Spendere e spandere per catturare il consenso
Spendere e spandere per catturare il consenso
Il 10 gennaio 2012 veniva inviata questa lettera a Varese news:
«Le nostre istituzioni hanno una presenza di facciata che non trova riscontro al loro interno e tutto è legato a due fattori: la decadenza culturale della politica con l’imbarbarimento di coloro che la praticano e l’aver pianificato la società seguendo modelli corporativi e clientelari. I valori tradizionali della politica, inerente la gestione della cosa pubblica, vengono sostituiti con quelli molto più volgari della sussistenza quotidiana. Le esigenze materiali di chi deve dedicarsi a tempo pieno alla politica ha fatto si che tutto sia legato all’interesse economico e allo stato sociale che esprima potere. Pertanto l’incollarsi alle poltrone diventa prassi. La politica intesa come un servizio che prevede assunzioni di responsabilità e sacrifici si adegua, sempre di più, ad una cultura che ha molta attenzione per il suo orticello solo per i frutti che può dare nell’immediato e il futuro diventa una variabile relativa. Un elettorato scarsamente reattivo ha fatto si che la consultazione elettorale sia poco più di un formale approvazione delle liste presentate dai partiti, un rapporto che degenera in abulia se non quando ci sono presupposti di opportunismo. Da qui parte una realtà ineludibile che vede sempre più l’emersione di figure mediocri che non significative. La qualità dell’azione politica e direttamente proporzionale al livello di chi la esprime e questo giustifica la necessità di ricorrere al tecnico per risolvere i problemi che la politica avrebbe dovuto prevenire se solo avesse fatto il suo dovere. I partiti avendo assunto il ruolo di soggetto politico e non di strumento rompono la logica che li vorrebbe solutori dei problemi della collettività. Infatti quando il partito si trasforma in filtro, selezionando i temi in base a logiche di opportunismo che curino gli interessi personali, perde la sua peculiarità e diventa tutela di una “casta” che sviluppa un linguaggio proprio, una morale propria e azioni che la dissociano dal mondo reale. E’ sempre più difficile trovare distinzioni fra personaggi politici di diversa appartenenza in quanto è palese una sottointesa complicità quando i temi riguardano il loro interesse. La loro azione è sempre più in parallelismo rispetto alla dimensione che vive e opera nel paese; la prima impressione è che quanto di più deprecabile esiste nella società sia in piena sintonia con loro, mentre la parte più onesta e produttiva ne è estromessa. La Democrazia, la più grande conquista civile, rischia di morire a causa di una classe politica che ha perso il senso delle istituzioni e che, pur di sopravvivere, ha vanificato la certezza del diritto. Va ritrovato il senso della cosa pubblica o la collettività non avrà più chi parla in suo nome; la soluzione sta nel cambiare, al più presto, l’attuale classe politica che ci vorrebbe rappresentare ma non ne è all’altezza perché fuori dal tempo.»
Sono passati dodici anni ma la situazione direi che è peggiorata.
Scrive la prof. Veronica De Romanis nel suo “Il pasto gratis, dieci anni di spesa senza costi (apparenti)”, Frecce Mondatori 2024, pag. 117, che: “Dal 2013 tutti i partiti si sono misurati con responsabilità di governo. E tutti, indistintamente, hanno proposto pasti gratis. Gli italiani li hanno inizialmente premiati, ma anche velocemente abbandonati per votare chi prometteva un pranzo ancora più ricco. Il filo conduttore che ha accumunato queste politiche è stato far credere ai cittadini che le misure adottate non avessero costi. Qualcuno l’ha fatto in modo più sfacciato, sostenendo che le spese avrebbero avuto un impatto sulla crescita così forte da potersi ripagare: cioè che ci avremmo persino guadagno. Altri, invece, questi costi li hanno nascosti con espedienti contabili come le clausole di salvaguardia oppure assicurando tagli mai realizzati. E, invece, il conto da pagare c’è, e si chiama debito pubblico. Che però non è stato considerato un problema effettivo. L’abilità di chi ha guidato il Paese è stata quella di far passare il messaggio che prendere risorse a prestito non rappresentasse un onere. Così nel tempo, si è silenziosamente accumulato un enorme stock di passivi che è aumentato, non solo durante la pandemia, raggiungendo il picco del 155% del PIL, ma anche nella fase di ripresa, quella tra il 2013 e il 2019 in cui l’economia cresceva in media dell’1% l’anno. Negli stessi anni, il debito medio dell’area dell’Euro, invece scendeva dal 93% del PIL al 90%. In particolare, in Grecia la riduzione è stata di quasi 10 punti percentuali, dal 178,2% del PIL al 171%. L’unico dei grandi stati dell’Unione ad avere registrato una dinamica crescente come la nostra è stata la Francia, seppure a livelli ben inferiori: in rapporto al PIL, il debito è salito dal 94,4% del 2013 al 111% del 2023. L’Italia è quindi un caso a sé, e lo dimostra il fatto che lo spread nell’autunno del 2023 è stato superiore a quello ellenico di ben 30 punti base. Questo colossale banchetto ha un prezzo elevatissimo. Basti pensare che, nello stesso anno, la spesa per interessi sfiorava il 3,8% del PIL, la percentuale più elevata in Europa, pari a circa 80 miliardi, ossia una dozzina di miliardi in più rispetto alla spesa destinata all’istruzione, un comparto cruciale per garantire un futuro proprio a quei giovani a cui sono lasciati di debiti. Una riflessione seria su questi dati è stata praticamente assente dal dibattito pubblico. L’argomento è diventato scomodo, complicato, urticante tanto per le forze di Governo quanto per quelle all’opposizione, quanto – infine – per la stessa opinione pubblica. Il motivo di questa specie di amnesia collettiva è abbastanza semplice: se il debito non è un costo, allora può diventare un perfetto strumento a cui ricorrere per finanziare una spesa pubblica sempre più elevata. Non è infatti un caso se al debito è stato cambiato il nome nell’intento di offrire ai cittadini un racconto positivo».
La politica dei bonus a pioggia, culminati con il 110% che ha generato una voragine, con un costo regressivo perché pagato anche da chi la casa non ce l’ha, deve essere fermata, perché nel 2024 per interessi sul debito dovremo pagare circa 85 miliardi che aumenteranno a 100 negli anni successivi, così sottraendo risorse ai bisogni primari delle famiglie.
Il nuovo patto di stabilità europeo ci impone dei rientri e ci sarà poco da scherzare.
Al 31 marzo 2024 il debito pubblico era pari a 2.436 miliardi con una vita media dello stock di tutte le emissioni alla stessa data di 7,01 anni secondo i dati del MEF
Rispetto alla media europea, ricorda sempre la Prof. De Romanis, le famiglie italiane sono prudenti, risparmiano, non compiono il passo più lungo della gamba.
Oggi si lavora di più ma è un lavoro che crea povertà e così la fuga delle giovani generazioni all’estero, sembra inarrestabile.
Spetta alla classe politica invertire la rotta.
La colpa non è dell’Europa ma di chi fatica a rispettare le regole.
Chiudere il circolo vizioso dei pasti gratis non è però più rinviabile.