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Momenti dilatati
Come una mano aperta
Come una mano aperta mostra le linee che solcano il palmo e incrociandosi tracciano le direzioni della vita simili a quelle che in un cielo notturno indicano una geografia di stelle, così la pelle della superficie terrestre -una volta che la fanghiglia ha lasciato, dileguatosi il ghiaccio, disegni enigmatici incisi con fitti tratti sottili- rivela, solo a chi sa interpretare le parole scritte con lettere di erbe secche e rametti storti e pagliuzze bruciate dal gelo, la segreta testimonianza di quanto è occorso nel breve tempo di una giornata invernale (in uno spazio pur così limitato che è stato sufficiente percorrerlo tutto con pochi passi misurati) e la memoria di una piccola apocalisse, trascorsa e poi placata.
È forse un erbario stretto tra fogli di tempo, un libro che si apre su pagine memorabili con grafie restate incancellate perché più durature di un ricordo, più affilate di un pensiero, più sottilmente misteriose di un messaggio affidato alla scrittura.
La terra asciuga il fossile come riduce l’ossigeno del vivente e riporta a scheletro la polpa dell’essere. Tracce e impronte lievi di dendriti arborescenti lasciano affiorare via via in spessore assottigliato delle increspature, e piccoli segni in punta d’argento affondano dove invece altri, più leggeri, aggallano in superficie. Terra e sabbia levigano e infine spengono il segno, staccano il perimetro delle forme dal loro limite organico in un modulato monocromo, ed è come il largo musicale di un fiume.
Ciò che resta è dunque una semplificazione segmentata di elementi, un tracciato a ventaglio di ciuffetti aghiformi, ravvicinati e fitti come il pelo che poteva spuntare su un tegumento spesso e duro di un animale gotico, una volta rampante, ma ora disteso, stampato a grisaille su una sensibile carta fotografica.
Gli occhi, dopo aver assorbito il grigio e il bianco del monocromo muovono lo sguardo verso un bagliore blu azzurro, nero ma smaltato di luce.
Azzardo nel pensare ad un’opera voluta da un artista consapevole: è invece opera del caso, se il caso esiste in natura. E se è aleatorio come un tiro di dadi ciò che natura crea giocando con regole proprie è invece precisa e mirata la volontà del fotografo che scopre, coglie e ferma quell’esito imprevedibile, quello e non un altro, e riesce a sorprendere l’apparizione nascosta muovendosi da un punto nello spazio per giungere ad un altro punto, finché su quel pezzetto di terra lì, proprio quello e non un altro (che prima di allora non era visto seppure fosse visibile e mostrava figure che nulla volevano rappresentare, ed esisteva così, semplicemente così) avviene il compimento della metamorfosi, effimero miracoloso transito da uno stato all’altro.
Così dunque il fotografo, macchina in spalla, passo dopo passo, lasciando che lo sguardo lo porti e scelga per lui un movimento della luce inatteso, un’ondulazione appena appena mossa nello scorrere lento di tracce vegetali nella liquidità di un corso d’acqua, si scopre fatto lui pure di terra aria acqua e cielo e si trova ad essere fratello di quella unica natura indivisa che oltre a peso qualità e misura è sentimento del creato, vivente o già esistente, e partecipa a quel Nulla che senza contraddizione è anche quel Tutto.
E sa, l’artista fotografo, che questo uguale momento nel tempo, quest’acqua che scorre come l’aria che ora respira non saranno mai più gli stessi perché sono unici e irripetibili. Solo allora può compiere l’evento straordinario: ferma con gli occhi, con il respiro, con il cuore il momento, quel momento, fugacemente eterno.
Alessandra Rizzi