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Quali risparmi dalla riforma delle Province

Non passa giorno senza che qualche illustre commentatore, assiduo frequentatore dei talk show televisivi, non si soffermi su mirabolanti risparmi che deriverebbero dalla soppressione delle Province.

A sentire tali illustri interventi, tale atto salvifico consentirebbe di qualificare l’azione del Governo come davvero riformatrice e permetterebbe di scongiurare l’aumento dell’IVA, di finanziare la soppressione dell’IMU, di assicurare la riduzione della pressione fiscale sul lavoro.

Proprio qualche giorno fa', in una nota trasmissione televisiva, passando da un intervento all’altro, il risparmio è lievitato da 1,7 miliardi ad oltre due miliardi.  Qualcuno insiste addirittura nel ritenere che si risparmierebbe l’intera spesa delle Province che ammonta a circa 10 miliardi dopo i recenti tagli della spending review.

E’ talmente diffusa la foga demagogica che nessuno ricorda le funzioni oggi svolte dalle Province che comunque andranno garantite e per l’esercizio delle quali è destinata gran parte della spesa.

Solo per ricordare le principali:

a) viabilità;

b) costruzione, manutenzione e gestione degli edifici scolastici di istruzione superiore;

c) tutela dell’ambiente (gestione rifiuti, emissioni in atmosfera, scarichi, valutazione di impatto ambientale, ecc.) e difesa del suolo;

d) pianificazione territoriale;

e) trasporto pubblico locale (servizio extraurbano);

f) politiche attive del lavoro e centri per l’impiego;

g) formazione professionale;

h) protezione Civile;

i) caccia e pesca;

j) polizia provinciale;

k) assistenza scolastica ai disabili sensoriali e trasporto scolastico (per le scuole superiori) per i disabili;

l) turismo;

m) assistenza;

n) funzioni di indirizzo e di coordinamento delle attività dei Comuni, assistenza tecnica ed amministrativa agli enti locali del territorio provinciale.

Qualcuno forse può sostenere che non si tratta di funzioni e servizi fondamentali?

I commentatori in questione plaudono – giustamente – alla decisione del Governo di destinare finalmente risorse per la manutenzione degli edifici scolastici, ma contemporaneamente dimenticano che sono proprio le Province ad avere la competenza per l’edilizia scolastica superiore  insieme ai Comuni che si occupano degli edifici della scuola dell’obbligo.

Tali illustri commentatori – anche a voler ritenere che i dati che da anni l’UPI cerca di far conoscere nella quasi totale indifferenza di quanti si ostinano a sostenere tesi non supportate da valutazioni complete – ignorano le stime diffuse ottimisticamente dal Governo Monti a sostegno della riordino delle Province.

Quindi dati diffusi dallo stesso governo che ha avviato con legge la soppressione di alcune Province.

Ebbene il rapporto curato dal Ministro Giarda, conclude che in base alla spesa pro capite stimata per le 51 nuove province individuate a seguito del riordino e dell’accorpamento, si possono stimare risparmi di spesa pari a circa 370 milioni.

Più recentemente il rapporto sul coordinamento della finanza pubblica della Corte dei Conti, presentato al Senato il 28 maggio scorso, conclude che dall’abolizione totale delle Province, i risparmi stimati supererebbero di poco i 750 milioni pur rilevando che sia per i profili politico-istituzionali, sia per quelli organizzativi e di economicità, il ridisegno del governo territoriale delle funzioni amministrative appare piuttosto complesso nell’attuazione pratica.

Allora, alla luce di questi dati ufficiali, come si fa ancora a sostenere la tesi di risparmi di miliardi?

Autorevolezza e deontologia professionale suggerirebbero maggiore approfondimento di questioni di tale rilevanza per i servizi ai cittadini anziché rincorrere il facile consenso delle tesi anticasta.

Nessun sostenitore dell’abolizione totale si è mai soffermato sulle funzioni e sui servizi. Non si comprende come si possa tanto superficialmente immaginare – per compiacere i tanti fautori dell’abolizione e per facili consensi – la soppressione di un livello di governo senza minimamente preoccuparsi sulle conseguente in tema di erogazione dei servizi.

Al contrario, una riforma seria ed efficace, deve partire dalle funzioni e dall’individuazione dell’ambito territoriale migliore per il loro esercizio.

Come sottolineato da illustri costituzionalisti, bisognerebbe seriamente procedere ad un organico processo attuativo della riforma del Titolo V della Costituzione, incentrato su tre assi principali.

1) Valorizzazione dell’autonomia come responsabilità. Comuni e Province (o città metropolitane) devono essere considerati come enti di governo delle rispettive comunità, titolari di una sfera di autonomia che non è loro concessa, ma che si configura quale elemento significativo di una condizione istituzionale che la Carta riconosce perché intrinseca alla loro ragione d’essere, ferma restando ovviamente l’unità e l’indivisibilità del sistema.

2) Riconoscimento di centralità e pari dignità dei soggetti costitutivi della Repubblica ai sensi dell’art. 114 Cost. senza alcuna gerarchia, ma semmai qualificando i ruoli istituzionali dei diversi soggetti del sistema. Da qui, allora, la necessità che il ruolo delle Regioni si limiti al carattere legislativo e programmatorio, mentre l’amministrazione e la gestione dei servizi pubblici deve essere incentrata sulle amministrazioni comunali e provinciali.

3) Chiarificazione delle funzioni dei diversi soggetti del sistema, che sono poi l’aspetto che comporta la maggiore spesa ed i maggiori costi, evitando sovrapposizione di interventi sulla medesima materia. La nuova Carta delle Autonomie, il cui esame si è bloccato nel corso della passata legislatura, dovrebbe essere la base fondamentale di una vera riforma, fuori dagli slogan e dalle proposte demagogiche;

4) Autonomia finanziaria che deve, ai sensi della Costituzione, essere costruita sulla base di tributi propri, dei quali l’ente territoriale sia titolare, e nell’ambito dei quali esso eserciti la propria potestà impositiva. L’autonomia finanziaria dovrebbe consentire di reperire direttamente i mezzi occorrenti all’ente titolare attraverso una propria imposizione tributaria, deliberata dalla collettività locale,  seppure mitigata dall’intervento dello Stato anche per un necessario principio di perequazione e di omogeneità delle funzioni esercitate. Lo Stato dovrebbe dunque intervenire solo con finanziamenti indiretti, per far sì che le prestazioni erogate siano adeguate ed uniformi per tutti i cittadini, ovunque si trovino, con un intervento a carattere solo complementare rispetto al finanziamento locale. Autonomia e responsabilità possono attuarsi soltanto se gli amministratori locali rispondono direttamente dell’utilizzo delle risorse di fronte alla collettività.

Soltanto sulla base di questi principi si potrà davvero trovare il migliore assetto organizzativo delle Istituzioni della Repubblica, superando così sia resistenze alla riforma sia luoghi comuni privi di reale fondamento.

Non passa giorno senza che qualche illustre commentatore, assiduo frequentatore dei talk show televisivi, non si soffermi su mirabolanti risparmi che deriverebbero dalla soppressione delle Province.

A sentire tali illustri interventi, tale atto salvifico consentirebbe di qualificare l’azione del Governo come davvero riformatrice e permetterebbe di scongiurare l’aumento dell’IVA, di finanziare la soppressione dell’IMU, di assicurare la riduzione della pressione fiscale sul lavoro.

Proprio qualche giorno fa', in una nota trasmissione televisiva, passando da un intervento all’altro, il risparmio è lievitato da 1,7 miliardi ad oltre due miliardi.  Qualcuno insiste addirittura nel ritenere che si risparmierebbe l’intera spesa delle Province che ammonta a circa 10 miliardi dopo i recenti tagli della spending review.

E’ talmente diffusa la foga demagogica che nessuno ricorda le funzioni oggi svolte dalle Province che comunque andranno garantite e per l’esercizio delle quali è destinata gran parte della spesa.

Solo per ricordare le principali:

a) viabilità;

b) costruzione, manutenzione e gestione degli edifici scolastici di istruzione superiore;

c) tutela dell’ambiente (gestione rifiuti, emissioni in atmosfera, scarichi, valutazione di impatto ambientale, ecc.) e difesa del suolo;

d) pianificazione territoriale;

e) trasporto pubblico locale (servizio extraurbano);

f) politiche attive del lavoro e centri per l’impiego;

g) formazione professionale;

h) protezione Civile;

i) caccia e pesca;

j) polizia provinciale;

k) assistenza scolastica ai disabili sensoriali e trasporto scolastico (per le scuole superiori) per i disabili;

l) turismo;

m) assistenza;

n) funzioni di indirizzo e di coordinamento delle attività dei Comuni, assistenza tecnica ed amministrativa agli enti locali del territorio provinciale.

Qualcuno forse può sostenere che non si tratta di funzioni e servizi fondamentali?

I commentatori in questione plaudono – giustamente – alla decisione del Governo di destinare finalmente risorse per la manutenzione degli edifici scolastici, ma contemporaneamente dimenticano che sono proprio le Province ad avere la competenza per l’edilizia scolastica superiore  insieme ai Comuni che si occupano degli edifici della scuola dell’obbligo.

Tali illustri commentatori – anche a voler ritenere che i dati che da anni l’UPI cerca di far conoscere nella quasi totale indifferenza di quanti si ostinano a sostenere tesi non supportate da valutazioni complete – ignorano le stime diffuse ottimisticamente dal Governo Monti a sostegno della riordino delle Province.

Quindi dati diffusi dallo stesso governo che ha avviato con legge la soppressione di alcune Province.

Ebbene il rapporto curato dal Ministro Giarda, conclude che in base alla spesa pro capite stimata per le 51 nuove province individuate a seguito del riordino e dell’accorpamento, si possono stimare risparmi di spesa pari a circa 370 milioni.

Più recentemente il rapporto sul coordinamento della finanza pubblica della Corte dei Conti, presentato al Senato il 28 maggio scorso, conclude che dall’abolizione totale delle Province, i risparmi stimati supererebbero di poco i 750 milioni pur rilevando che sia per i profili politico-istituzionali, sia per quelli organizzativi e di economicità, il ridisegno del governo territoriale delle funzioni amministrative appare piuttosto complesso nell’attuazione pratica.

Allora, alla luce di questi dati ufficiali, come si fa ancora a sostenere la tesi di risparmi di miliardi?

Autorevolezza e deontologia professionale suggerirebbero maggiore approfondimento di questioni di tale rilevanza per i servizi ai cittadini anziché rincorrere il facile consenso delle tesi anticasta.

Nessun sostenitore dell’abolizione totale si è mai soffermato sulle funzioni e sui servizi. Non si comprende come si possa tanto superficialmente immaginare – per compiacere i tanti fautori dell’abolizione e per facili consensi – la soppressione di un livello di governo senza minimamente preoccuparsi sulle conseguente in tema di erogazione dei servizi.

Al contrario, una riforma seria ed efficace, deve partire dalle funzioni e dall’individuazione dell’ambito territoriale migliore per il loro esercizio.

Come sottolineato da illustri costituzionalisti, bisognerebbe seriamente procedere ad un organico processo attuativo della riforma del Titolo V della Costituzione, incentrato su tre assi principali.

1) Valorizzazione dell’autonomia come responsabilità. Comuni e Province (o città metropolitane) devono essere considerati come enti di governo delle rispettive comunità, titolari di una sfera di autonomia che non è loro concessa, ma che si configura quale elemento significativo di una condizione istituzionale che la Carta riconosce perché intrinseca alla loro ragione d’essere, ferma restando ovviamente l’unità e l’indivisibilità del sistema.

2) Riconoscimento di centralità e pari dignità dei soggetti costitutivi della Repubblica ai sensi dell’art. 114 Cost. senza alcuna gerarchia, ma semmai qualificando i ruoli istituzionali dei diversi soggetti del sistema. Da qui, allora, la necessità che il ruolo delle Regioni si limiti al carattere legislativo e programmatorio, mentre l’amministrazione e la gestione dei servizi pubblici deve essere incentrata sulle amministrazioni comunali e provinciali.

3) Chiarificazione delle funzioni dei diversi soggetti del sistema, che sono poi l’aspetto che comporta la maggiore spesa ed i maggiori costi, evitando sovrapposizione di interventi sulla medesima materia. La nuova Carta delle Autonomie, il cui esame si è bloccato nel corso della passata legislatura, dovrebbe essere la base fondamentale di una vera riforma, fuori dagli slogan e dalle proposte demagogiche;

4) Autonomia finanziaria che deve, ai sensi della Costituzione, essere costruita sulla base di tributi propri, dei quali l’ente territoriale sia titolare, e nell’ambito dei quali esso eserciti la propria potestà impositiva. L’autonomia finanziaria dovrebbe consentire di reperire direttamente i mezzi occorrenti all’ente titolare attraverso una propria imposizione tributaria, deliberata dalla collettività locale,  seppure mitigata dall’intervento dello Stato anche per un necessario principio di perequazione e di omogeneità delle funzioni esercitate. Lo Stato dovrebbe dunque intervenire solo con finanziamenti indiretti, per far sì che le prestazioni erogate siano adeguate ed uniformi per tutti i cittadini, ovunque si trovino, con un intervento a carattere solo complementare rispetto al finanziamento locale. Autonomia e responsabilità possono attuarsi soltanto se gli amministratori locali rispondono direttamente dell’utilizzo delle risorse di fronte alla collettività.

Soltanto sulla base di questi principi si potrà davvero trovare il migliore assetto organizzativo delle Istituzioni della Repubblica, superando così sia resistenze alla riforma sia luoghi comuni privi di reale fondamento.