaggio fiscale, ma anche “(…) esplicitare tale conclusione mettendo a confronto l’asserito comportamento abusato con il comportamento fisiologico aggirato, onde far emergere quella anomala differenza incompatibile con una normale logica economica, se non per pervenire a quel risultato elusivo (…)”. Per converso incombe sul “contribuente opporre l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico” che giustifichino quel genere di operazioni.

Nel caso in esame la Suprema Corte ha accolto il ricorso, cassando la sentenza impugnata e, nel merito, ha accolto i ricorsi introduttivi della società ricorrente, compensate le spese dell’intero giudizio.

La sentenza n. 8481 dell’ 8 aprile 2009 si è occupata, invece, di una controversia relativa ad un’operazione di sale and lease back, realizzata nell’ambito di società appartenenti al medesimo gruppo, e ritenuta dall’Amministrazione abusiva ai fini Irpeg e Ilor.

La Cassazione ha ritenuto che il sale and lease back di cui sopra avesse dato luogo ad un abuso del diritto, realizzato attraverso la deduzione dei canoni di locazione finanziaria da parte delle società che in precedenza avevano ammortizzato e poi ceduto i beni oggetto del contratto di leasing, mentre la società locatrice aveva nuovamente ammortizzato tali beni.

Secondo la Suprema Corte tutto questo sarebbe avvenuto senza che l’operazione sortisse il vantaggio finanziario per cui era concepita, ovvero la maggiore disponibilità di denaro: infatti i soggetti coinvolti appartenevano tutti allo stesso gruppo. Di qui il rigetto del ricorso proposto dal contribuente.

Secondo i Giudici il gruppo societario deve essere concepito come soggetto unitario dal punto di vista imprenditoriale: perciò, anche se i soggetti facenti parte il gruppo sono autonomi, sia dal punto di vista tributario che civilistico, deve essere riconosciuta la rilevanza della sostanziale unità del gruppo.

La Cassazione fa particolare riferimento: agli articoli da 25 – 42 del D.Lgs. 9 aprile 1991 n. 127, in materia di bilancio consolidato; agli articoli 2, 5, e 7 della legge del 10 ottobre 1990 n. 287 sulla concorrenza ed il mercato; all’articolo 22 del D.Lgs. 4 dicembre 1992 n. 480, che si occupa dei marchi di impresa; ed alla copiosa giurisprudenza di legittimità sulla conoscenza dello stato di insolvenza all’interno dei gruppi di società in tema di revocatoria fallimentare.

Fissato il principio, l’operazione di sale and lease back è stata esaminata alla luce dell’articolo 37 bis Dpr. 600 del 29 settembre 1973, modificato dall’articolo 7 del D.Lgs. n. 358 dell’8 ottobre 1997. Nella norma si legge che “sono inopponibili all’Amministrazione finanziaria gli atti, i fatti, e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti”.

Per la Corte, l’operazione di sale and lease back è lecita se riguardata sotto il profilo dell’autonomia contrattuale dei singoli soggetti facenti parte del gruppo (la questione per altro era stata dibattuta nel giudizio di merito), ma, per il gruppo stesso, essa non trova una giustificazione economica, creando dei meri vantaggi fiscali.

Il contratto di sale and lease back, nella pratica commerciale, risponde all’esigenza dell’utilizzatore del bene di reperire liquidità. Ed in effetti, anche nel caso de quo, dal punto di vista dei singoli soggetti coinvolti nell’operazione, il sale and lease back produce questo effetto, ma nell’ottica di gruppo, l’effetto stesso si annullerebbe, essendo il concedente un’emanazione degli utilizzatori.

Ma se dal punto di vista finanziario gli effetti del contratto si annullano, dal punto vista tributario, invece, si creano degli oneri deducibili (i canoni pagati dagli utilizzatori) e degli ammortamenti stanziati dal concedente.

Se l’operazione di cui sopra non fosse stata realizzata, la situazione di liquidità nell’ambito del gruppo sarebbe rimasta immutata e, essendo i beni interamente ammortizzati, gli utilizzatori non avrebbero potuto dedurre alcun costo relativamente a detti beni, mentre il concedente non avrebbe potuto stanziare alcun ammortamento.

I Giudici di legittimità hanno pertanto ravvisato nel comportamento del contribuente, un abuso del diritto, consistente nell’aver realizzato atti leciti e corretti, per conseguire effetti diversi rispetto alle finalità per cui tali atti sono stati concepiti, formulando il seguente principio di diritto: “il contratto di leasing di beni ammortizzabili tra due società del medesimo gruppo realizza un abuso di diritto tributario”. Precisa altresì la Corte che “l’abuso del diritto (…) è oggetto di un divieto che supera le limitazioni temporali (…), perché esso ha fondamento in un principio costituzionale non scritto di divieto di utilizzazione di norme fiscali di favore per fini diversi da quelli per cui esse sono state create (…)”.

Cass. 8 aprile 2009 n. 8487 si pronuncia, negandola, sulla spettanza dell’imposta sostitutiva del 10% disposta dall’art. 29 della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (poi modificato dall’art. 13 della legge 18 febbraio 1999, n. 28), per un trasferimento, a valore normale, di una partecipazione da una controllata residente, alla propria capogruppo non residente in Italia.

La Cassazione, investita della controversia a seguito del ricorso della società contribuente, ha ritenuto abusiva l’operazione in quanto priva di valide ragioni economiche, essendosi il trasferimento realizzato all’interno dello stesso gruppo.

Più in particolare, distinguendo, nell’ambito dell’elusione, tra la “mera devianza”, costituita dall’“utilizzazione impropria di uno strumento normativo”, e l’“abuso del diritto” vero e proprio, che sussisterebbe quando “vengono posti in essere una molteplicità di atti al solo fine di ottenere il risparmio fiscale”, la Corte di Cassazione ha individuato nel caso di specie gli estremi della prima ipotesi, e ha giudicato sufficiente, per il disconoscimento degli effetti fiscali dell’operazione, che il comportamento adottato non fosse sorretto da “idonee valutazioni di carattere economico che prescindano dal profilo fiscale”, la cui assenza rende “improprio o ingiustificato” l’uso “di uno strumento giuridico legittimo”, nonché “delle norme” tributarie, in aperta violazione dell’art. 41 Cost. : si legge nella sentenza che “è evidente che una operazione economica realizzata al solo fine di ottenere un risparmio fiscale è una operazione che contrasta con l’utilità sociale, sia nel senso che lede il principio di solidarietà, sia nel senso che determina una indebita riduzione del gettito fiscale”.

Cass. 13 maggio 2009, n. 10981 riguarda il caso della società Bilat dei Fratelli Basile snc, colpita da un avviso di accertamento relativo a maggiorazione del reddito di impresa ai fini dell’imposta ILOR ed accessori, perché i costi relativi alla utilizzazione degli automezzi della contribuente da parte della ditta individuale di Mario Basile, uno dei soci della Bilat, non erano deducibili, come pure quelli riguardanti i dipendenti della società posti al servizio di tale amministratore.

La Cassazione ha stabilito che una società non può dedurre i costi delle macchine di sua proprietà utilizzate da un’altra società ad essa collegata (la ditta individuale dell’amministratore della prima società). A nulla è valsa la difesa della ricorrente secondo cui "l’attività di produzione e vendita dei prodotti caseari era svolta da due soggetti economici differenti, tuttavia ciò non escludeva che in realtà si trattasse di un’entità unica, e quindi che i costi anche della vendita fossero sopportati dal soggetto produttore": la Corte ha infatti stabilito che "in tema di determinazione del reddito di impresa, l’utile economico rilevante è solo quello effettivamente ritratto dal contribuente e non pure quello ricavato dal altri soggetti di cui quello si sia avvalso per realizzare un’operazione economica (…) Infatti la partecipazione societaria di un soggetto ad un altro, non consente di annullare, neppure a fini fiscali, la soggettività del partecipato e, quindi, di contestare l’attribuzione allo stesso (e non già al partecipante) dei risultati economici prodotti dall’attività imprenditoriale posta in essere dal partecipato medesimo (…) Inoltre va rilevato che il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici. Tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati, nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge stessa, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Esso comporta l’inopponibilità del negozio all’amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell’operazione".

Si occupa di elusione ed operazioni infragruppo (cessione di partecipazioni, con realizzazione di minusvalenza deducibile), l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 1165 del 20 maggio 2009 , senza richiamare, però, isdem verbis l’abuso del diritto.

Una società (Cet), aveva acquistato, da terzi, le azioni di un’altra società del settore (Cit), per il prezzo di L. 7 miliardi circa, ed aveva poi rivenduto le stesse, dopo pochi mesi, alla propria controllante (Cleaning Equipement Holding), al valore nominale delle azioni, cioè L. 2.850.000.000, realizzando una minusvalenza di L. 4.787.596.000. L’Amministrazione considerava elusiva tale operazione e spiccava avviso di accertamento per IRPEG ed ILOR 1995.

La Corte di Cassazione ha confermato la natura elusiva della compravendita azionaria, utilizzando, questa volta, l’art. 39, primo comma, lett. d), del D.P.R. n. 600/1973, in base al quale “l’inesistenza di passività dichiarate è accertabile anche con presunzioni semplici , se gravi, precise e concordanti”, ed equiparando, ai fini della norma citata, la non congruità del prezzo, ad un costo fittizio, e perciò non deducibile.

La giurisprudenza della Cassazione, di cui si è detto, ha destato, e desta, numerose perplessità in dottrina: perché contrasta con l’art. 23 Cost.; perché è poco garantista; perché rende imprevedibile ed inaffidabile l’intero sistema tributario.

Nondimeno questo orientamento esiste e … “resiste”.

Sarebbe allora utile rimediare alle sue peggiori storture, introducendo nell’ordinamento fiscale italiano una norma di sistema, che ponga un principio generale di divieto di abuso di diritto, disciplinandone il relativo procedimento di accertamento, garantito dal più ampio contraddittorio.

Ciò consentirebbe almeno di garantire il procedimento di cui all’art. 37bis commi 4 , 5 e 6, dpr. 600/73, nelle ipotesi previste dal comma 3 dello stesso articolo 37bis, nonché dall’interpello antielusivo ad esso correlato, in tutti i casi di accertamento di pratiche elusive. Il che oggi non è.