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Alto Mare: pirateria, narcotraffico e pesca illegale

Alto mare
Ph. Federico Radi / Alto mare

Abstract

A chi appartiene il mare? Il tentativo di dar risposta a tale semplice domanda ha portato negli anni ad innumerevoli ed aspre contestazioni geopolitiche. D’altronde, anche il mare è un territorio e come ogni territorio è stato nella storia oggetto di dispute e competizioni tra Stati.

 

Indice:

1. Alto mare: la sua geografia

2. Alto mare: dal diritto di visita ai poteri di polizia

3. Alto mare e pirateria

4. Alto mare e narcotraffico

5. Alto mare e pesca illegale

6. Alto mare: riflessioni conclusive

 

1. Alto mare: la sua geografia

Gli interessi economici e strategici di controllo delle acque da parte dei soggetti statuali hanno reso necessaria una delimitazione degli oceani, della quale solo la penna dei giuristi internazionalisti poteva farsi carico.

Il risultato più convincente è la Convenzione di Montego Bay, firmata in Giamaica nel 1982 nell’ambito delle Nazioni Unite e regolante i confini del mare, l’utilizzazione delle sue risorse e la protezione dell’ambiente marino.

Il Link

Tuttavia, possiamo dire a posteriori come anche questa convenzione internazionale non abbia definito con successo un pienamente condiviso regime di law of the sea: sono ancora numerosi gli Stati firmatari che non l’hanno ratificata, fra i quali spiccano gli Stati Uniti d’America.

In tal senso, si potrebbe aprire un dibattito su quanto il diritto internazionale riesca ad imporsi come legge cogente o quanto rimanga a volte mera veste giuridica di rapporti di forza tra potenze. Ma non è questo lo scopo di questo mio contributo.

Nella Convenzione di Montego Bay, le acque risultano divise in fasce:

- fino alle 12 miglia nautiche dalla costa abbiamo il mare territoriale, nel quale lo Stato costiero esercita la sua piena sovranità;

- oltre, fino alle 24 miglia nautiche, si staglia la zona contigua, nella quale lo Stato costiero può esercitare il controllo necessario per prevenire la violazione delle proprie leggi e regolamenti in materia doganale, fiscale, sanitaria o d’immigrazione;

poi, c’è la zona economica esclusiva (ZEE), che può estendersi sino alle 200 miglia nautiche dalla costa e nella quale è sempre lo Stato costiero a vantare diritti sovrani ai fini dell’esplorazione, - sfruttamento, conservazione e gestione delle risorse naturali.

Infine, si entra nell’alto mare o mare internazionale, spazio marino che in virtù del suo peculiare regime di libertà è in principio al di là dei poteri esecutivi degli Stati.

Lo scopo di questo articolo è duplice: da un lato, evidenziare il lento ma inesorabile processo di erosione al quale il suddetto regime di libertà dell’alto mare è venuto incontro nel tempo; dall’altro, rimarcare come l’esercizio della giurisdizione statale in acque internazionali è spesso giustificato da esigenze di diversa natura che, lungi dal ledere la libertà dei mari, le preservano dall’essere veicolo di attività illecite.

 

2. Alto mare: dal diritto di visita ai poteri di polizia

Il regime dell’alto mare, detto anche Mare Liberum dal nome della celebre dissertazione del 1609 di Ugo Grozio, ha origini antiche ed è retto dal principio di libertà: tutti gli Stati, siano essi costieri o interni, hanno un uguale diritto di legittimo uso sulle acque internazionali. In altre parole, a ogni Stato è riconosciuta la piena libertà di navigazione, sorvolo, posa di cavi, gasdotti, installazioni di pesca e di ricerca scientifica, compatibilmente con l’esercizio delle medesime prerogative da parte degli altri Stati.

Inoltre, in acque internazionali è imposto a tutti gli Stati un obbligo generale di non interferenza in tempo di pace nei confronti delle navi non nazionali. In tal senso, il principio della giurisdizione esclusiva dello Stato della bandiera è l’altro fondamentale presupposto consuetudinario di cui si compone il regime dell’alto mare: le navi in acque internazionali sono soggette alla sola giurisdizione dello Stato la cui bandiera battono, a meno che navi da guerra o navi in servizio governativo di altri Stati si avvalgano dei poteri di intervento esercitabili a titolo di diritto di visita e di diritto di inseguimento.

In particolare, il diritto di visita, codificato nell’articolo 110 della Convenzione di Montego Bay del 1982, costituisce la principale eccezione al principio della libertà dell’alto mare.

Tale fattispecie normativa regola il numero limitato di casi in cui una nave da guerra è legittimamente autorizzata ad intercettare e sottoporre a visita in alto mare una nave mercantile straniera in tempi di pace, quando ci sono fondati motivi per sospettare che questa sia dedita:

- ad atti di pirateria,

- alla tratta di schiavi o

- effettui trasmissioni radiofoniche o televisive non autorizzate.

Inoltre, sempre secondo l’articolo 110, la visita è legittima quando la nave sia priva di nazionalità oppure si tratti di una nave che, sebbene batti bandiera straniera o rifiuti di esibirla, abbia in realtà la stessa nazionalità della nave da guerra che esercita il potere di intervento.

In tal contesto, la comunità internazionale ha potuto constatare il recente aumento delle maritime interception operations (MIOs) per contrastare le minacce al mantenimento della sicurezza internazionale in mare o per sopprimere crimini organizzati transnazionali. Le “MIOs” rientrano nell’ambito dei poteri di polizia dell’alto mare, o, secondo la terminologia anglosassone, Maritime Law Enforcement: l’esercizio in acque internazionali di poteri di imperio mediante inchiesta di bandiera, fermo, abbordaggio, visita ed ispezione.

L’obiettivo di questo breve scritto è chiarire quanto questa tanto recente quanto diffusa pratica di interdizione di navi abbia nel tempo messo in discussione la validità del principio fondamentale della libertà dell’alto mare.

Per rispondere a questa domanda, che costituisce il fulcro e punto di indagine del contributo, prendiamo in analisi tre diverse attività illecite commesse in alto mare:

  • pirateria,
  • narcotraffico e
  • pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata.

Attività diverse non solo per veste e natura giuridica quanto anche per storia e risvolti economico-sociali ed ambientali.

 

3. Alto mare e pirateria

Riguardo la pirateria, negli ultimi decenni abbiamo assistito a una recrudescenza del fenomeno in tre principali aree del globo: Sud-Est asiatico, Corno d’Africa e Golfo di Guinea.

La sua definizione è contenuta nell’articolo 101 della Convenzione di Montego Bay come atti di depredazione o di violenza compiuti in alto mare o in zone non soggette alla giurisdizione di alcuno Stato (come le coste dell’Antartide) per fini privati dall’equipaggio di una nave o aereo privato ai danni di altra nave.

Dunque, è possibile evincere come il concetto di pirateria sia fortemente legato all’alto mare: le acque internazionali costituiscono l’estensione geografica del suo campo di applicazione, il suo locus commissi delicti.

Diversamente, gli atti di depredazione e di violenza commessi entro le 12 miglia nautiche dalla costa, e quindi nelle acque territoriali dello Stato costiero, non rientrano nella nozione di pirateria. Al contrario, vengono classificati come “atti di rapina a mano armata” (armed robbery) soggetti alla giurisdizione dello Stato costiero.

Ai fini di questo lavoro di ricerca, dobbiamo notare l’inclusione della pirateria nel testo dell’articolo 110 della Convenzione di Montego Bay, come uno dei limitati casi tassativi che permettono a una nave da guerra di intercettare e visitare legittimamente in alto mare una nave mercantile straniera. In aggiunta, la pirateria è da sempre considerata il paradigmatico crimine a giurisdizione universale, poiché tutti gli Stati che effettuano il sequestro di una nave pirata e l’arresto delle persone a bordo hanno il diritto di esercitare la loro giurisdizione sui pirati catturati. In altre parole, tutti gli Stati possono processare i pirati per i loro crimini.

Dunque, con riferimento alla pirateria, la portata dei poteri giurisdizionali statali in alto mare raggiunge la sua massima estensione: l’interdizione di navi sospettate di pirateria trova la sua ragion d’essere nella necessità di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale in mare e costituisce una pratica profondamente radicata nel diritto del mare, come testimonia la sua inclusione in una disposizione di natura consuetudinaria: l’articolo 110 della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare firmata a Montego Bay nel 1982.

In questo senso, sembra che il principio della libertà dell’alto mare non venga violato nelle sue fondamenta, soprattutto se si considera che non è mai stato concepito come avente un carattere assoluto.

Ma possiamo giungere alle stesse conclusioni anche con riferimento alla recente pratica degli Stati di interdizione di navi per contrastare minacce come il traffico di droga e la pesca illegale? Queste attività illecite non sono incluse tra i casi tassativi dell’articolo 110 della Convenzione di Montego Bay, che fornisce la base giuridica per l’esercizio del diritto di visita.

 

4. Alto mare e narcotraffico

Con riferimento al narcotraffico in alto mare, la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare del 1982 tratta del fenomeno solo nel suo articolo 108, il quale prevede che ogni Stato con “fondati motivi per ritenere” che una nave battente la sua bandiera sia coinvolta in un traffico illecito, possa richiedere la cooperazione di altri Stati per sopprimere suddetto traffico. In questo senso, la Convenzione non regola il caso più frequente in cui uno Stato è disposto ad interdire in alto mare una nave sospettata di traffico di droga battente la bandiera di un altro Stato straniero.

In altre parole, non esiste una norma consuetudinaria che permetta il diritto di visitare le navi straniere che trafficano droga in alto mare.

In questo contesto, invito il lettore all’analisi della Convenzione di Vienna del 1988 sul narcotraffico stipulata sempre nell’ambito delle Nazioni Unite ed in particolare del suo articolo 17, la cosiddetta “boarding provision”. L’importanza di tale disposizione è testimoniata dal suo contenuto rivoluzionario in quanto per la prima volta legifera il diritto di vistare le navi di altri Stati Parti dedite al traffico di droga.

Precisamente, essa promuove un sistema di consenso ad hoc basato su una richiesta di autorizzazione che lo Stato interveniente deve inviare per approvazione allo Stato di bandiera della nave che si vuole abbordare.

I meccanismi della Convenzione delle Nazioni Unite sono stati peraltro rafforzati dall’Accordo regionale di Strasburgo sui traffici illeciti via mare adottato nel 1995 nel contesto del Consiglio d’Europa. Inoltre, in seguito altri trattati regionali (in primis il Caribbean Agreement del 2003) e bilaterali (Trattato Italia-Spagna del 1990) hanno affrontato la questione del traffico di stupefacenti in alto mare con ancora più incisività, esonerando lo Stato interveniente dal richiedere un’autorizzazione ad hoc allo Stato di bandiera. Infatti, tali trattati costituiscono essi stessi un’autorizzazione a priori per interdire tutte le navi straniere sospettate di traffico di droga nella zona geografica ricadente nel loro campo di applicazione.

Alla luce di questa analisi, possiamo concludere che i poteri giurisdizionali statali in alto mare con riferimento al traffico di droga stanno rafforzando la loro portata, trovando una base giuridica in vari accordi di visita, sia multilaterali che bilaterali. Inoltre, nonostante l’assenza di una norma consuetudinaria che permetta il diritto di visita delle navi straniere che trafficano droga, il principio della libertà dell’alto mare non sembra aver perso la sua rilevanza.

Infatti, le interdizioni per traffico di droga rispondono pur sempre a un’esigenza di mantenimento dell’ordine pubblico (ordre public), che ha tradizionalmente costituito una delle principali rivendicazioni della giurisdizione statale in alto mare, anche con riferimento ad altre condotte illecite incluse nell’articolo 110 della Convenzione ONU del 1982, prima fra tutte la tratta degli schiavi.

 

5. Alto mare e pesca illegale

Con riferimento alla pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata (IUU Fishing; Illegal, Unreported and Unregulated Fishing), è osservato come essa abbia luogo sia in alto mare che in aree soggette alla giurisdizione degli Stati costieri (acque territoriali o ZEE). Inoltre, a differenza della pirateria, essa non costituisce un crimine a giurisdizione universale: la sua repressione si basa in primis sul principio di giurisdizione esclusiva dello Stato di bandiera. Ne consegue che non esiste alcun diritto di visita e ispezione derivante da fonte consuetudinaria applicabile a tutte le attività ittiche configurabili come IUU Fishing.

In questo contesto, merita un esame lo UN Fish Stocks Agreement del 1995, il principale trattato multilaterale che fornisce agli Stati contraenti il diritto di ispezione in mare nelle acque internazionali su navi di altri Stati Parti per garantire il rispetto delle misure di conservazione e gestione che proteggono le specie ittiche trans-zonali ed altamente migratorie.

Precisamente, il suo articolo 21 permette agli Stati Parti dell’accordo che sono membri anche di una organizzazione subregionale o regionale di gestione della pesca (RFMO; Regional Fisheries Management Organization) di salire a bordo e ispezionare una nave di una parte contraente in alto mare nelle zone coperte da tale RFMO. La particolarità è che tale diritto di ispezione è previsto indipendentemente dal fatto che lo Stato di bandiera della nave abbordata sia membro della RFMO in questione: è sufficiente che la nave batta la bandiera di uno Stato Parte del Fish Stocks Agreement. Tuttavia, la sua principale debolezza è che si basa sul consenso dello Stato di bandiera, quindi la sua procedura di ispezione in mare è subordinata alla discrezionalità di tale Stato.

Alla luce di questo esame, possiamo desumere che i poteri giurisdizionali statali in alto mare in riferimento alla pesca illegale stanno moderatamente rafforzando la loro portata, sicuramente non tanto quanto stanno facendo per il traffico di droga. Inoltre, sembra che il fondamentale principio di libertà dell’alto mare non sia messo in discussione. Infatti, le operazioni di intercettazione marittima che combattono il fenomeno rispondono alla necessità di protezione del buon uso dell’alto mare (bon usage), che ha tradizionalmente costituito un leitmotiv del diritto del mare.

In questo senso, mantenere un buon uso degli oceani significa promuovere un uso non abusivo delle libertà dell’alto mare.

 

6. Alto mare: riflessioni conclusive

In conclusione, possiamo affermare che la recente pratica estensiva dell’interdizione da parte degli Stati di navi straniere in alto mare non ha determinato alcun cambiamento sostanziale a quello che fino ad oggi è stato, è e con ogni probabilità sarà ancora in futuro l’ordine giuridico degli oceani.