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Quando l’avvocatura non ebbe paura

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Quando l’avvocatura non ebbe paura

"Non c' è un solo colpevole", grida l’avvocato Alberto Pisani, "colpevoli siamo tutti"

Le direttive dei Procuratori Capo, da Vecchione a Roma a Caselli a Palermo, erano chiare e miravano ad intimidire gli avvocati che si astenevano.

Ricordate  siamo a novembre del 1998 e riviviamo con una punta d’invidia per la desolante situazione attuale l’ultima “battaglia” dell’avvocatura che è valsa la pena combattere.

Quando la Corte Costituzionale scardinò alcune norme che regolavano l’assunzione della prova nel processo penale, che riguardavano in particolare la testimonianza di soggetti che dopo avere reso dichiarazioni al pubblico ministero nel corso delle indagini si presentavano al dibattimento e dichiaravano, in veste di coimputati o imputati in procedimenti connessi, che intendevano avvalersi della facoltà di non rispondere, così che le dichiarazioni precedentemente rese divenivano utilizzabili al fine del decidere, gli avvocati penalisti diedero vita ad una vibrata protesta e si astennero dalle udienze per una settimana.

Il Presidente della Repubblica definì gli avvocati sovversivi, disse che l’astensione rappresentava una aperta ribellione assolutamente intollerabile, peggio che andare in piazza armati perché significa sovvertire l’ordine costituito, un cattivo esempio dato al popolo italiano.

Gli avvocati penalisti in quel caso, come d’altronde in tutte le occasioni in cui ci siamo astenuti dalle udienze, non perseguivano un interesse di categoria ma tutelavano il diritto ad un giusto processo, che poi vedrà la luce l’anno successivo con l’introduzione in Costituzione nel novembre del 1999 dell’articolo 111.

Il 13 novembre 1998 il compianto Giuseppe Frigo, intervistato da Radio Radicale spiegava le ragioni dello sciopero, il titolo dell’intervista radiofonica:
"Lo sciopero degli avvocati a seguito della sentenza della Corte Costituzionale che ha modificato l'articolo 513 del Codice di procedura penale", per chi volesse ascoltarla ecco il link.

Lo sciopero degli avvocati a seguito della sentenza della Corte Costituzionale che ha modificato l'articolo 513 del Codice di procedura penale (13.11.1998) (radioradicale.it)


La spinta per la riforma dell’art. 111 della Costituzione avvenne anche grazie all’impegno dell’associazione degli avvocati penalisti, l’Unione delle Camere Penali Italiane, che non rimase muta ed inerme di fronte allo stravolgimento del nuovo codice di procedura penale.

Dal quotidiano “La Repubblica” del 10 novembre del 1998 leggiamo delle inchieste che fioccavano nei confronti degli avvocati che aderivano allo sciopero indetto dall’Unione delle Camere penali.

Due inchieste preliminari per interruzione di pubblico servizio avviate a Roma e Palermo.

Minacce di avviarne nuove in altre Procure italiane. Lo sciopero indetto dall' Unione delle Camere penali si trasforma in uno scontro frontale tra avvocati e magistrati.

Sono bastate le prime dichiarazioni di astensione dalle udienze per scatenare una reazione a catena che potrebbe portare anche ad una autodenuncia di massa. Urla, proteste, collegi giudicanti che si sono trovati a dirimere continue e spesso violente battaglie verbali che per un soffio non sono sfociate in risse. Tutta colpa dell' articolo 513, l' articolo del codice di procedura penale che fino a qualche giorno fa obbligava il testimone imputato in un procedimento connesso a ribadire nell' aula del dibattimento le circostanze che aveva riferito nel segreto della stanza del pubblico ministero. L' inserimento del nuovo articolo era stato osteggiato da moltissime procure e la sua conformità ai principi della Costituzione era stata proposta davanti alla Consulta.

La risposta è arrivata dopo alcuni mesi. Ed è stata una risposta che ha ridimensionato il valore del 513, attribuendo all' imputato di un procedimento connesso il ruolo di testimone nel procedimento in cui è chiamato a deporre. Le reazioni sono state violentissime.

Gli avvocati, i primi a risentire delle conseguenze del verdetto della Corte costituzionale, hanno gridato allo scandalo denunciando una forte limitazione dei diritti della difesa.

Le Camere penali si sono riunite e hanno proclamato a livello nazionale uno sciopero di sei giorni. Sciopero, nella giustizia, significa astensione dalla udienze.

E visto che ogni imputato, durante il dibattimento, ha il diritto di essere assistito da un legale, l' astensione degli avvocati provoca di fatto la paralisi dei processi.

Così è stato ieri. A Torino, Genova, Milano, Firenze, Roma, Napoli, Reggio Calabria, Palermo e Catania.

Ma la sorpresa è arrivata dentro le aule dei Tribunali. Diversi sostituti, all' apertura della prima udienza, si sono alzati in piedi e hanno letto ai presidenti una direttiva scritta di pugno dal capo del loro ufficio. Una per tutte: quella distribuita a Roma dal procuratore capo Salvatore Vecchione. Due paginette, su carta intestata, nelle quali il responsabile dell' ufficio romano fa riferimento ad una serie di sentenze della Corte Costituzionale sugli scioperi della classe forense.

Quindi, conclude: "Da quanto esposto sembra ricavarsi quanto meno la irritualità della manifestazione così come attualmente indetta, poiché la motivazione di urgenza doveva essere contenuta nella deliberazione della Giunta dell' Unione camere penali".

Quindi, un invito a tutti i sostituti: "Si raccomanda di esporre al Tribunale o al Gip parere di questo ufficio sulla irritualità della propugnata astensione". L' invito è stato seguito alla lettera da molti pm che hanno contestato la legittimità dell' astensione, invitando il Tribunale a dare inizio ai dibattimenti e obbligando i legali a presenziare.

La reazione dei penalisti è stata immediata. Il presidente della Camera penale di Roma, Alberto Pisani, ha steso una nota contestando i punti sollevati dal procuratore: "La posizione della procura è evidentemente fondata sulla mancata conoscenza della delibera di indizione dell' astensione nella quale sono spiegati i motivi di urgenza della protesta".

Aggiungeva nel pomeriggio lo stesso Pisani: "Ci si attacca ai dieci giorni di preavviso. Ma si tratta di una questione di lana caprina.

In realtà, noi non protestiamo per la sentenza emessa dalla Corte Costituzionale, che ovviamente critichiamo ma accettiamo. La nostra protesta vuole essere da stimolo nei confronti della classe politica perché si faccia carico delle distorsioni provocate da tale sentenza.

Per noi, questo, costituisce il carattere d' urgenza previsto dal nostro codice di autoregolamentazione".

A Palermo il clima era ancora tesissimo. La direttiva del procuratore Giancarlo Caselli era più esplicita: segnalare ogni singolo processo che saltava a causa dello sciopero degli avvocati. Alla fine ne sono stati contati decine e la procura ha aperto un fascicolo in via preliminare. Stesso clima a Catania, Salerno, Genova, Torino, per non parlare di Napoli.

A Milano l' attività del Tribunale procedeva a singhiozzo: venivano celebrati solo i processi con imputati detenuti. Per il resto, l' astensione era pressoché totale. Oggi si replica. Con una decisione che potrebbe infiammare l' atmosfera già calda: se le Procure procederanno per interruzione di pubblico servizio, scatteranno le autodenunce degli avvocati.
 

"Non c' è un solo colpevole", spiega Pisani, "colpevoli siamo tutti".

Anche questa è la funzione sociale dell’avvocato penalista, che non lotta mai per interessi propri, ma sempre nell’interesse del cittadino ed a tutela di un diritto costituzionale, primi fra tutti il diritto di difesa e la presunzione di non colpevolezza fino alla irrevocabilità della sentenza di condanna.

L’avvocato penalista poi non deve limitare il suo compito alla fase processuale, ma deve far sì che i diritti primari dell’individuo siano garantiti anche nella fase dell’esecuzione della pena.

Deve controllare che nel corso della detenzione siano garantiti i diritti primari dell’individuo, in quanto l’unico diritto del quale la persona detenuta può essere privata è il diritto alla libertà.

Deve verificare che sia assicurato il diritto alla salute, che è effettivo ove siano garantite eguali cure a chi è privato della libertà e a chi invece non è posto tale limite.

Il tema del diritto alla salute all’interno degli istituti penitenziari è un tema delicato, siamo davvero tutti uguali davanti alla malattia? Vi è una parità di cura e trattamento tra chi è privato della libertà e chi è libero?

L’avvocatura ritroverà la strada gloriosamente percorsa nel 1998?

Ritroverà lo spirito e la voglia per lottare per i diritti di tutti senza calcoli e finalmente far di nuovo propria la funzione sociale dell’avvocato penalista, che non lotta mai per interessi propri, ma sempre nell’interesse del cittadino.