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Riflessioni sparse sui rapporti intercorrenti tra art. 15 TULPS ed art. 650 c.p.

La perfezione
Ph. Giacomo Martini / La perfezione

Riflessioni sparse sui rapporti intercorrenti tra art. 15 TULPS ed art. 650 c.p.
 

1. In una società liquido-moderna come l’attuale, connotata da rapidi stravolgimenti, la scienza giuridica talora fatica a ricostruire le categorie formali indispensabili per la sua propria coerenza logica e, pertanto, per l’adempimento dell’alto compito che le spetta nel preservare la tranquillitas civium.

La difficoltà testé enunciata è riconducibile agli interventi normativi incessanti che innestano nuovi istituti su antiche strutture dogmatiche, così da disorientare la giurisprudenza e la dottrina che, senza porre in essere alcuno sforzo ricostruttivo, sovente si limitano ad un’applicazione meccanica di disposizioni esente da qualsiasi respiro teoretico

Copiosi mutamenti sono in atto nel nostro ordinamento giuridico, senza la comprensione dei quali la giurisprudenza incorrerà in aporie giuridiche e decisioni ispirate a una logica casistica scarsamente soddisfacente sul piano euristico e, ciò che più conta, nient’affatto garantista.

Infatti, senza la chiarezza sistematica derivante dall’ermeneutica applicata secondo il metodo giuridico, la predittibilità delle decisioni dei giudici diviene inadeguata per uno Stato di diritto, l’orientabilità dei comportamenti dei consociati scema fortemente e la stessa tenuta logica ed intellettuale dell’ordinamento vacilla, contraddicendo ai principi sillogistici aristotelici che – dall’illuminismo in avanti – contraddistinguono le legislazioni moderne liberali.

 

2. Un’introduzione di natura filosofico-giuridica potrebbe apparire eccentrica in relazione alla tematica, di stretto diritto positivo, che queste brevi note intendono affrontare, e cioè la relazione intercorrente tra l’art. 15 TULPS e l’art. 650 c.p.

Cionondimeno, è nei singoli istituti che si inverano ed implementano i principi generali, e che la trama ordinamentale acquista intrinseca coerenza e correttezza dogmatica.

Il banco di prova della scienza giuridica non si colloca nell’iperuranio della Begriff Jurisprudenz, bensì nelle aule di tribunale dove il diritto si applica quotidianamente.

Nel caso che ci occupa, il vaglio critico di queste fattispecie consente di approfondire, altresì, la valenza di alcuni tralatici concetti giuridici, i quali hanno fortissime ricadute su Istituzioni Statuali anch’esse in profonda trasformazione e necessitanti di una compiuta riflessione teorica che se ne ponga a fondamento ontologico e funzionale.

 

3. Poste siffatte ambiziose premesse, occorre evocare le disposizioni oggetto di questi scritti ed i profili problematici che esse sollevano.

L’art. 650 del c.p., paradigma della cosiddetta norma penale in bianco, è rubricato «Inosservanza dei provvedimenti dell’autorità».

Esso dispone che «chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 206».

Si tratta, dunque, di una figura juris di parte speciale, che sanziona penalmente i comportamenti dolosamente tesi a inottemperare a provvedimenti legittimi emanati in tema di giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico, igiene.

La fattispecie incriminatrice è risalente, ed infatti essa rimonta al 1930, anno di emanazione del codice Rocco.

Il reato contravvenzionale è – presumibilmente – plurioffensivo, in quanto paiono esserne lesi tanto i beni giuridici che tipizzano l’offesa connotando l’oggetto del provvedimento amministrativo, quanto l’autorevolezza e la maestà della Pubblica Amministrazione.

Sebbene le contravvenzioni siano punibili sia a titolo di dolo che a titolo di colpa, la dottrina maggioritaria opina che elemento psicologico di tale reato sia esclusivamente il dolo.

Orbene, a seguito della riforma di cui alla l. 480/1994, è stato introdotto nel TULPS un novellato art. 15, il quale disciplina, specificamente, l’inosservanza dell’invito (rectius: ordine) a comparire davanti all’autorità di pubblica sicurezza, configurandolo come illecito di natura amministrativa e comminando pertanto una sanzione pecuniaria, salvo che il fatto costituisca reato.

Dunque, la disposizione prevede una clausola di salvezza, la quale sostanzialmente limita l’ambito oggettivo di applicazione della norma ai soli casi in cui il fatto non integri gli elementi costitutivi essenziali di un reato.

È chiaro che le disposizioni confliggono, dando luogo al fenomeno giuridico-interpretativo del concorso apparente di norme.

 

4. Semplicisticamente, si sarebbe tentati di accedere a un’ermeneusi piuttosto banale discendente dalla asettica e meccanica lettura delle disposizioni attenzionate.

Infatti, l’art. 15 del Tulps presenta una salvezza (della sussumibilità del caso di specie in una norma penale).

La speculazione dottrinale penalistica ha elaborato, tra le modalità di risoluzione dei cosiddetti conflitti apparenti di norme, la cosiddetta sussidiarietà. Alla luce di tale principio, ove, in un certo caso di specie, siano applicabili più disposizioni, l’una, residuale rispetto all’altra per disposto legislativo, non trova applicazione in luogo della disposizione principale. Dunque, la disposizione sussidiaria trova il suo proprio ambito oggettivo di applicabilità limitato dall’eventuale applicabilità della disposizione che essa sussidia. Naturalmente, l’operatività del principio è identica in qualsivoglia branca dell’ordinamento, e dunque anche ove ricorra un rapporto siffatto tra una disposizione amministrativa ed una penale.

Sicché, si potrebbe ragionare nella guisa che segue.

L’Autorità di Pubblica Sicurezza è preposta alla funzione di pubblica sicurezza, tesa alla salvaguardia dell’interesse pubblico specifico dell’ordine e della sicurezza pubblica. Pertanto, i suoi provvedimenti (modalità estrinsecative della funzione intesa quale attuazione del potere) sono, ontologicamente, inerenti all’ordine ed alla sicurezza pubblica.

Così essendo, la violazione di qualsivoglia provvedimento della Autorità di P.S. integra un reato di cui all’art. 650 c.p., in quanto consiste nella inosservanza di provvedimenti in materia d’ordine e sicurezza pubblica.

Alla luce di quanto esposto, sarebbe chiara la integrale sussumibilità di tutti i comportamenti integranti violazione amministrativa ex art. 15 Tulps nella fattispecie astratta di cui all’art. 650 c.p., in quanto la violazione dell’ordine di presentarsi è, al tempo medesimo, inosservanza di provvedimento amministrativo in materia di ordine e sicurezza pubblica.

Sicché, posta la sussidiarietà dell’art. 15 Tulps rispetto all’art. 650 c.p., la disposizione amministrativa non troverebbe giammai applicazione.

L’art. 15, in estrema sintesi, trova applicazione solo ove il fatto in esso sussumibile non configuri, altresì, reato. Secondo tale interpretazione, tutti i fatti sussumibili nell’art. 15 configurano reato, con la conseguenza che l’art. 15 sarà sempre cedevole rispetto all’art. 650 c.p., che – metaforicamente – lo cannibalizza.

Proprio in ragione di tale ricostruzione sistematica, certa dottrina ha parlato di abrogazione dell’art. 15 Tulps.

 

5. Nondimeno, appare davvero bizzarro che il legislatore, anziché abrogare tout court una disposizione di legge, introduca un articolo prevedente una disciplina priva di campo obiettivo di applicazione.

È pertanto assolutamente contrario a qualsivoglia criterio ermeneutico, oltreché di buon senso, procedere ad arbitrarie intepretationes abrogantes. Queste ultime, in verità, sono sovente discendenti dall’incapacità o dalla malavoglia di cimentarsi in un approccio esegetico nuovo.

Si deve sempre aver conto del brocardo dell’antica saggezza romana, che esprime un principio tuttora valido nell’esperienza civilian, per il quale gli atti vanno letti plus ut valeant quam ut pereant. Il che si riassume, enfaticamente, con la formula della «non pleonasticità del verbo legislativo».

 

6. Se così è, occorre cercare nuove soluzioni di lettura della disposizione, per trarne delle norme differenti. Ma, giunti a questo punto del percorso esegetico, le strade divergono.

Si cercherà di riassumere qui le plurime pronunce della Suprema Corte di Cassazione in ordine a tali problematiche, astraendone la massima e categorizzando i differenti orientamenti emersi nella giurisprudenza di legittimità.

Si riscontrano, essenzialmente, due argomentazioni che si ripetono nelle decisioni, non sporadiche, che l’organo nomofilattico ha emanato in materia.

 

7. Il primo fonda la ratio decidendi sulla speculazione in ordine ai principi cosiddetti risolutivi delle antinomie circa il concorso apparente di norme.

Gli ermellini, in sostanza, riconoscono la specialità della fattispecie di cui all’art. 15 TULPS rispetto a quella ex art. 650 c.p. e pertanto, servendosi rigorosamente del criterio di sussidiarietà imposto dall’art. 15 medesimo, giungerebbero alla conclusione della generalizzata esclusione dell’applicazione dell’art. 15. Infatti, ogniqualvolta avesse a ricorrere un’ipotesi speciale ex art. 15, si dovrebbe applicare – in nome del principio di sussidiarietà preveduto ex lege – la norma penale di cui all’art. 650 c.p.

È per questo motivo che un filone della giurisprudenza di legittimità afferma – con una cadenza stocasticamente non irrilevante – che a regolamentare i rapporti tra le due disposizioni sia non già il principio di sussidiarietà, bensì il principio di specialità (art. 9 l. 689/1981). Con una soluzione di tal guisa, la disposizione di cui all’art. 15 Tulps, in quanto lex specialis in confronto all’art. 650 c.p., reperisce una propria ragion d’essere e una logica nel sistema.

Peccato, tuttavia, che il percorso giuridico tracciato sia censurabile e fuori di ogni canone interpretativo, tanto sul piano teorico-generale quanto sul piano strettamente positivo.

La Suprema Corte di Cassazione, infatti, afferma che laddove tra due norme il rapporto di specialità ed il rapporto di sussidiarietà, il primo prevalga sul secondo ponendosi come da esso inderogabile.

Mediante siffatto argomento, la operatività radicale od assoluta del principio di sussidiarietà, evidenziato come il punctum dolens della disposizione del TULPS che si esamina, è superata, in quanto l’art. 15 troverebbe comunque applicazione (in luogo dell’art. 650 c.p.), ad onta della clausola di salvaguardia, in quanto lex specialis.

Nondimeno, non si condivide – e recisamente – questa ricostruzione proposta dalla S.C.

Infatti, il diritto positivo, per quanto intrinsecamente contraddittorio, non è manipolabile oltre il dato letterale (hard-core), il nucleo di significato comune e non interpolabile.

In caso contrario, tanto i linguisti quanto i filosofi del diritto paventano una Babele giuridica dove si tornerebbe agli antichi e vituperati arcana juris e agli oracola pontificum.

Peraltro, accanto alla lyttera legis, esistono principi di teoria generale del diritto e principi del nostro specifico ordinamento, pur essi ineludibili e non negoziabili.

Pertanto, come non regge in alcun modo la puerile constatazione che si tratti di una svista del legislatore, o il suggerimento che la sussidiarietà operi in confronto di tutti i reati di parte speciale salvo che nei confronti dell’art. 650 c.p. (perché mai? una tale esclusione appare ingiustificata e foriera di un vizio metodologico gravissimo, e cioè il superamento della legge), così non regge il più sottile ma altrettanto fallace raisonnement juridique della S.C.

Infatti, l’interrelazione tra due determinate norme può essere una ed una soltanto. O esse saranno in rapporto di specialità, o di sussidiarietà, o d’assorbimento. Mentre è lapalissiano che una norma potrà avere infiniti rapporti con infinite norme dell’ordinamento (potremmo pensare al concorso formale o persino all’indifferenza), essa potrà avere uno ed un solo typus di rapporto con un’altra, individuata norma.

È come dire che per due punti passa una ed una sola retta.

Se allora la disposizione positiva di cui all’art. 15 TULPS è cristallina nel porre la clausola di salvaguardia a vantaggio dell’applicabilità delle fattispecie criminose, intercorrerà tra quest’articolo e ciascheduna disposizione penale il rapporto di sussidiarietà.

Né peraltro sul piano ordinamentale si potrebbe pervenire ad altra soluzione.

Infatti, principio generale penalistico (ma estensibile per pacifica lettura a tutti i rami del diritto) è il principio di specialità (artt. 15 c.p. e 9 l. 689/1981).

Pertanto regola fondamentale è che lex specialis derogat generali.

Tuttavia, paradossalmente, è proprio la coerente applicazione del principio di specialità ad escludere la sua propria applicazione nel caso di specie. Infatti, lex specialis derogat legi generali: la lex specialis ex art. 15 TULPS, che introduce la clausola di salvaguardia e impone l’operatività del principio di sussidiarietà tra norma amministrativa e norma penale deroga al principio generale di specialità che invece, nel silenzio della singola disposizione sul punto, avrebbe regolamentato i rapporti tra tale illecito e gli altri illeciti preveduti dall’ordinamento.

Come si intuisce, qualsivoglia lettura tesa a sconfessare queste interrelazioni o a circoscrivere l’operatività della clausola di salvaguardia costituisce un’esegesi contra legem, una sovversione del dato positivo che appare non ricevibile dall’interprete che si affidi al metodo giuridico e alla fedeltà all’ius positum.

 

8. Altro filone giurisprudenziale tenta di risolvere questo rompicapo di diritto non già fondando il proprio argumentum sul rapporto tra norme, e quindi con un approccio formalistico, bensì con un approccio di carattere sostanziale.

È questo certamente il sentiero concettuale più consono al fine di dirimere l’annosa questione che ci occupa.

Quindi, siamo giunti ad un primo punto fermo, sul quale la riflessione può consolidarsi: l’inaggirabilità della clausola di salvaguardia. È acquisito teoricamente e dogmaticamente che l’art. 15 TULPS è sussidiario rispetto a tutte le fattispecie criminose, ivi inclusa la ipotesi contravvenzionale di cui all’art. 650 c.p.

Ricorrendo all’insiemistica, occorre allora meditare sulle differenze concettuali e di nozione che consentano di non reputare i due ambiti d’applicazione come l’uno (ex art. 15 Tulps) incluso nell’altro (ex art. 650 c.p.). Una tale aspirazione esegetica impone allora di costruire l’ambito di applicazione dell’art. 15 Tulps come più ampio di quello ex art. 650 c.p., così limitando l’operatività della sussidiarietà e creando un’area determinata di dominio dell’art. 15 Tulps.

Dunque, non tutte le ipotesi di cui all’art. 15 Tulps, in siffatta ottica, dovranno essere parimenti sussumibili nell’art. 650 c.p.

Evidentemente, quest’attività intellettuale non è affatto elementare e presenta molteplici modalità di perfezionamento.

 

9. Una strada seguita da certa giurisprudenza di legittimità insiste sulla parvenza dell’ordine di presentarsi quale provvedimento inerente all’ordine ed alla sicurezza pubblica.

Ad avviso dei giudici supremi, infatti, l’ordine, affinché possa ascriversi all’esercizio della funzione tesa alla tutela del bene-interesse (o dei beni-interessi) «ordine e sicurezza pubblica», dovrebbe specificare nei suoi propri elementi di carattere formale e testuale la propria natura.

In caso contrario, l’avvisato non avrebbe contezza della natura del provvedimento e sarebbe applicabile, in luogo dell’art. 650 c.p., l’art. 15 Tulps.

Quest’interpretazione è scarsamente convincente in punto di diritto, in quanto essa affastella piani concettuali differenti e – come sovente accade – sembra la giustificazione ex post di una petizione di principio.

La ricostruzione della S.C. è un autentico colabrodo logico-giuridico.

Anzitutto, la Cassazione reputa che un provvedimento amministrativo possa ripetere la propria natura dalla motivazione. In questo caso, infatti, il crisma della pertinenza alla funzione di pubblica sicurezza deriverebbe dall’esplicitazione in motivazione delle ragioni di ordine e sicurezza pubblica connotanti l’adozione dell’atto.

Quindi, ceteris paribus, un provvedimento d’invito a comparire è d’ordine pubblico se ciò è espresso nella parte motiva; non lo è se tanto sia omesso.

Questa ricostruzione non convince.

Un provvedimento si qualifica per la sua intrinseca natura, e cioè relativamente alla funzione nel cui espletamento è emanato e in ordine al bene giuridico tutelato.

La motivazione non incide in alcuna misura sulla tipologia provvedimentale; tutt’al più essa ne può essere indice descrittivo nonché sintomo di illegittimità laddove artatamente si sia adottato un provvedimento tipico per uno scopo atipico (vizio di eccesso di potere).

Queste considerazioni valgono anche in un contesto in cui il provvedimento sia estremamente versatile e consono a inscriversi – legittimamente – in disparati procedimenti (e funzioni), com’è nel caso nostro.

Conclusivamente, se il provvedimento d’invito a comparire dinanzi all’Autorità di P.S. è d’ordine pubblico esso lo sarà con o senza motivazione.

Quid juris, allora, in caso d’omessa motivazione?

È palese che in tal caso la disposizione penale sarà inapplicabile, non già tuttavia per carenza della ragione d’ordine pubblico o di sicurezza pubblica, bensì per la carenza del requisito della legittimità del provvedimento (che la disposizione vuole legalmente dato).

In un tempo più risalente, si opinava che in questo caso ricorresse un’ipotesi di disapplicazione del provvedimento amministrativo ad opera del giudice penale.

La dottrina più recente, contra, reputa – condivisibilmente – che in tal caso non si ponga in essere una disapplicazione, ma semplicemente un attento vaglio della tipicità del fatto, la quale in carenza di un requisito di antigiuridicità speciale, non sussiste.

Quindi, quando sia omessa la motivazione, l’art. 650 c.p. non si applica non già perché l’invito a comparire davanti all’autorità di pubblica sicurezza non sia un provvedimento di ordine e sicurezza pubblica, bensì in quanto non si tratta di un provvedimento legalmente dato.

Troverà, in questo caso, applicazione l’art. 15 TULPS?

Per rispondere al quesito ci si deve riferire ai principi del diritto amministrativo, e specificamente al regime di validità degli atti.

Dal momento che il provvedimento amministrativo è annullabile per violazione di legge, incompetenza relativa ed eccesso di potere, la mancanza di motivazione (o la sua insufficienza) determina indubbiamente l’illegittimità dell’atto.

Infatti, si determina violazione di legge per inossequio al disposto dell’art. 3, l. 241/1990. Nondimeno, ove il provvedimento non fosse tempestivamente impugnato, esso diverrebbe inoppugnabile.

Dunque, nel caso di ordine non motivato dato per motivi di pubblica sicurezza sono ipotizzabili, a parere di chi scrive, due fattispecie alternative.

Fermo che il fatto non integra gli estremi ai fini dell’applicazione dell’art. 650 c.p., ove l’invitato impugni tempestivamente il provvedimento, esso sarà rimosso dal mondo del diritto, così che neppure la sanzione amministrativa sarà irrogata.

Per contro, se l’invitato rimane quiescente a fronte dell’emanazione del provvedimento, esso si consolida divenendo inoppugnabile. In questo secondo caso l’art. 15 troverà applicazione, in ragione della circostanza che il fatto non costituisce reato ed è pienamente sussumibile nella fattispecie astratta descritta dal TULPS.

Dalla critica di questa giurisprudenza può già trarsi un primo ambito di applicazione autonomo dell’art. 15 Tulps, che parzialmente si affranca, con tale lettura, dall’art. 650 c.p.

Allorché il provvedimento amministrativo d’invito a comparire sia annullabile (per difetto di motivazione, ma anche per altra causa) e manchi tempestiva impugnazione, sarà applicabile l’art. 15 Tulps, che così si garantisce un proprio spazio operazionale.

Naturalmente, tale lettura implica l’adesione al principio per il quale il rilievo d’illegalità del provvedimento amministrativo non afferisca soltanto ai vizi più gravi, quali inesistenza e nullità, bensì anche al più lieve vizio di annullabilità.

Se al contrario s’accede alla tesi secondo la quale il provvedimento, pur annullabile, è esecutorio ed eventualmente inoppugnabile anche questo spazio, invero piuttosto residuale, è pervaso dall’espansività del disposto dell’art. 650 c.p.

 

10. Il serrato vaglio critico cui si è sinora sottoposta la giurisprudenza di Cassazione evidenzia che un unificante e razionale criterio ordinatore tra gli artt. 15 Tulps e 650 c.p. non è ancora stato rinvenuto dall’organo nomofilattico.

La leva sul principio di specialità si è rivelata un grimaldello contro gli stessi principi generali del sistema, idonea a creare (ove seriamente presa in considerazione) più danni esegetici complessivi che vantaggi settoriali.

L’argomento incentrato sulla motivazione del provvedimento, per contro, costituisce l’esito di un ragionamento confusionario e privo di logica sistematica, autoreferenziale piuttosto che meditato ed esplicitato anche in un’ottica esoprocessuale, di carattere generale e tale da ausiliare la riflessione giuridica ben oltre il singolo caso da decidere.

È, al contrario, in un approccio gnoseologico pluralista che – secondo l’idea che si va esponendo – le interrelazioni tra l’art. 15 TULPS e l’art. 650 c.p. trovano armonica composizione, dissipando le problematiche interpretative sollevate dalla pratica giudiziaria e così, peraltro, confermando taluni pilastri della struttura della teoria generale.

 

11. Come si è posto in rilievo, la tematica fondamentale che emerge da questo arduo combinato disposto è il rapporto tra le due disposizioni de quibus (artt. 15 TULPS e 650 c.p.).

Il punctum dolens consiste nella omnicomprensiva sussumibilità delle ipotesi di invito a comparire nel genus dei provvedimenti per ragione di ordine e sicurezza pubblica di cui all’art. 650 c.p., che frustra qualsivoglia vocazione normativa dell’art. 15 TULPS, il quale resta lettera morta, inutile orpello legislativo destinato a giacere nella inapplicazione.

Tuttavia, attraverso un’analisi involgente i principi generali del diritto penale e del diritto amministrativo, con peculiare riguardo alle specificità del diritto di pubblica sicurezza, è dimostrabile il superamento teorico di questa apparente anomalia sistemica.

 

Il vulnus di fondo delle tesi antecedentemente descritte è, a mio parere, risiedente in un atteggiamento interpretativo poco incline a cogliere le profonde differenze strutturali tra i diversi rami del diritto. Ne nasce, per conseguenza, una notte in cui tutte le vacche sono nere.

Al contrario, per addivenire ad un’ermeneusi soddisfacente e conforme ai principi dell’ordinamento, è assolutamente imprescindibile indagare sì la vis actractiva esercitata dal diritto penale sul diritto di pubblica sicurezza, ma parimenti cogliere la specificità e la singolarità (oserei dire l’irripetibilità) dell’esperienza del diritto amministrativo preventivo, a sua volta settore del diritto di polizia lato sensu inteso.

 

12. L’equivoco dottrinario è, insomma, questo: l’ostinarsi a ragionare ragguagliando categorie tra loro differenti, ad onta del comune nomen juris.

Così argomentando, si procede a coattive equiparazioni discendenti da uno stretto dato letterale esente da qualsiasi sforzo critico-euristico ulteriore.

Per comprendere invece il senso delle due disposizioni, bisogna interpretarle mettendole a sistema con il ramo del diritto cui esse pertengono.

L’art. 650 c.p. è una disposizione afferente al diritto penale, e cioè all’apparato normativo che appresta la repressione dei comportamenti antidoverosi connotati dal maggiore disvalore ordinamentale.

Esso, pertanto, commina le sanzioni di più gravoso rigore, che incidono su beni costituzionalmente protetti.

Alla luce di questa considerazione, il diritto penale (costituzionalmente orientato) può sanzionare legittimamente soltanto le aggressioni (obiettivamente offensive) ai beni giuridici apicali nella scala assiologica dell’ordinamento.

Il carattere estremamente restrittivo della sanzione penale ha indotto tanto la dottrina, quanto la giurisprudenza di legittimità e costituzionale, ad aderire a una visione estremamente residuale del diritto penale, connotandolo – in senso liberale – come extrema ratio.

Sicché, conseguentemente, una simile weltanschauung non ha potuto non incidere anche sul concetto stesso di ordine pubblico.

Nella temperie culturale antecedente, di segno diametralmente opposto, al fine di condurre un controllo pervasivo sul corpo sociale, e di assolutizzare come valore imperativo l’assiologia fascista, il legislatore penale intendeva quali beni giuridici da tutelare l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica, ampie clausole generali che fondavano così un diffuso intervento repressivo.

In particolare, per ordine pubblico s’intendeva il complessivo ordine costituito, e cioè l’ordine politico-sociale discendente dalla struttura verticistica statuale.

Per sicurezza pubblica, invece, la stretta tutela individuale dell’incolumità e dei beni.

Evidentemente, questa ricostruzione categoriale è irricevibile nel moderno ordinamento costituzionale. Infatti, proprio ad evitare derive interpretative nostalgiche, il Costituente del 1948 ha bandito dalla grundnorm repubblicana l’espressione «ordine pubblico», preferendole il più asettico e obiettivo «sicurezza pubblica».

Per tale ragione, com’è stato autorevolmente sostenuto, l’ordine pubblico cosiddetto ideale è una nozione estranea all’ordinamento costituzionale, in quanto si sconfessa la liceità dell’azione repressiva a tutela di istanze culturali e sociali senza alcuna lesione di effettiva offensività a beni giuridici tangibili e tendenzialmente obiettivi (e cioè inerenti a istanze di tranquillitas civium appartenenti non già ad un ordinamento giuridico dato, ma ad esigenze di segno quasi giusnaturalistico, che caratterizzano ogni consorzio umano).

Peraltro, si deve osservare che il codice penale individua un titolo afferente ai delitti contro l’ordine pubblico. Ciò implica che esso, l’ordine pubblico in senso penalistico, deve avere un’accezione più restrittiva della generalità dei fini di tutela del diritto penale complessivamente considerato. Quindi, a rigore, non tutti i reati tutelano l’ordine pubblico in senso stretto.

D’altronde, il diritto penale definisce il compendio dei beni più meritevoli di protezione giusta l’ordinamento giuridico; se l’ordine pubblico penalistico inerisse a tutti questi beni, definiti dallo stesso diritto penale, incorreremmo in una inammissibile circolarità che priverebbe di senso la clausola generale dell’ordine pubblico, di cui si serve il diritto penale stesso per completare la fattispecie astratta di alcune figure criminose. Rinverremmo il significato del concetto indeterminato nello stesso sistema normativo che lo pone al fine di etero-integrarsi, il che appare alogico.

Peraltro, nel senso che andiamo propugnando, pare orientata la stessa Consulta, la quale ha dichiarato incostituzionale l’incriminazione dell’istigazione a disobbedire alle leggi di ordine pubblico (art. 415 c.p.) nella parte in cui tale istigazione non mettesse a repentaglio la pubblica tranquillità.

Si tratta dell’evidente sintomo, e anzi dell’affermazione nell’ordinamento (in quanto le pronunce d’accoglimento della Corte Costituzionale sono fonti del diritto), che l’ordine pubblico penalistico è ordine pubblico materiale.

Dunque, sul piano giuridico-penale l’ordine e la sicurezza pubblica configurano un’endiadi che vuole indicare l’ordine pubblico in senso materiale, concetto giuridico indeterminato da correlare alle esigenze di pacificazione sociale e tranquillitas civium (ne ad arma veniant) di una data comunità politica.

Tutt’al più, a voler valorizzare la dicotomia, che pure sussiste, potremmo pensare ad un ordine pubblico ideale-costituzionale che si giustappone alla sicurezza pubblica intesa quale security delle persone e dei beni, nòcciolo duro di ogni concetto di sicurezza liberale di ascendenza lockiana.

E tuttavia, senza cadere in contraddizione con la premessa regola interpretativa di non pleonasticità, si deve riscontrare che la fusione dei due concetti penalistici di ordine pubblico e sicurezza pubblica seguirebbe, in quest’ipotesi, una scansione temporale e logica assai rigida e consequenziale. Non si tratterebbe, in sostanza, di tirar giù un tratto di penna sul verbo legislativo perché non ci piace, ma piuttosto di osservare l’evoluzione contenutistico-strutturale di due clausole generali che, come zolle oceaniche, dopo un lungo travaglio giungono a compenetrarsi.

 

13. Per contro, l’ordine e la sicurezza pubblica, sul piano del diritto amministrativo preventivo, assumono una dimensione concettuale affatto differente.

Infatti, nonostante la predicata (e veridica) complementarietà del diritto amministrativo di prevenzione al diritto penale, esso presenta dei propri caratteri autonomi specifici sui quali occorre indugiare.

La polizia amministrativa in senso stretto (o polizia di sicurezza) ha, quale deputatio ad finem, la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica. L’elencazione – per vero assai ampia – di cui all’art. 1 del TULPS depone con nitore in tal senso. Orbene, tale tutela si svolge amministrativamente ed è preordinata, come sostenuto da autorevolissima dottrina da tempi risalenti, alla prevenzione dei reati. Dunque, il proprium della polizia di sicurezza consiste nel bene-interesse commessole dalla legge, e cioè la prevenzione dei reati.

Sebbene anche il diritto di pubblica sicurezza, inteso quale branca del diritto amministrativo, presenti connotati di notevole afflittività, è evidente che – su di un piano logico-giuridico – esso costituisca il prius rispetto alla sanzione penale.

L’ordinamento istituisce un’amministrazione di pubblica sicurezza la quale veglia al rispetto dell’ordine e sicurezza pubblica, in particolare con riguardo alla prevenzione dei reati (una tutela ordinamentale, dunque, ante delictum).

È chiaro, allora, che i concetti indeterminati di ordine pubblico e di sicurezza pubblica hanno differenti consistenza e carattere allorché ineriscano al diritto penale od al diritto securitario.

Il primo è un diritto che viene dopo, come la nòttola di Minerva di cui parla Hegel.

Esso cala sui consociati che abbiano delinquito, irrogando la pena, intesa come la negazione della negazione del diritto. Evidentemente, però, una consimile reazione rappresenta comunque, in certo senso, una sconfitta dell’ordinamento complessivamente inteso, in quanto la sanzione penale pur sempre comprime (ragionevolmente e giustificatamente) rilevanti valori costituzionali.

Quindi, esigenze garantiste implicano un’interpretazione fortemente restrittiva delle disposizioni penali, salvaguardando il favor in confronto delle libertà individuali, patrimonio culturale della nostra civiltà giuridica.

Su questo solco, anche il concetto di ordine pubblico, come s’è visto, viene riguardato come ordine pubblico materiale, sostanzialmente coincidente con la sicurezza pubblica. Si tratta, allora, di un’endiadi; probabilmente i due elementi di questa figura retorica nacquero come dicotomici e ad indicare due nozioni diverse, ma ad oggi l’interpretazione è vincolata nel senso di un’equipollenza dei due concetti.

Nel diritto preventivo queste esigenze garantistiche vengono, in buona misura, a cadere. Pur trattandosi di un apparato normativo repressivo, esso non involge drammaticamente il bene costituzionale fondamentale della libertà personale.

Esso ha come finalità l’evitamento della commissione di reati, intesi come le violazioni dei valori i più elevati dell’ordinamento giuridico (in un’accezione sostanziale di illecito penale).

A ben guardare, pertanto, l’ordine pubblico nel senso del diritto preventivo di pubblica sicurezza consiste nella situazione fattuale per cui la collettività si astiene ed è tutelata dalla commissione di reati.

L’ordine pubblico, amministrativamente, è compendiabile in una definitio juris più ampia di quella penalistica, giacché esso attiene, genericamente, alla prevenzione dei reati.

In tal caso, non si ha una circolarità definitoria, come avverrebbe nel diritto penale se l’ordine pubblico fosse la situazione fattuale complessiva di astensione dalla commissione di fatti criminosi.

Nel caso del diritto preventivo l’asserire che l’ordine pubblico consiste nella preservazione dell’ordinamento dai fatti criminosi è pienamente conforme alla funzione attribuita all’Amministrazione di riferimento, in quanto essa ha il compito istituzionale di salvaguardare l’esistenza dello Stato e dei valori da questo innalzati al massimo grado di tutela.

Né una siffatta accezione più lata di quella vigente nel diritto penale lede valori costituzionali genericamente riconducibili al diritto repressivo. Infatti, non si comprimono – nel diritto amministrativo preventivo – gli apicali diritti di libertà nella misura in cui essi sono sacrificati nel diritto penale.

Pertanto, appare costituzionalmente legittimo che lo Stato appresti una tutela di carattere amministrativo-preventivo (e cioè di polizia amministrativa in senso lato) a valori discrezionalmente eletti alla protezione penale.

L’apprezzamento assiologico, peraltro costituzionalmente vincolato, che la dottrina penalistica nega per la nozione d’ordine pubblico in senso penalistico (ove si deve guardare al mero fatto, e si rinvia a concetti di materiale percettibilità), è compatibile con il diritto di polizia tanto per la ontologia del medesimo, il quale mira ad anticipare al conato remoto penalmente irrilevante l’intervento statuale, quanto sotto il profilo garantistico, in quanto quivi non vengono in gioco in misura parossistica i fondamentali diritti costituzionali di libertà.

Pertanto, potremmo affermare che l’ordine pubblico ideale, bandito dal diritto penale del fatto, trova ancora cittadinanza nel diritto di polizia amministrativa.

Tale regressione dell’ordine pubblico ideale, che connota soltanto la clausola generale afferente al diritto di polizia e non già quella propria del diritto penale, dà il senso di uno Stato che non vuole imporre coattivamente, mediante lo strumento penale, la propria visione di fondo, precludendo al giudice penale di valutare caso per caso se venga in rilievo un qualche valore appartenente alla scala assiologica statuale, ma che, nondimeno, non rinuncia al controllo del territorio ed all’implementazione dei principi informatori del proprio schema ideale di riferimento per il tramite del diritto amministrativo.

Se così è, nel diritto amministrativo di pubblica sicurezza l’ordine pubblico consiste nell’ordine pubblico ideale inteso come ordinato svolgimento della vita sociale senza che si inverino situazioni prodromiche al compimento di attività criminose.

Nella medesima branca del diritto, per sicurezza pubblica si intende invece la situazione di tranquillità sociale in cui i cittadini non temono per la propria incolumità fisica e per la salvaguardia dei propri beni.

Dunque, nel diritto di pubblica sicurezza la differenziazione tra le due nozioni persiste, configurandosi l’ordine pubblico come ordine pubblico ideale e la sicurezza pubblica come ordine pubblico materiale.

 

14. Questa duplicità di contenuto dei significanti, variabile a seconda della branca del diritto in cui sono inseriti, resta ferma anche a voler considerare in altra accezione i concetti di ordine e sicurezza pubblica. Si è infatti sostenuto in dottrina che l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica siano due aspetti della medesima, auspicabile condizione: l’ordine pubblico costituirebbe l’oggettivo ordinato svolgimento della vita sociale, mentre la sicurezza pubblica rifletterebbe il personale e soggettivo sentimento di serenità e tranquillità derivante dalla certezza dell’applicazione della legge.

Evocativamente, potremmo definire questa ottica definitoria come teoria della medaglia, avvedendoci che ordine e sicurezza pubblica, in questa prospettiva, sono come due facce della stessa medaglia. L’uno ne è il risvolto esteriore, l’altra guarda all’animus dei consociati.

Aderendo a siffatta teoria è ancor più agevole postulare la strutturale differenza tra i concetti di ordine pubblico/sicurezza pubblica in senso penalistico e quello di ordine pubblico/sicurezza pubblica in senso amministrativo-preventivo.

Infatti, non s’incorrerebbe neppure nella asimmetria per cui nel diritto penale la coppia concettuale costituirebbe un’endiadi, mentre i due elementi conserverebbero un’alterità nel diritto amministrativo.

L’ordine e la sicurezza pubblica penalistici sarebbero riconducibili alla nozione di ordine pubblico materiale; l’ordine e la sicurezza pubblica amministrativistici sarebbero riconducibili all’ordine pubblico ideale.

 

15. Potrebbe obiettarsi, al ragionamento giuridico che precede, l’equipollenza dei due sintagmi preveduti nel TULPS e nell’art. 650 c.p. e, peraltro, la circostanza che le nozioni di ordine e sicurezza pubblica espressi nell’art. 650 c.p. non afferiscono alla materia penale, bensì alla branca amministrativa.

Si potrebbe, insomma, pur ammettendo che l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica penali sarebbero altro dall’ordine e sicurezza pubblica amministrativi, affermare che nell’art. 650 c.p. ci si riferisca proprio alle figurae juris amministrative.

Ciò sarebbe indicato parimenti dal fatto che il concetto di ordine pubblico appare, nel codice penale, sempre scompagnato dall’elemento “sicurezza pubblica”; e che nell’art. 650 c.p. i due ambiti materiali si riferiscano ai provvedimenti amministrativi, con ciò fornendo argomenti indizianti fortemente la natura amministrativa dei due concetti.

Nondimeno, non deve stupire il trasmodamento di significanti amministrativistici in contenuti penalistici.

La figura juris dell’illecito amministrativo, infatti, è introdotta nell’ordinamento giuridico italiano soltanto in epoca repubblicana, e specificamente con il codice della strada.

E tuttavia, la fenomenizzazione di tale peculiare nozione d’illecito non fu – a quel tempo – supportata da un adeguato humus culturale e dottrinale.

Talché fu soltanto con le cosiddette depenalizzazioni che il legislatore costruì una teorica dell’illecito amministrativo, con ciò disegnando, altresì, i suoi rapporti con l’illecito penale, dal quale ripete molteplici caratteri.

Con ciò si vuole porre l’accento sulla circostanza che il codificatore del 1930 ebbe in conto la necessità di predisporre un apparato sanzionatorio a difesa della majestas della P.A. e dotato di forte deterrenza rispetto all’inossequio ai provvedimenti amministrativi. Tanto, perché non esisteva nell’ordinamento giuridico altra reazione sanzionatoria in relazione a siffatta inosservanza.

In questa chiave deve allora leggersi l’art. 650 c.p. il quale cita, non a caso, le più rilevanti funzioni amministrative, poste a tutela di beni-interessi fondamentali.

Senza l’ipotesi contravvenzionale di cui all’art. 650 c.p., eventuali violazioni di tali provvedimenti sarebbero rimaste impunite.

Se così è, l’ordine pubblico, la sicurezza pubblica, l’igiene, la giustizia debbono intendersi – secondo un’interpretazione storica, e cioè secondo la intentio auctoris – nell’accezione strettamente amministrativistica delle nozioni.

Tuttavia, la scienza ermeneutica teorizza altresì un’interpretazione evolutiva, conseguente all’oggettivazione (entfremdung) del disposto legislativo, il quale – come l’opera d’arte – si discosta dalla volontà del creatore, per assurgere a entità autonoma dall’occasio legis e che deve perciò leggersi in combinazione sistematica con il tessuto ordinamentale.

Si tratta della trasposizione in termini giuridici del concetto vichiano di eterogenesi dei fini.

Pertanto, venute meno le esigenze di tutela che ne avevano determinato l’introduzione; sorte copiose figure d’illecito amministrativo a ricoprire la medesima ratio prima pertinente al 650 c.p.; invalsa una visione del diritto penale come sussidiario, extrema ratio dell’ordinamento inidoneo a punire mere violazioni amministrative prive di particolare offensività; tutto ciò avvenuto, non può continuarsi a pensare l’art. 650 c.p. come riferibile ai provvedimenti amministrativi individuati secondo un criterio fondante sull’interesse pubblico specifico di estrazione, appunto, amministrativistica.

Una corretta esegesi evolutiva postula che anche questa disposizione si adegui ai canoni del rinnovato diritto penale costituzionalmente orientato.

Dunque, i beni-interessi ivi compendiati debbono essere riletti, reinterpretati in chiave penalistica.

Né tale operazione ermeneutica pare esente da riscontri plausibili sul terreno codicistico. Infatti i valori tutelati in via amministrativa trovano un pieno riscontro nella sfera parallela penale, sebbene – in quest’altro ramo del diritto – di contenuto meno esteso e più pregnante.

In materia di igiene, si rievocano gli artt. 438-445 c.p., laddove si evidenzia che la salute, intesa quale forma di incolumità pubblica, costituisce un bene giuridico di carattere penalistico specificamente inteso e valutato dal codificatore del 1930.

L’appiglio positivo per una lettura restrittiva rispetto a quella precedente, ai fini di una lettura in combinato disposto degli artt. 650 c.p. e 438-445 c.p., sembra essere assai saldo e compatibile coi principi.

Del pari, la giustizia richiamata ex art. 650 c.p. può ben essere collegata idealmente al bene giuridico tutelato dal codice penale agli artt. 361 ss.

Infine, quanto all’ordine e alla sicurezza pubblica, già molto inchiostro s’è speso per dimostrare come – ad oggi – tali due nozioni in senso penalistico divergano da quelle proprie del diritto amministrativo; ed è proprio a queste prime che l’art. 650 c.p. si rifà, nell’attuale sistema.

 

16. Chiarite queste distinzioni concettuali, si può allora lumeggiare il rapporto intercorrente tra le due disposizioni oggetto della presente trattazione.

 

Non tuti i provvedimenti emanati dall’Autorità di Pubblica Sicurezza nell’espletamento delle proprie funzioni attengono all’ordine ed alla sicurezza pubblica in senso penalistico.

Non vi è, cioè, una precisa relazione di specialità tra i provvedimenti dell’Autorità di P.S. e i provvedimenti adottati per ragione di ordine e sicurezza pubblica ex art. 650 c.p.

Infatti, i provvedimenti emanati dall’Autorità di Pubblica Sicurezza ineriscono alle ragioni di ordine pubblico e sicurezza pubblica ex art. 650 c.p. soltanto allorché attengano alla tranquillitas civium in senso materiale.

Allorché, per contro, essi abbiano ad oggetto la mera prevenzione dei reati, senza involgere l’ordine pubblico materiale, non integreranno gli estremi della fattispecie ex art. 650 c.p.

Quando si parla di mera prevenzione di reati si ha riguardo ad attività di evitamento inerenti ai reati cosiddetti di pura creazione legislativa, alle ipotesi di carattere contravvenzionale bagatellare non ancora depenalizzati, e a tutti i casi di anticipato intervento amministrativo su comportamenti, pur penalmente rilevanti, inidonei a turbare la pubblica quiete.

Ai fini della certezza del diritto tale determinazione, ad avviso di chi scrive, dev’essere comunque realizzata in astratto e non mai in concreto, ex ante e non mai ex post.

In siffatti casi la pronuncia di proscioglimento, in caso d’inizio dell’azione penale, dovrà rivestire la formula assolutoria piena, in quanto il fatto non sussiste, mancando, nella visione tripartita del reato, la stessa tipicità.

Riassumendo: laddove il provvedimento adottato nell’esercizio delle funzioni di pubblica sicurezza abbia ad oggetto l’ordine pubblico materiale sarà integrato il 650 c.p.; in caso contrario, no.

 

17. Possiamo così ritornare all’oggetto principale della nostra analisi, e cioè ai rapporti tra art. 15 Tulps ed art. 650 c.p.

L’invito a comparire è – in sé e per sé – neutro.

Esso, cioè, non è da solo indicativo della qualità d’ordine pubblico che mira a tutelare, potendo questo strumento essere adottato tanto per la salvaguardia dell’ordine pubblico materiale, quanto per la tutela dell’ordine pubblico ideale (più generale ed includente l’ordine pubblico materiale).

Pertanto una soluzione valevole una volta per tutte non è pensabile, in questo contesto giuridico.

Tuttavia, questa considerazione non significa – nient’affatto – rinunziare alle esigenze di certezza del diritto prefisseci all’inizio dello scritto.

Infatti, posto l’obbligo di motivazione generalmente prescritto per i provvedimenti amministrativi, l’invito a comparire ostenterà la propria ragion d’essere e – per relationem – potrà indursi quale sia la natura del provvedimento, e cioè se esso sia o no sussumibile nella disposizione penale ex art. 650 c.p.

Sicché, ove l’invito a comparire si inscriva nelle funzioni della P.A. aventi ad oggetto il bene-interesse «ordine pubblico materiale» – ricorrente esempio è il caso dei controlli in materia d’immigrazione –, l’eventuale inottemperanza al provvedimento integrerà il reato ex art. 650 c.p. con conseguente inapplicabilità dell’art. 15 TULPS, alla luce dell’operatività del principio di sussidiarietà.

Laddove, invece, il provvedimento d’invito abbia ad oggetto la mera prevenzione di reati non afferente a esigenze materiali di tranquillitas civium, l’inossequio del provvedimento non costituirà reato, bensì illecito amministrativo. Si pensi al caso di prevenzione inerente ad alcuni reati contro la proprietà intellettuale o la pubblica amministrazione.

 

18. Ma non basta.

L’operatività dell’art. 15 TULPS si estende a molteplici altre fattispecie.

Non tutte le funzioni dell’Autorità di Pubblica Sicurezza sono riconducibili alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica.

Infatti, talora l’Autorità di P.S. espleta funzioni di polizia amministrativa in senso stretto, e non già di polizia di sicurezza.

Tanto si evince anzitutto dal contenuto delle attività, quanto dal bene-interesse tutelato.

Mentre infatti nella tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica tali beni-interessi vengono immediatamente in rilievo come oggetto diretto della cura della P.A., nel caso della polizia amministrativa in senso stretto la tutela dell’ordine pubblico e sicurezza pubblica non è immediata, bensì mediata dalla cura di una res, il cui riverbero, indirettamente, configura tutela dell’ordine pubblico e sicurezza pubblica.

Orbene, conferma di quanto postulato è che – fermo il radicamento esclusivo della funzione di ordine e sicurezza pubblica in capo allo Stato arg. ex art. 118 Cost. – molteplici compiti prima attribuiti all’Amministrazione di P.S. sono stati trasferiti agli Enti Locali.

Talché, appare evidente che non tutte le attribuzioni dell’Amministrazione di Pubblica Sicurezza sono effettivamente sussumibili nelle attività a tutela dell’ordine e sicurezza pubblica, ma altresì sconfinano talora nella attività di polizia amministrativa stricto sensu.

Giacché l’art. 15 Tulps evoca l’invito emanato dall’Autorità di Pubblica Sicurezza, prescindendo da qualsivoglia specificazione in tema di caratteri della funzione dalla medesima esplicata, se ne arguisce che l’illecito amministrativo ricorrerà anche allorché l’invito non sia emanato nell’esercizio di funzioni di pubblica sicurezza, senza che in alcun modo possa configurarsi reato in quanto l’ordine e la sicurezza pubblica, quali beni-interessi statuali, in questo contesto non vengono affatto in gioco.

È questa un’altra area oggettuale di applicazione esclusiva dell’art. 15 TULPS.

19. Altra ipotesi che viene in rilievo, all’uopo della ricostruzione dell’ambito oggettivo esclusivo di applicazione dell’art. 15 TULPS, è quella di un errore, di fatto o di diritto, in ordine alla natura dell’invito.

Nel caso di error facti è evidente l’inapplicabilità della sanzione penale, alla luce dell’art. 47 c.p. Nondimeno, secondo i principi generali, il soggetto risponderà comunque del fatto di cui ha avuto contezza.

Pertanto, ponendo che l’autore – erroneamente – ritenesse che l’invito avesse ad oggetto un fatto non attinente all’ordine pubblico, egli non sarà punibile secondo il comb. disp. artt. 650 e 47 c.p.

Nondimeno, sarà applicabile l’art. 15 TULPS, in quanto l’invitato era comunque a conoscenza del fatto che l’invito provenisse dall’Autorità di P.S. e, scientemente, non ha osservato il comando ivi contenuto (arg. ex art. 47 co.2).

 

20. Analoga soluzione di diritto s’impone nel caso della culpa juris.

Secondo la pronuncia additiva di cui alla sent. 364/1988, ignorantia legis excusat, ove essa sia inevitabile. Laddove l’invitato, connotato da ignoranza inevitabile/scusabile, non ottemperi all’ordine dell’Autorità di P.S. non sarà applicabile l’art. 650 c.p. Tuttavia, anche in tal caso, considerato peraltro che la norma di cui all’art.5 c.p. (secondo la modificazione introdotta dalla Consulta), mitigante il principio generale per cui ignorantia legis non excusat, non si rinviene in alcun luogo dell’ordinamento, certamente sarà applicabile l’art. 15 Tulps.

In quest’ipotesi il fatto non costituisce reato, e dunque, alla luce del principio di sussidiarietà, l’art. 15 Tulps può trovare piena applicazione.

 

21. Sinteticamente, allora, ad avviso di chi scrive, l’art. 15 del TULPS trova autonomo campo d’applicazione prescindendo dall’art. 650 c.p. nei seguenti casi:

a) nel caso in cui l’Autorità di P.S. svolga funzioni che decampino dalle nozioni di ordine pubblico e sicurezza pubblica tout court, configurando le medesime mera attività di polizia amministrativa in senso stretto;

b) nel caso in cui la funzione di pubblica sicurezza non abbia ad oggetto la prevenzione di reati satellitanti attorno alla nozione di ordine pubblico in senso penalistico, cioè tranquillità e pacificazione sociale bensì di altri reati, la cui commissione non implica perturbamento dell’ordine pubblico materiale;

c) nel caso in cui il provvedimento d’invito, non motivato, non sia stato tempestivamente impugnato, e ciò quand’anche l’invito miri a tutelare l’ordine pubblico in senso materiale;

d) nel caso di errore di fatto sul fatto o di errore di diritto su norma extrapenale ex art. 47 c.p. (ove fosse comunque applicabile l’art. 650 c.p.);

e) nel caso di ignoranza inevitabile/scusabile dell’autore (ove fosse comunque applicabile l’art. 650 c.p.).

 

22. Occorre allora tentare di tracciare qualche conclusione dall’analisi che si è svolta.

Non ci si può esimere dall’osservare che – come la fenomenologia sociale – l’ordinamento è proteiforme. E ciò in quanto, tanto un’ottica evenemenziale quanto in una visione teleologica o persino provvidenziale della storia, mutevole è il consorzio umano.

L’ancoraggio ad antiche nozioni e la messianica considerazione del legislatore appartengono ad una mitologia giuridica illuminista oramai tramontata. Con ciò non si intende in nessuna maniera supervalutare lo juristen-recht, enfatizzando – con altrettanta superficialità e partigianeria – il ruolo sociale ed intellettuale della classe dei giuristi. E ciò anche perché ritorna ciclicamente l’interrogativo: quis custodiet custodes?

Tuttavia, dalla lettura delle disposizioni emerge con nettezza come l’ordinamento viva di una propria vita, tutte le sue parti richiamandosi reciprocamente come un metafisico ed armonioso cosmo.

Non si può pensare che l’introduzione di nuovi principi e di nuove discipline non implichi la modificazione delle norme astraibili da disposizioni pur rimaste immutate.

All’avvento della Costituzione Repubblicana, alla legge n. 121/1981, alla legge di depenalizzazione e alle stesse modificazioni del TULPS non possono rimanere sordi la giurisprudenza e i dottori, quando si tratti di armeggiare con le disposizioni afferenti a una Polizia ormai presidio delle istituzioni democratiche e sempre più orientata all’attività preventiva intesa come garanzia dei cittadini dall’oppressione.

In quanto Amministrazione civile, sebbene ad ordinamento speciale, devono essere enfatizzate le sue specificità rispetto al diritto penale ed all’Autorità Giudiziaria. E ciò proprio nel senso di un diritto amministrativo e di un’Istituzione che vengono prima del diritto penale e del P.M.

È questo che ormai si legge nel diritto positivo; sono queste le norme che si evincono dal sistema, se solo si riesce a guardare con occhi nuovi e con il coraggio di lanciarsi aldilà dello steccato tradizionalista di idee stantie.