La disapplicazione, da parte del Giudice nazionale non di ultima istanza, di una decisione della Corte Costituzionale, nel caso in cui questa contrasti con il diritto comunitario: critica ed effetti
La disapplicazione, da parte del Giudice nazionale non di ultima istanza, di una decisione della Corte Costituzionale, nel caso in cui questa contrasti con il diritto comunitario: critica ed effetti
Secondo la CGUE, il Giudice nazionale non di ultima istanza può disapplicare una sentenza della Corte Costituzionale, laddove la ritenga in contrasto con il diritto comunitario.
Tale decisione, se da un lato può apparire coerente con il principio costituzionale dell’adattamento automatico del diritto interno a quello comunitario (art. 10 Costituzione), dall’altro lato tuttavia non tiene conto del fatto che nella stessa Costituzione norma comunitaria e norma nazionale assumono pari rilevanza, senza alcuna subordinazione della seconda rispetto alla prima. Inoltre, una simile decisione dovrebbe, coerentemente, comportare non soltanto l’attribuzione, al Giudice nazionale di ultima istanza, di un vero e proprio “obbligo” di rinvio pregiudiziale, in contrasto con “la facoltà” prevista dall’art. 267 TFUE, ma anche la declaratoria di illegittimità costituzionale di pressochè “tutte” le norme nazionali attualmente in contrasto con quelle comunitarie, declaratoria che, a quel punto, potrebbe (anzi: dovrebbe), sempre per coerenza, essere operata direttamente dal Giudice non di ultima istanza: quest’ultimo, se può disapplicare una decisione della Corte Costituzionale, potrà anche dichiarare, egli stesso direttamente, come illegittime le norme nazionali per contrasto con il diritto comunitario.
According to the CJEU, the non-last resort national judge can disapply a ruling of the Constitutional Court, where he deems it to be in conflict with community law.
This decision, while on the one hand may appear consistent with the constitutional principle of the supremacy of community law (art. 10 of the Constitution), on the other hand, however, does not take into account the fact that in the Constitution itself, community law and national law take on equal importance, without no subordination of the second with respect to the first. Furthermore, such a decision should, coherently, entail not only the attribution, to the national judge of last resort, of a real "obligation" to refer for a preliminary ruling, in contrast with the "option" provided by the art. 267 TFEU, but also the declaration of constitutional illegitimacy of almost "all" national regulations currently in conflict with community ones, declaration which, at that point, could (indeed: should), again for the sake of coherence, be made directly by the Judge not of last resort: the latter, if he can disapply a decision of the Constitutional Court, will also be able to declare, himself directly, how national rules are illegitimate due to conflict with community law.
L’art. 267 TFUE, nel disciplinare il rinvio pregiudiziale alla CGUE, precisa che quando la questione relativa alla validità e/o all’interpretazione delle norme comunitarie viene sollevata dinanzi al Giudice nazionale di ultima istanza, ossia ad un’Autorità Giurisdizionale avverso le cui decisioni non è prevista alcuna impugnazione, quest’ultima è tenuta a rivolgersi alla CGUE. La ratio di tale obbligo risiede in ciò: proprio perché la decisione del Giudice di ultima istanza non è impugnabile, si vuole evitare che quest’ultima, attraverso tale decisione, voli la norma comunitaria irrimediabilmente, e cioè senza che il ricorrente possa adire la CGUE segnalando la violazione della medesima. Pertanto, il Giudice nazionale di ultima istanza non può decidere “in modo autonomo” quand’è che una norma nazionale sia conforme al diritto comunitario e quando invece non lo sia, e quindi non può essa, dinanzi ad una richiesta di rinvio pregiudiziale, “autonomamente” stabilire che la norma nazionale in realtà è pienamente conforme al diritto dell’Unione e che pertanto la suddetta richiesta è infondata: questo lo deve decidere la CGUE.
La CGUE Sez. I, con la sentenza del 26.09.2024, C-792/22, ha affermato il seguente principio: “il principio del primato del diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che esso osta alla normativa di uno Stato membro in base alla quale gli organi giurisdizionali nazionali di diritto comune non possono, a pena di procedimenti disciplinari a carico dei loro membri, disapplicare d’ufficio decisioni della Corte costituzionale di tale stato membro, sebbene le ritengano, alla luce dell’interpretazione fornita dalla Corte, in contrasto con il diritto comunitario”.
Premesso quanto sopra, bisogna vedere se la Corte Costituzionale, nonostante la tendenziale primazia del diritto dell’Unione, mantenga un’autonomia tale da poter essa decidere, con provvedimento non impugnabile e quindi definitivo, che la norma nazionale non viola la norma comunitaria. Se si opta per questa soluzione, allora non ha neanche senso porsi il problema se il giudice nazionale, non di ultima istanza, possa disapplicare la decisione della Corte Costituzionale ritenendo che essa violi il diritto comunitario: infatti, se la Corte Costituzionale ha il potere di stabilire principi che vanno contro il diritto comunitario, potere che evidentemente deve basarsi su una presupposta superiorità, in quel determinato ambito, del diritto nazionale, allora viene eliminata alla radice l’eventualità che un giudice nazionale, non di ultima istanza, possa “lamentare” la violazione, ad opera della Corte stessa, del diritto comunitario, e possa quindi entrare in contrasto con quanto deciso da quest’ultima.
Se, invece, si dovesse accertare che la Corte Costituzionale è tenuta, sempre e comunque, ad uniformarsi al diritto comunitario, allora occorre comunque verificare fino a che punto il potere del Giudice nazionale non di ultima istanza di discostarsi dalla sentenza della Corte, disapplicandola, possa essere considerato legittimo alla luce di quella che è la disciplina nazionale del potere giurisdizionale, la quale attribuisce alla Corte Costituzionale la funzione di supremo Giudice della conformità delle leggi nazionali alla Carta costituzionale.
Un’indagine di questo genere non può che essere fatta avendo come riferimento proprio la Costituzione, essendo questa la “legge fondamentale” dell’ordinamento. Se, in base a questa, lo Stato – inteso come totalità dei soggetti, anche giurisdizionali, che lo rappresentano – deve automaticamente conformarsi al diritto comunitario, allora anche il Giudice non di ultima istanza deve considerarsi legittimato a difendere tale diritto, anche nel caso in cui la Corte Costituzionale non lo abbia fatto, in quanto, non facendo così, egli lederebbe la Costituzione, la quale prevale su qualsivoglia legge nazionale riguardante il riparto di attribuzioni tra Giudice di ultima istanza e Giudice non di ultima istanza.
Ai sensi dell’art. 10 della Costituzione, “l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. Quest’obbligo di “conformazione” sancisce senza dubbio il primato del diritto comunitario. Diverso sarebbe stato il discorso nel caso in cui l’art. 10 avesse previsto che l’ordinamento si conforma alle norme comunitarie “solo nel caso in cui queste siano compatibili con i principi generali dell’ordinamento medesimo”. In questa seconda ipotesi, il limite della “compatibilità” avrebbe reso possibile ritenere che la Corte Costituzionale fosse effettivamente legittimata ad adottare un’interpretazione in contrasto con quella fornita dalla CGUE. Ma tale limite non è contemplato dalla Costituzione.
Inoltre, va rilevato che, ex art. 117 Cost., le Regioni, nelle materie di loro competenza, “partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari”. Ora, se la Costituzione attribuisce alle Regioni – che sono organismi di natura non giurisdizionale – il potere di contribuire attivamente alla creazione delle norme comunitarie, può risultare difficile immaginare che la Corte Costituzionale possa adottare principi contrari a tali norme basandosi sul fatto che queste ultime violano le norme nazionali. Se veramente, prima di approvare una norma (od un principio) a carattere comunitario, si dovesse ogni volta verificare la reale compatibilità della stessa ai principi dell’ordinamento nazionale, allora il sopra citato art. 117 dovrebbe essere modificato nel senso di prevedere che debba essere proprio la Corte Costituzionale a venire coinvolta nel procedimento di approvazione della norma comunitaria, perché ciò sarebbe la dimostrazione del fatto che, in assenza della suddetta compatibilità, lo Stato – e, per esso, la Corte Costituzionale - è legittimato a non recepire i principi contenuti nella norma medesima. Ma la Corte non ha tale potere, che spetta invece alle Regioni. Cosa si può dedurre da ciò? Che la supremazia del diritto comunitario su quello nazionale viene data per scontata: se è proprio la Costituzione – e cioè la legge che la Corte Costituzionale è chiamata a difendere – ad affidare alle Regioni, anziché alla stessa Corte, il potere di concorrere alla formazione degli atti normativi comunitari, quest’ultima non potrà, successivamente, sancire principi contrari a quelli contenuti nei predetti atti, perché essa, così facendo, andrebbe contro la stessa Costituzione. Tanto più che, ai sensi dell’art. 120 Cost., “il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria”.
Si rifletta, tuttavia, su quanto segue.
Se veramente l’ordinamento nazionale dovesse adattarsi automaticamente al diritto comunitario in virtù di un principio, assolutamente incontrovertibile, di prevalenza di quest’ultimo, non vi sarebbe bisogno che, ogni qual volta vi sia un trattato internazionale cui aderire, si debba adottare – come prevede l’art. 80 Cost. – una legge con la quale le Camere “autorizzano” la ratifica del tratto stesso. La ratio – unica e sola – di quest’ “autorizzazione” risiede proprio nella necessità di verificare preventivamente che il trattato non contrasti con i principi generali dell’ordinamento nazionale: in mancanza, l’autorizzazione non dovrebbe poter essere concessa, e di conseguenza il trattato non dovrebbe essere ratificato.
Il fatto che l’art. 117 della Costituzione affidi alle Regioni (peraltro solo nelle materie i loro competenza) il compito di partecipare all’emanazione degli atti normativi comunitari, non può essere utilizzato a riprova della supremazia del diritto comunitario, in quanto poi le Regioni debbono, in quella sede, valutare l’incidenza che un’eventuale adesione all’atto comunitario avrebbe sul sistema costituzionale, il quale continua a rappresentare – per le Regioni così come per lo Stato – il principale ordinamento al quale garantire attuazione.
A ciò si aggiunga che, ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, il potere legislativo deve essere esercitato “nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Non è stabilita alcuna gerarchia tra le due fonti, ossia non si dice che il potere legislativo deve essere esercitato, in primo luogo, nel rispetto dei vincoli comunitari, e, solo in subordine, nel rispetto della Costituzione. In linea generale, le disposizioni contenute nella Costituzione sono poste sullo stesso piano di quelle derivanti dal diritto comunitario.
Si consideri poi l’importanza della Legge 234 del 24.12.2012 (“Norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea”) – di seguito “Legge” – la quale, all’art. 6, prevede che il Presidente del Consiglio oppure il Ministro per gli affari europei “assicura alle Camere un'informazione qualificata e tempestiva sui progetti di atti legislativi dell'Unione europea”, predisponendo una relazione che dia conto, tra l’altro, dei seguenti aspetti:
- “il rispetto da parte del progetto del principio di attribuzione, con particolare riguardo alla
correttezza della base giuridica, e la conformità dello stesso ai principi di sussidiarietà e di
proporzionalità”;
- “una valutazione complessiva del progetto e delle sue prospettive negoziali, con l'evidenziazione
dei punti ritenuti conformi all'interesse nazionale e dei punti per i quali si ritengono necessarie od
opportune modifiche”.
Le Camere possono adottare nei confronti del Governo atti di indirizzo, ma quest’ultimo può anche discostarsi da tali atti, fornendo adeguata motivazione (art. 7). Inoltre, il Parlamento, in merito alla conformità del progetto ai principi di sussidiarietà e proporzionalità, emette un parere motivato (art. 8), che, tuttavia, non è previsto come “vincolante”. Il Parlamento può apporre sul progetto una riserva di esame parlamentare, ma “il Governo può procedere alle attività dirette alla formazione dei relativi atti dell'Unione europea anche in mancanza della pronuncia parlamentare” (art. 10 comma 3).
Ebbene, la Legge, attribuendo al Governo il potere di discostarsi dalle indicazioni del Parlamento, nonostante che quest’ultimo abbia individuato, nel progetto di atto legislativo dell’Unione, dei profili di incompatibilità con “l’interesse nazionale” (vedi art. 6), contrasta con l’art. 80 della Costituzione, il quale riserva solo e soltanto alle Camere il potere di autorizzare la ratifica di un trattato, che, a sua volta, rappresenta e costituisce “la norma base” del vincolo nazionale nei confronti del diritto comunitario.
Come si può constatare, quindi, la Costituzione non è “univoca” nel disciplinare il rapporto tra il diritto nazionale ed il diritto comunitario. Essa, talvolta, proclama la supremazia del secondo sul primo, in altri casi invece pone entrambi sul medesimo piano, senza prevedere espressamente alcun vincolo di subordinazione.
Alla luce di ciò, pertanto, la soluzione forse meno compromettente appare essere quella di adottare il seguente criterio. Quando è il diritto comunitario a far salve le norme previste dal diritto nazionale, il problema non si pone in quanto l’applicazione di quest’ultimo da parte della Corte non potrà certo configurare una lesione della norma unionale, e quindi non vi è alcun bisogno che il Giudice nazionale non di ultima istanza, decidendo in senso contrario alla Corte, intervenga a “salvare” il diritto comunitario, in quanto, appunto, è proprio quest’ultimo a preservare l’autonomia del diritto interno. Quando, invece, il diritto comunitario prevede la prevalenza della norma UE, attribuire al Giudice nazionale non di ultima istanza il potere di decidere in senso difforme dalla Corte Costituzionale, a motivo del fatto che questa ha violato il diritto comunitario, potrebbe rivelarsi fondato su quanto previsto dagli artt. 10 e 117 Costituzione.
Tuttavia, una considerazione critica in merito al principio affermato dalla CGUE nella sentenza in commento, è la seguente.
Se si attribuisce ad un Giudice nazionale non di ultima istanza (“organo giurisdizionale di diritto comune”, come lo definisce la sentenza stessa) il potere di decidere in senso contrario a quanto stabilito dalla Corte Costituzionale e ciò al fine di preservare la supremazia del diritto comunitario, supremazia che invece la Corte Costituzionale aveva negato, allora si deve avere la coerenza di prevedere, in capo allo stesso Giudice, un vero e proprio “obbligo” di rinvio pregiudiziale, e non soltanto la semplice facoltà di rinvio. Il Giudice non di ultima istanza, se deve essere – secondo la CGUE – il custode ed il tutore della prevalenza del diritto comunitario, allora dovrebbe essere obbligato a rivolgersi alla stessa CGUE ogni qual volta appaia esservi un contrasto tra norma comunitaria e norma nazionale, senza che ad egli possa residuare alcun margine di apprezzamento discrezionale. Invece, l’art. 267 TFUE attribuisce a tale Giudice solo la facoltà, e non l’obbligo, di adire la CGUE, il che rende il principio di cui alla sentenza in commento incoerente con quanto stabilito dal TFUE.
Inoltre, a questo punto, tutte le norme nazionali le quali non prevedano il primato del diritto comunitario sul diritto interno, dovrebbero essere qualificate come contrastanti con l’art. 10 della Costituzione, e pertanto dovrebbero essere dichiarate illegittime dalla Corte Costituzionale, e non da quest’ultima, ma direttamente dal Giudice nazionale di ultima istanza. Quest’ultimo, infatti, se è legittimato a disapplicare una decisione della Corte Costituzionale assumendo che la stessa viola il diritto comunitario, dovrebbe allora poter dichiarare direttamente l’illegittimità costituzionale di una norma ritenuta in contrasto con tale diritto.
P. es., l’art. 10 della Legge 212/2000 – Statuto del Contribuente – prevede che “limitatamente ai tributi unionali, non sono altresi' dovuti i tributi nel caso in cui gli orientamenti interpretativi dell'amministrazione finanziaria, conformi alla giurisprudenza unionale ovvero ad atti delle istituzioni unionali e che hanno indotto un legittimo affidamento nel contribuente, vengono successivamente modificati per effetto di un mutamento della predetta giurisprudenza o dei predetti atti”. Quando il contribuente, facendo leva su una giurisprudenza comunitaria favorevole, abbia maturato un legittimo affidamento in merito al fatto di non essere tenuto al pagamento di alcun tributo, la non sussistenza del debito tributario diviene una “certezza”, e ciò anche nel caso in cui successivamente la medesima giurisprudenza muti il proprio orientamento ritenendo che invece il debito sussista. Ebbene, la norma pone una limitazione importante a tale tutela: quest’ultima viene apprestata solo per quanto riguarda i tributi di natura comunitaria; non si dice che, anche per i tributi nazionali, la presenza di una giurisprudenza comunitaria favorevole al contribuente impedisce di ritenere sussistente il debito tributario, e ciò sembra incrinare il presunto primato del diritto comunitario; un primato simile imporrebbe che, anche per i tributi nazionali, il contribuente potesse far leva sul diritto comunitario ad egli favorevole, ma così non è. Quindi, in riferimento ai tributi nazionali, ciò che può determinare un legittimo affidamento del contribuente è solo la giurisprudenza nazionale, e non anche quella comunitaria.
P. es., l’art. 2652 n. 9 bis c.c – in merito alle domande di revocazione contro le sentenze soggette a trascrizione per le cause previste dall'articolo 391-quater del codice di procedura civile (ossia il ricorso proposto avverso le sentenze definitive il cui contenuto è stato dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo contrario alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali ovvero ad uno dei suoi Protocolli – stabilisce quanto segue: “la sentenza che accoglie la domanda non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda”. Mentre, per quanto riguarda il ricorso per revocazione ordinaria, e cioè quello di cui all’art. 395 c.p.c., il diritto del terzo acquirente prevale sul diritto del ricorrente solo nel caso in cui la domanda giudiziale sia stata trascritta dopo che siano decorsi 5 anni dalla trascrizione della sentenza impugnata, invece, per quanto riguarda il ricorso per revocazione straordinaria (appunto, quello dell’art. 391 quater c.p.c.), basato sul fatto che la sentenza contrasta con le norme comunitarie, il diritto del terzo acquirente prevale sul diritto del ricorrente anche nel caso in cui la domanda giudiziale sia stata trascritta prima che siano decorsi 5 anni dalla trascrizione della sentenza impugnata. Ciò suscita dubbi in quanto la violazione – tra l’altro preventivamente acclarata da parte della Corte Europea – delle norme comunitarie, dovrebbe comportare il riconoscimento di una maggiore tutela nei confronti del ricorrente, nel senso di prevedere – analogamente a quel che accade per la revocazione ordinaria (basata sulla violazione delle norme nazionali) – che la sentenza di accoglimento del ricorso per revocazione tuteli il terzo solo ove la domanda giudiziale sia stata trascritta dopo 5 anni dalla trascrizione della sentenza impugnata.
Come si può vedere, la questione è estremamente complessa, ma, se la decisione della CGUE verrà adottata da oggi in poi quale criterio di risoluzione del conflitto tra norma comunitaria e norma nazionale, con la conseguente facoltà del Giudice nazionale non di ultima istanza di decidere in contrasto con una sentenza della Corte Costituzionale assumendo quest’ultima essere lesiva del diritto comunitario, ciò non potrà che comportare, quale effetto a catena, la declaratoria di illegittimità costituzionale di “tutte” le norme nazionali attualmente in contrasto con il diritto sopra citato. A quel punto, tanto varrebbe che fosse lo stesso Giudice a dichiarare tale illegittimità, sostituendosi alla medesima Corte Costituzionale …