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100 anni di Triestina

Il calcio nella storia di Trieste: un formidabile specchio sociale, strumento simbolico di rappresentanza e orgoglio
Helenio Herrera e Nereo Rocco, 1967-1968
Helenio Herrera e Nereo Rocco, 1967-1968

Indice

1. Storia

2. L’impresa spinta da tutta la nazione

 

Lo stadio Giuseppe Grezar di Trieste, intitolato al concittadino morto nella strage di Superga – già ribattezzato “Del Littorio” durante il ventennio, è ubicato nella zona di Valmaura e rappresenta l’impianto storico della città friulana.

Nel 1946 si chiamava solamente “Comunale”, e con i suoi poco più di seimila posti a sedere ebbe il primato di ospitare, tra le proprie mura, incontri di due campionati di nazioni diverse – oltre alla Triestina ci giocava infatti l’Amatori Ponziana, che militava però nella dirimpettaia lega jugoslava grazie ai finanziamenti di Belgrado.

Così, per tre anni, il pubblico passò dalle prodezze del Milan a quelle della Stella Rossa, dai campioni della Juventus a quelli del Vojvodina di un giovanissimo Vujadin Boskov.

 

1. Storia

La città di Trieste aveva assunto, già da alcuni secoli, un ruolo nevralgico nello scacchiere europeo. L’oggetto del contendere era sempre stato l’ampio porto che si affaccia sull’Adriatico e di conseguenza, come capita alle importanti zone marittime, c'era stato un sincretismo di popoli, lingue e religioni che avevano contribuito a creare un fervente centro cosmopolita con comunità serbe, croate, ungheresi, inglesi, ebraiche e greche, per citarne alcune.

Il crescente multiculturalismo, però, non frenò il patriottismo (sentimento che fu ben presente nella popolazione locale, e che, in questo caso, si presentò sotto forma della corrente dell’Irredentismo).

Con l’unità d’Italia da poco celebrata, l’odierno Friuli Venezia Giulia venne tagliato fuori e Trieste si trasformò in un megafono con cui manifestare tutta la volontà di far parte della neonata nazione.

Annessione che arrivò ufficialmente nel 1920 grazie al trattato di Rapallo, risultato del patto di Londra che spinse l’Italia a combattere la Grande Guerra contro i suoi alleati originari. 

Quindi a Trieste fu forte e autoritario il Fascismo, a cui seguì il secondo conflitto mondiale e soprattutto l'opera di pulizia etnica delle truppe del generale Tito.

Il primo maggio del ‘45 infatti la penisola è praticamente liberata, ma a Trieste la storia segue un corso tutto suo. Tito infatti occupò la città per 40 giorni mettendola a ferro e fuoco, e il passaggio definitivo fu l’accordo di Belgrado siglato un mese dopo, in cui Trieste venne divisa in due zone, consegnandone una parte agli jugoslavi desiderosi di vendicarsi.

Vendetta che, puntualmente, si consumò, contribuendo a scrivere una delle pagine più tragiche e opache della nostra storia.

 

2. L’impresa spinta da tutta la nazione

È con queste premesse ed in questo scenario che nel 1947, Leo Brunner, il presidente della Triestina, redasse un accorato appello al mondo calcistico e politico italiano.

La sua squadra era formalmente retrocessa il campionato precedente, ma la posta in gioco era molto più alta di un semplice risultato sportivo: mantenere il club nella massima serie rappresentava un “valore morale e simbolico” (questo insolito momento è stato narrato ottimamente dal documentario di “Sky” a firma del direttore Matteo Marani, con documenti e testimonianze esclusivi).

Per citare altrimenti Federico Buffa, l’Italia del dopoguerra era sostanzialmente uno specchio rotto, dipendeva da che angolatura si stesse guardando.

Proprio per questo motivo, la causa triestina venne presa a cuore dalla neonata penisola repubblicana, divenendo il centro di un patriottismo, di un’italianità ritrovata. Tanto che, nel 1952, Nilla Pizzi conquistò Sanremo con il brano “Vola Colomba”, che si auspicava un suo ritorno entro i confini italiani.

Come ogni vicenda politica del secolo scorso, poi, non poteva non essere implicato “Il Divo” Andreotti, che, in quell’occasione era addetto a tenere i rapporti con le zone di confine. Brunner si rivolse a lui per reperire i fondi adatti a mettere su una squadra che potesse competere per il primo ed unico campionato a 21 squadre della storia.

Fino ad allora, le stelle della compagine alabardata erano state Colaussi e Pasinati, membri della spedizione che conquistò il mondiale del ‘38, con il primo che siglò anche una doppietta in finale.

Al momento, però, la squadra era reduce dall’aver conquistato la miseria di 18 punti ed incassato ben 79 gol, che, come detto, la condannarono all’ultima posizione. Si sentiva la necessità, quindi, di un grande maestro di calcio, un vero conoscitore di uomini e che avesse già scritto una pagina di storia del club.

Quell’uomo c’era, e si chiamava Nereo Rocco. “El Paron”, infatti, era stato il primo giocatore della Triestina ad essere convocato in Nazionale e, una volta appesi gli scarpini al chiodo, contemporaneamente portava avanti la macelleria di famiglia e si divertiva ad allenare la squadra locale della Democrazia Cristiana. L’obiettivo principale che gli si richiedeva, anche viste le premesse, era quello di provare a rimanere in Serie A: ne andava dell’orgoglio nazionale.

Quasi come fosse un qualche segno del destino, quella annata andò oltre le più rosee aspettative e raccontò una vera e propria impresa sportiva.

La tipica fiaba che poteva appartenere solo al novecento, in cui calcio, storia e politica si mischiavano indifferentemente.

Quella in cui dei ragazzi, tutti nati a Trieste, arrivarono a conquistare il secondo posto finale, dietro solo agli invincibili del Grande Torino. Un undici che venne recitato con la stessa frequenza del Padre Nostro: Striuli, Blason, Zorzin, Sessa, Radio, Trevisan, Giannetti, Rossetti, Ispiro, Tosolini e Begni.

La vecchia volpe di Rocco, facendo intravedere il suo enorme talento in panchina, diede vita al celebre “mezzo sistema”, introducendo il libero all’italiana e spostando Mimmo Trevisan come centrocampista arretrato.

Il risultato fu una squadra efficace e concreta, che ci mise un po’ ad ingranare ma poi, dal girone di ritorno, inanellò una serie di risultati assai prestigiosi. Superò, infatti, Milan e Juventus, portando a casa 22 punti in 11 partite e mantenendosi imbattuta tra le mura amiche. 

Una cavalcata epica, in cui una compagine retrocessa solo la stagione precedente riuscì a conquistare un risultato insperato, tuttora il migliore della Triestina nella massima serie. E anche, a spingerci più in là, una marcia trionfale che fu un formidabile antidoto anche dal punto di vista simbolico, come se poi avesse passato il testimone al miracolo del Tour de France del 1948, quando Bartali, scattando in faccia alla Francia intera, tenne insieme tutta la Nazione.