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Privato mio

Prospettive
Ph. Fabio Toto / Prospettive

Un augurio? Un proposito per l’anno nuovo?

Così Buscaroli iniziava il nuovo anno nel “colonnino” di quarantadue anni fa.

 

Il riflusso, il ritorno al privato. L’anno si apre con queste parole d’ordine, cui il suono oscuro garantirà giusti successi. Vedremo. Quante volte le udremo, prima che passino di moda. Ma fra i tanti che le biascicheranno senza capirle, ci sono anche quelli per cui costituiscono un programma preciso. Si rifluisce, ossia si fugge, del “pubblico”, dalla sfera statale e collettiva, contaminata dalla lebbra delle istituzioni: ci si rifugia nella stanza dei bottoncini domestici, della professione, dell’aziendina redditizia.

Il “privato” è una botte, che ciascuno può riempire come vuole: il materialista ci metterà il denaro; il mistico, l’amore di Dio. Basta che ci sia. Il “privato” è l’Italia eterna che ritrova se stessa. Crollano, con tonfi sinistri, le invenzioni astratte, le costruzioni artificiali, lo Stato boccheggiante, con le sue leggi grottesche, le grandi aziende in coma, le previdenze pletoriche, l ideologie fallite, i partiti e i sindacati.

Gli italiani scoprono che “in una società moderna non c’è un solo rarefatto circuito di decisione, ma hanno peso milioni e milioni di sfere decisionali”. Cito dal “rapporto Censis”, che della nuova “ideologia del privato”, è la Magna Carta, il Manifesto.

I “milioni di sfere decisionali” siamo noi, si dicono quegli italiani cha hanno già vinto la prima battaglia: i beneficiari del “boom nero”, quella che occultando professioni, aziende e guadagni agli occhi e alle mani devastatrici del “pubblico”, hanno salvato mezza baracca, come proclamano gli ideologi del furbastro. Sono i milioni di ricchi che sconcertano gli stranieri, ormai abituati a pensarci un Paese povero: sono gli emergenti sommersi, i più forti turisti a largo raggio, i più assetati bevitori di champagne di tutto il mondo.

Avevo detto che sarei tornato sull’argomento. Ed ecco perché: perché sulla realtà già acquisita del “boom nero” sta nascendo una filosofia o, come dicono ormai anche le monache di clausura, una nuova strategia. È una premessa per altre soddisfazioni. E si capisce.

Se una economia nazionale può inabissarsi in parte così cospicua, vuol dire soltanto che lo Stato ispira sfiducia, ma che la merita. E allora, l’anarchia, dopo avere sviluppato gli anticorpi della sopravvivenza, si organizza per sostituirlo. Le polizie parallele invadono le strade, le banche pullulano di pistoleri, lo spazzino privato comparso a Roma avrà legioni di seguaci, si parla di pompieri privati, le banche hanno i loro corrieri, prosperano le agenzie di recapiti, alla morte delle ferrovie rimedieremo con auto e camion; se le ali nazionali non volano, decolleremo da Zurigo: soltanto i poveracci faranno cause in tribunale, i grandi interessi non battono più le aule giudiziarie e si compongono in arbitrati; le aziende offrono ai dipendenti polizze svizzere di assicurazione al posto delle pensioni soggette alla rapina, la Confindustria progetta una sua università, che farà sorgere uno stuolo di licei e scuole medie all’antica. Non accadrà più quel che si vide mesi fa in un convitto statale, dove un allievo fu cacciato perché faceva troppi esami. Al buio elettrico sopperiremo con centraline autonome, organizzeremo reti di radiotelefoni, e così via. Perfino quando riscuote le imposte, lo Stato confessa la sua impotenza: i soli quattrini che riesca ad acciuffare sono quelli che i privati gli pagano spontaneamente con l’autotassazione, o estorcendoli ai dipendenti.

Su questa visione, che alcuni battezzano già neoliberismo, proliferano vigorose illusioni.

Dispiace confessarlo, perché sarebbe bella l’idea di risorgere così, facendo appello al nostro passato, al vecchio “privato mio” che conosciamo bene, anche senza scomodare l’ombra di Francesco Guicciardini. Sarebbe pur bello lasciare il “pubblico” andare al cimitero, e noi riscoprire le contrade, le corse del Palio, e poi magari i Comuni, e a voler fare le cose in grande, anche le Signorie.

E tutto ciò, mentre il “pubblico” offre l’ultima sciagurata prova della sua impotenza nelle acque davanti all’aeroporto palermitano, dove la Marina che ebbe l’Artiglio e che affondava le corazzate inglesi nuotandogli sotto nei porti, non sa ritrovare il relitto di un quadrimotore in due settimane di ricerche.

Ma è proprio qui che le illusioni si spezzano. Non siamo più nel buon Medio Evo, il “pubblico” ha assunto dimensioni talmente enormi, che non è più possibile scansare il suo corpaccio devastato, ce lo troveremo tra i piedi dovunque si vada. Questa illusione di dritti farà si che le energie più sveglie, le intelligenze più attive, invece di dedicarsi in qualsiasi modo alla ricostruzione dello Stato, se ne allontaneranno vertiginosamente, combinando una di quelle catastrofi che riescono per l’appunto soltanto ai furbi, e che i popoli fessi (come Germania e Giappone per fare due esempi facili, popoli reputati fessi per aver voluto morire in piedi, combattendo fino all’ultima cartuccia) sanno realizzare soltanto a metà.

Da “il Giornale”, 5 gennaio 1979