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La pirateria nel diritto internazionale

Pirateria
Pirateria

Abstract

Fin dall’antichità, i pirati hanno solcato i mari e segnato la storia delle acque mediterranee, asiatiche e caraibiche. La figura del “pirata”, dal termine greco peiratés ovvero “colui che cerca fortuna nell’avventura”, è entrata nell’immaginario collettivo grazie ad innumerevoli opere letterarie che ne raccontano tanto le gesta quanto le efferatezze. Su tutte, la geniale e fantasiosa penna di Emilio Salgari ha entusiasmato piccoli e grandi lettori, me compreso, narrando le avvincenti avventure dell’incauto Sandokan e dell’astuto Yanez de Gomera.

Ma chi sono oggi le nuove Tigri di Mompracem? Quali acque colpiscono? E che forma di repressione il diritto internazionale riserva alla pirateria?

 

Pirateria: la sua definizione giuridica

Sebbene diversi studiosi fino a quasi trent’anni fa condividessero l’opinione che la pirateria avesse fatto il suo corso all’inizio del 1800, i pirati sono tornati a minacciare la sicurezza marittima ancora una volta.

In particolare, nelle stagioni successive alla fine della guerra fredda, è stato osservato un aumento di attacchi pirateschi principalmente dovuto all’instabilità politica ed economica dei paesi in via di sviluppo. Inoltre, è stata registrata una correlazione tra il ritiro delle forze navali americane e russe e i tanto recenti quanto crescenti casi di violenza marittima nell’Oceano Indiano.

Quando nel XVII secolo divenne chiaro quanto la pirateria potesse essere deleteria per il commercio via mare, nacque la necessità di una sua chiara definizione giuridica.

Tuttavia, si giunse ad una sua puntuale qualificazione normativa solo con l’articolo 15 della Convenzione di Ginevra sull’Alto Mare del 1958, il cui contenuto fu riprodotto fedelmente dall’articolo 101 della più conosciuta Convenzione di Montego Bay sul Diritto del Mare del 1982 (LOSC).

Secondo questa disposizione, è atto pirata:

  1. un qualsiasi atto illegale di violenza o di detenzione, o un qualsiasi atto di depredazione, commesso per fini privati dall’equipaggio o dai passeggeri di una nave privata contro un’altra nave o persone o beni da essa trasportate in alto mare o in altri luoghi non soggetti alla giurisdizione di alcuno Stato;

  2. un qualsiasi atto di partecipazione volontaria alla gestione di una nave che si è consapevoli essere pirata;

  3. una qualsiasi azione di favoreggiamento o di istigazione a commettere un atto descritto nelle precedenti due lettere.

Tale definizione di pirateria è l’unica che negli anni ha acquisito lo status di norma consuetudinaria.

Una prima riflessione riguarda lo stadio dell’atto piratesco: un atto è pirata se si è consumato. Nessun tentativo può costituire con successo un atto di pirateria. In tal senso, gli atti di depredazione e violenza devono necessariamente avere carattere di effettività. Durante i travaux préparatoires della Convenzione di Montego Bay, la Gran Bretagna suggerì di includere gli atti tentati nella definizione di pirateria ma tale proposta fu respinta a maggioranza dagli altri Stati.

 

Pirateria e fini privati

Tuttavia, la clausola più dibattuta dell’intera disposizione è il requisito dei “private ends” o condizione dei fini privati. Infatti, non essendo stata adeguatamente definita nell’articolo 101 LOSC, i giuristi internazionalisti hanno incontrato diverse difficoltà nella sua interpretazione.

È comunque indubbio come tale clausola abbia come matrice storica l’antica distinzione tra corsari e pirati: il corsaro era colui che vantava una “lettera di corsa”, una patente rilasciata dal sovrano che lo autorizzava a depredare il naviglio nemico per suo conto. In sostanza, i corsari erano dei pirati il cui operato rientrava nella legge, in quanto giuridicamente legittimato da una volontà superiore. Si trattava di una forma lecita di pirateria. Ma i veri pirati erano altri: tutti coloro che solcavano i mari come fossero spazi di caccia, depredando per proprie e personali utilità.

Sempre in ottemperanza alla clausola dei private ends, si ritiene che un atto di depredazione o violenza non possa configurare casi di pirateria quando motivato da un fine politico. Dunque, gli atti di terrorismo marittimo o di sequestro di navi in circostanze di insurrezioni nazionali non sono considerati pirateschi.

In tal contesto, la dottrina risulta divisa circa la corretta interpretazione da dare al requisito del fine privato. Infatti, mentre taluni accademici ritengono che la clausola dei “private ends” debba essere misurata sulle motivazioni del colpevole, altri sostengono la tesi secondo cui gli atti di violenza marittima sono intrapresi per fini privati ogni qualvolta manchino di autorità statale. In altre parole, esistono due diversi orientamenti dottrinali: la teoria della dicotomia privato/politico e la teoria della distinzione privato/pubblico.

 

Pirateria e clausola delle due navi

Altro importante clausola che si evince dalla definizione di pirateria è il requisito delle due navi: un atto di pirateria deve necessariamente coinvolgere una nave pirata e un’imbarcazione bersaglio. In tal senso, tutti gli atti di dirottamento di una nave in alto mare da parte del suo stesso equipaggio o dei suoi passeggeri non configurano il crimine della pirateria. La ratio dietro tale clausola è evitare che azioni di ammutinamento diventino incidenti rilevanti per il diritto internazionale.

Un’ipotesi di dirottamento interno divenuta caso di scuola in materia di diritto del mare è stata la vicenda della Achille Lauro (1985), nave da crociera battente la bandiera italiana. Dopo essersi imbarcati a Genova come turisti, quattro membri del Fronte di Liberazione della Palestina, formalmente a bordo in veste di passeggeri, si impadronirono della nave il 7 novembre 1985 nella tratta marittima da Alessandria a Port Said. Quindi, una volta dirottata la nave in alto mare, minacciarono di uccidere i passeggeri tenuti in ostaggio se Israele non avesse rilasciato in cambio 50 prigionieri palestinesi. Inoltre, i trasgressori annunciarono di essere pronti a far saltare la crociera qualora altre imbarcazioni avessero tentato missioni di salvataggio. Non vedendo soddisfatte le loro richieste, spararono ad un passeggero americano di origini ebree come ulteriore atto di intimidazione.

Diversi Stati, primi fra tutti gli USA, considerarono il sequestro un atto di pirateria. Tuttavia, la dottrina principale condivise l’opinione che l’attacco non fosse configurabile come atto piratesco in quanto motivato da un obiettivo politico: il requisito dei “fini privati” non era soddisfatto. Per giunta, essendo i trasgressori già a bordo della imbarcazione, anche la clausola delle due navi non era rispettata.

 

Pirateria: alto mare e diritto di inseguimento

La limitazione più importante alla definizione di pirateria è il suo locus commissi delicti, l’estensione geografica del suo campo di applicazione. Infatti, l’articolo 101 della LOSC specifica che l’atto di pirateria deve essere commesso in alto mare o in altri luoghi non soggetti alla giurisdizione di alcuno Stato (come le coste dell’Antartide).

Quindi, per configurare un atto piratesco, l’attacco deve avvenire necessariamente oltre le 12 miglia nautiche dalla costa. Qualora l’atto di violenza sia invece commesso nel mare territoriale o nelle acque interne di uno Stato costiero, si configurerebbe una cosiddetta “armed robbery” o rapina a mano armata.

Un altro importante aspetto riguardante la pirateria è il diritto di inseguimento, regolato dall’articolo 111 della Convenzione di Montego Bay del 1982. Secondo tale previsione normativa, uno Stato costiero ha il diritto di inseguire dalle proprie acque territoriali in alto mare una nave che abbia commesso un atto piratesco nel suo mare territoriale. Tuttavia, l’articolo 111 non concede la possibilità di inseguire una nave pirata dalle acque internazionali alle acque territoriali di un altro Stato, in quella che in gergo viene chiamata “reverse hot pursuit” o “missione di inseguimento inverso”.

In tal senso, un’interpretazione rigorosa di tale articolo garantirebbe ai pirati di sfuggire alle navi inseguitrici semplicemente entrando nelle acque territoriali di un altro Stato costiero. Di conseguenza, la dottrina principale ritiene che, nonostante non sia espressamente previsto dalla LOSC, l’inseguimento inverso costituisce una pratica legittima secondo il diritto internazionale consuetudinario. La ratio dietro tale orientamento è che diversi Stati costieri nelle cui acque il pirata può ritirarsi non sono in grado di adempiere ai loro doveri di cattura, punizione e repressione del fenomeno.

 

Pirateria e giurisdizione universale

Fin dagli anni ’80, la pirateria è considerata il paradigmatico crimine a giurisdizione universale nel diritto internazionale consuetudinario. In altre parole, tutti gli Stati hanno il diritto di esercitare la loro giurisdizione in ipotesi di pirateria, processando i pirati per i loro crimini. Tale impostazione è stata avallata anche dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nella risoluzione 1976/2011, nella quale la pirateria è stata appellata “crimine a giurisdizione universale”. Tale approccio è condiviso anche dallo stesso articolo 101 LOSC, che, come abbiamo visto, restringe geograficamente il campo di applicazione della definizione di pirateria alle sole aree marine al di là dei diritti sovrani degli Stati.

In tal contesto, è necessario rimarcare come di contro non esista alcun obbligo di perseguire i pirati: gli Stati hanno una semplice facoltà di farlo. Questo concetto è chiaramente espresso dall’articolo 105 LOSC, che evidenzia come ogni Stato “può” e non “deve” sequestrare una nave sospettata di pirateria. Spesso gli Stati decidono di non perseguire i pirati anche a causa degli elevati costi processuali da sostenere.

 

Pirateria e cooperazione internazionale

Nel corso degli anni, la cooperazione internazionale ha giocato un ruolo fondamentale nel contrastare la pirateria: il dovere di cooperare nella repressione di tale crimine è sancito espressamente dall’articolo 100 della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare.

Tale articolo fa uso di una espressione forte, “to the fullest possible extent”, nella descrizione del cosiddetto “duty to cooperate”. Tuttavia, la LOSC non specifica quali obblighi rientrano nel suo campo di applicazione, lasciando la sua disposizione aperta all’interpretazione circa gli approcci gli che gli Stati possono adottare nello sviluppo della cooperazione.

In questo contesto, numerosi studiosi si sono interrogati sulle conseguenze della mancata cooperazione di uno Stato quando sono le stesse circostanze a richiedere inequivocabilmente di agire: secondo alcuni, la formulazione flessibile dell’articolo 100 LOSC non dovrebbe essere usata come pretesto per non perseguire la condotta criminale. Altri esimi giuristi hanno persino suggerito che gli Stati che con la loro inazione facilitano la consumazione di atti di pirateria possono essere soggetti all’intervento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Tra questi, il celebre professor Wolfrum ha provocatoriamente affermato che “chiudere un occhio sulle attività dei pirati è di per sé un atto di pirateria”.

La principale dottrina condivide l’opinione che il dovere di cooperare deve essere interpretato in modo ampio ma sempre nel rispetto del principio della dovuta diligenza. Di conseguenza, le operazioni antipirateria dovrebbero essere effettuate secondo gli standard dei “migliori sforzi”, superiori a quelli minimi o ragionevoli. Tuttavia, la dovuta diligenza rappresenta pur sempre solo un obbligo di condotta, non di risultato, così che gli Stati possono rispettare il dovere di cooperare in modi diversi, a seconda dei diversi strumenti e risorse di cui ciascuno dispone.

In ogni caso, una particolare attenzione deve essere rivolta al dovere di condividere informazioni rilevanti, che assume un ruolo cruciale nel contrasto alle attività piratesche: gli Stati sono chiamati ad avvertire gli altri paesi di potenziali attacchi pirata e comunicare informazioni pertinenti sugli appositi database di polizia internazionale.

Di norma, gli Stati sono spinti a cooperare per ragioni tanto economiche quanto politiche: i costi della sicurezza marittima sono meno esosi se condivisi ed inoltre diversi sono i paesi che ambiscono ad ottenere dalla comunità internazionale un riconoscimento politico del loro ruolo in prima linea nel contrasto alla pirateria.

 

Pirateria tra Sud-Est Asiatico, Golfo di Guinea e Corno d’Africa

La cooperazione internazionale nelle operazioni antipirateria si è sviluppata secondo due diversi approcci: tramite istituzioni internazionali e a livello regionale.

Nel primo caso, ruolo preminente è stato assunto dalle Nazioni Unite (in primis, grazie all’attività dell’IMO e alle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza), e dall’Unione Europea. Nella seconda ipotesi, la cooperazione si è invece raggiunta attraverso accordi tanto bilaterali quanto multilaterali, interessando prevalentemente le aree del Sud-Est Asiatico, Corno d’Africa e Golfo di Guinea.

Nel Sud-Est asiatico, l’area che merita un’attenzione particolare è lo Stretto di Malacca, una via d’acqua molto stretta la cui posizione geografica è terreno fertile per attacchi pirateschi che ostacolano la sicurezza marittima. In risposta, Indonesia, Singapore e Malaysia hanno iniziato a cooperare nel pattugliamento della zona dapprima con pianificazione di operazioni marittime congiunte e successivamente con la stipulazione nel 2004 del “Malsindo Agreement”, al quale ha aderito anche la Thailandia nel 2008.

Inoltre, anche l’ASEAN (Association of South-East Asian Nations), fondata con la Dichiarazione di Bangkok nel 1967, ha promosso diverse iniziative volte all’adozione di accordi internazionali contro la pirateria. Il suo risultato più importante è il “ReCAAP” (Accordo di cooperazione regionale sulla lotta alla pirateria e alla rapina a mano armata contro le navi in Asia), firmato a Tokyo nel 2004. Nel suo testo, gli Stati parte si impegnano a fornire reciprocamente assistenza tecnica e finanziaria nella lotta ai pirati, individuando in Singapore un centro ad hoc di condivisione di informazioni.

Spostando la nostra analisi all’area geografica del Golfo di Guinea, nel 2013 è stato firmato il Codice di Condotta di Yaoundé, la cui adozione è stata incoraggiata, oltre che dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, anche dalle diverse organizzazioni regionali dell’Africa Centrale e Occidentale.

Altra importante area dove la cooperazione internazionale per la soppressione della pirateria ha giocato e gioca tutt’oggi un ruolo fondamentale è il Corno d’Africa, più precisamente nelle acque del Golfo di Aden. In tale zona, dalla fine degli anni 2000, c’è stata una costante escalation di reati marittimi a causa dell’instabilità politica della Somalia. Nel 2009, gli Stati della regione hanno adottato il cosiddetto Codice di Condotta di Gibuti, contenente un regolamento per l’uso comune dei centri di condivisione delle informazioni in Kenya, Tanzania e Yemen, per facilitare operazioni di assistenza reciproca antipirateria.

L’elemento in comune, nonché limite, di questi 4 diversi accordi multilaterali riguardanti 4 altrettanto diverse aree geografiche è l’assenza di una disposizione che consenta agli Stati parte di intervenire nelle acque territoriali degli altri Stati contraenti per combattere i pirati.

Tale punto è dirimente perché evidenzia la riluttanza degli Stati a consentire l’esercizio della giurisdizione di altro Stato nel proprio territorio, sebbene per i nobili fini di lotta alla pirateria marittima.

 

Pirateria somala

L’incubo della Somalia è iniziato nel 1991 a seguito della caduta del governo nazionale e l’inizio di una violenta e sanguinosa guerra civile. In particolare, la situazione è stata negli anni ulteriormente aggravata dall’intervento militare di Stati stranieri e dalle rivendicazioni separatiste di alcune aree, in primis la regione settentrionale del Somaliland. Inoltre, all’interno del territorio del paese è stata chiaramente segnalata la presenza di organizzazioni terroristiche come Al Shabab e ad oggi lo stesso Governo Federale istituito nel 2012 appare ancora molto debole.

In tal contesto, il fiorire della violenta pirateria somala, raccontataci anche attraverso la cinematografia recente, è stato solo uno degli esiti dell’instabilità politica del paese. Una minaccia costante ai traffici commerciali nelle acque del Corno d’Africa, tanto che nel 2008 il Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon ha definito le coste somale come “uno dei luoghi più pericolosi al mondo per le navi”.

Di fronte alla manifesta incapacità di fronteggiare il fenomeno da parte del Governo, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato diverse risoluzioni. In particolare, la Risoluzione 1816 del 2008 ha per la prima volta consentito agli Stati stranieri di “entrare nelle acque della Somalia” allo scopo di reprimere gli atti di pirateria con l’utilizzo di “tutti i mezzi necessari”. La portata innovativa di questa decisione ha dato una sensibile spinta alla lotta alla pirateria, superando i limiti di tutti gli accordi multilaterali fino ad allora stipulati per combattere le minacce alla sicurezza in mare.

 

Pirateria e riflessioni conclusive

Come abbiamo visto, l’art. 100 della Convenzione dell’ONU sul Diritto del Mare afferma chiaramente che il perseguimento della pirateria è facoltativo, non esistendo alcun dovere di esercitare la giurisdizione sui pirati.

Inoltre, non tutti gli Stati hanno una disposizione interna che disciplini tale attività criminale e solo pochi esercitano effettivamente la loro giurisdizione sui pirati catturati.

Questa poco nobile pratica, nota anche come “catch and release”, consistente nel rilascio dei pirati prima ancora di processarli, è divenuta negli ultimi anni prassi diffusa: paradossalmente, i procedimenti giudiziari contro chi ha commesso attività piratesche costituiscono ad oggi quasi un’eccezione.

Le ragioni sono da ritrovare nel fatto che spesso un procedimento penale contro pirati può essere ancor più economicamente esoso che adottare misure antipirateria come azioni militari in alto mare.

Ad avviso di scrive, solo l’inclusione della pirateria nelle materie di giurisdizione della Corte Penale Internazionale, con costi del processo da ripartire tra tutti i firmatari dello Statuto di Roma e non unicamente in capo allo Stato di cattura, consentirebbe maggior effettività delle attività di contrasto ai temibili Sandokan del XXI secolo.

Fonti

Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, 1982

Nyman, Modern Piracy and International Law: Definitional Issues with the Law of the Sea, Geography Compass, 2011

Marini, Pirateria Marittima e Diritto Internazionale, 2016

Tanaka, The International Law of the Sea, 2017

Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 1816/2008