«Grandi spazi» nel pensiero internazionalistico di Carl Schmitt
Abstract:
Il saggio delinea il concetto di ‘grande spazio’ elaborato da Carl Schmitt nel 1941 e tiene conto delle diverse interpretazioni che ne sono state proposte. La nozione, infatti, è sostanzialmente aperta e consente di accedere sia a una prospettiva gerarchizzante che a una visione orizzontale, più confacente alla moderna sensibilità delle relazioni internazionali.
In questa prima parte, saranno esplorati la dissoluzione dello jus publicum europaeum e il fallimento della Società delle Nazioni come organizzazione promotrice di un nuovo nomos universalistico.
1. La dissoluzione dello jus publicum europaeum
La crisi dello jus publicum europaeum[1], ad avviso di Schmitt, principiò con la fine dell’eurocentrismo del diritto internazionale[2], che segnò la dissoluzione dell’ordinamento concreto in una visione «generale-universale»[3]. L’affermazione nello scenario internazionale delle potenze statunitense e giapponese[4] incise sulla tenuta del nomos della terra europeo. Ma ancor più rivelatore fu il riconoscimento quali Stati di entità politiche africane e asiatiche del tutto prive dei caratteri strutturali della forma-Stato elaborata dalla scienza giuridica europea. Si pervenne, così, a imporre regole giuridiche uniformi a spazi diversi tra loro, secondo cadenze universalistiche che ignoravano le specificità storiche, culturali e spirituali dei popoli.
In realtà, «la destituzione dell’Europa da centro della terra, nel diritto internazionale, fu scambiata […] per un’elevazione dell’Europa a punto centrale della terra»; tuttavia
ciò che subentrava al suo posto non era un “sistema” di Stati, ma una compresenza confusa di relazioni fattuali, senza connessioni spaziali e spirituali, di oltre cinquanta Stati eterogenei […]: un caos senza alcuna struttura, che non era più capace di alcuna limitazione comune della guerra e per il quale, infine, nemmeno il concetto di “civiltà” poteva valere più come sostanza di una certa omogeneità[5].
Questa costruzione, del resto, era coerente con il disegno economicistico britannico che esigeva un panorama giuridico unitario nel quale sviluppare le rotte e gli affari[6]. Non sfugge come all’identità del diritto internazionale pubblico – con la reductio ad unum delle diverse specie di territorio: madrepatria e colonie – corrispondesse altresì un sistema economico unitario, conforme ai valori liberisti e segnato dalla distinzione tra pubblico e privato[7].
La comunità del liberum commercium internazionale stava infatti dietro l’immagine, posta in primo piano, di Stati sovrani tra loro rigorosamente separati sul piano territoriale[8]: proprio qui, nel campo dell’economia, l’antico ordinamento spaziale perse evidentemente la sua struttura[9].
Secondo Schmitt, l’Inghilterra tentò di imporre un nuovo nomos della terra, ponendosi come centro universale. Ma l’isola si rivelò troppo piccola per quest’impresa, e al contempo troppo potente sui mari per consentire una diversa ripartizione oceanica[10].
L’equilibrio tra terra e mare dello jus publicum europaeum disparve definitivamente al prevalere del mare (e della tecnica[11]) sulla terra, in esito alla prima guerra mondiale. Fu quel conflitto che sancì la vittoria di potenze extraeuropee e – soprattutto – degli Stati Uniti.
«Le conferenze di pace di Parigi dell’inverno 1918-1919 dovevano porre fine ad una guerra mondiale e introdurre una pace mondiale»[12]. Tuttavia, fallirono nel loro intento. Furono, peraltro, conferenze non esclusivamente europee: non solo ad esse parteciparono grandi potenze extraeuropee, come Stati Uniti e Giappone, ma si svolsero anzi in danno di due grandi imperi mitteleuropei, la Germania e l’Austria-Ungheria:
mentre nei secoli passati erano state le conferenze europee a determinare l’ordinamento spaziale della terra, nelle conferenze di pace di Parigi […] era il mondo che decideva sull’ordinamento spaziale dell’Europa[13].
2. La Società delle Nazioni
L’universalismo derivante dalla Weltanschauung dei vincitori si tradusse nell’istituzione della Società delle Nazioni ginevrina[14]. Questa, peraltro, non riuscirà mai a governare la pace mondiale, per la mancanza di un ordinamento concreto da assumere a parametro dello status quo[15]:
Il motivo vero e proprio dell’insuccesso della Lega di Ginevra era la totale mancanza, in essa, di ogni decisione in grado di fondare un ordinamento spaziale, e persino di ogni idea di un ordinamento spaziale[16].
Anzitutto, la Lega – per usare la definizione preferita da Schmitt[17] – risultava condizionata degli Stati Uniti, il cui Presidente Wilson l’aveva fortemente patrocinata, senza tuttavia riuscire a convincere il Senato americano votare l’adesione. Pur avendo rinunciato a farne parte, però, gli USA la controllavano attraverso i propri Paesi-satellite del continente americano.
Ne alimentava inoltre la delegittimazione l’assenza di un’altra superpotenza, la Russia sovietica, che non fino al 1935 non volle aderirvi[18].
D’altro canto, i principali protagonisti dell’organizzazione internazionale, Francia e Inghilterra, non condividevano la stessa immagine della terra.
L’impostazione britannica era di intransigenza sul controllo marittimo, che consentiva all’isola di governare il proprio impero mondiale, ma di apertura a rivisitazioni territoriali sul suolo europeo. Al contrario, la Francia – potenza terranea – ostacolava recisamente qualsiasi cambiamento territoriale continentale.
Ma la vera questione era considerata da Schmitt l’alternativa tra centralizzazione e pluralismo del potere mondiale:
lo sviluppo planetario aveva condotto già da tempo a un chiaro dilemma tra universo e pluriverso, tra monopolio e polipolio, ovvero al problema se il pianeta fosse maturo per il monopolio globale di un’unica potenza o fosse invece un pluralismo di grandi spazi in sé ordinati e coesistenti, di sfere d’intervento e di aree di civiltà, a determinare il nuovo diritto internazionale[19].
A questo grande interrogativo la Lega non seppe, e non poté, offrire risposta, limitandosi semplicemente a registrare le volontà dei singoli Stati dominanti[20].
Come rileva Carlo Galli
la Società delle Nazioni è insomma uno strumento di politica «indiretta», per la protezione dei vincitori e del loro bottino, e per la punizione dei vinti; il suo universalismo è in realtà imperialismo, un’arma di guerra che si presenta come strumento di pace[21].
Opinione, questa, condivisa da Gianfranco Miglio che osservava che
Le potenze dell’Intesa avevano combattuto la Germania in nome degli ideali liberaldemocratici e dell’eguaglianza nel diritto: ma le clausole punitive del trattato di Versailles apparvero presto, agli occhi di Schmitt e dei suoi connazionali, per ciò che in buona parte erano: e cioè i mezzi con cui i vincitori tentavano di imbrigliare la potenzialità economico-industriale dei tedeschi. Era un’esperienza che aveva già fatto il più antico politologo dell’Occidente, Tucidide, quando si era accorto che Sparta, dopo aver combattuto l’imperialismo di Atene, lo stava sostituendo con uno ancora peggiore[22].
Ancor più impietosamente, Günter Maschke afferma che
Sotto gli orpelli delle sue declamazioni umanitarie, la Società delle Nazioni era soprattutto un’organizzazione di vincitori volta ad assicurarsi il bottino del 1918-1919 e a salvaguardare l’ingiusto e conflittuale status quo creato da Versailles, che era di fatto una guerra in tempo di pace, o – come sembra avere detto Clemenceau – una continuazione della guerra con altri mezzi. Ma prima di tutto la Società delle Nazioni era una macchina per la repressione e il dissanguamento della Germania […][23].
L’organizzazione internazionale, insomma, si mostrava istanza decisionale superiore per i Paesi deboli o sconfitti, mentre rappresentava nient’altro che una camera di compensazione diplomatica, priva di poteri incisivi, rispetto alle potenze vincitrici[24].
Anche con riferimento al concetto di guerra, la Lega appariva perplessa. Pur proclamandosi fedele al modello tradizionale di guerra interstatale,
cercava […] di introdurre, per mezzo di pressioni economiche e finanziarie, nuovi strumenti di costrizione e nuove sanzioni, il che finì per cancellare la guerra non discriminante del diritto internazionale interstatale e, con essa, il fondamento del diritto di neutralità fino ad allora riconosciuto[25].
Schmitt, schematicamente, riconosceva la mediocrità della Società delle Nazioni sotto tre profili:
- i mutamenti territoriali. Riscontrava come la carenza di un chiaro nomos della terra impedisse di elaborare soluzioni alle concorrenti necessità, rappresentate da diversi Stati, di tutela dello status quo e di revisione degli assetti territoriali;
- le neutralizzazioni permanenti. L’adesione a una prospettiva moralistica del diritto internazionale e ad un concetto di bellum iustum faceva cadere l’ubi consistam della neutralità, fondata sulla aequalitas degli iusti hostes. La partecipazione delle potenze neutrali all’assemblea ginevrina ne comportava, pertanto, una squalificazione e ne poneva a repentaglio l’indispensabile terzietà;
- il rapporto con l’emisfero occidentale, riconosciuto per tabulas come spazio politico dalla codificazione, all’art. 21 del Trattato di Versailles, della dottrina di Monroe. Peraltro, questo prezzo politico-diplomatico fu pagato invano, atteso che gli Stati Uniti non aderirono alla Lega delle Nazioni. L’ambiguità statunitense, fatta di presenza sostanziale e assenza formale, determinava una forma di eterodirezione della Lega da parte degli USA. Era la conferma di un potere mondiale che superava i confini territoriali, imponendo il controllo di uno Stato su altri Stati, quantunque questi ultimi conservassero un’apparenza sovrana. Con l’accoglimento della dottrina di Monroe senza alcun corrispettivo, la Lega ginevrina «rinunciò a porre a fondamento del proprio sistema spaziale, che non era né specificamente europeo né coerentemente globale, un chiaro ordinamento dello spazio»[26]. Abdicava così a qualsiasi potere di indirizzo nei confronti degli Stati americani, che, de jure posito, rimanevano protetti da ogni ingerenza esterna[27].
Senza che la Società delle Nazioni potesse svolgere il ruolo di un katechon – ovvero di un freno alla dinamica conflittuale –, la prevalenza del punto di vista della potenza oceanica si tradusse nell’adesione a una logica monistica e universalistica, trascendente nel moralismo internazionale[28].
Andando a ritroso nella storia del diritto internazionale, dallo justus hostis, del quale si riconosce la legittimità[29], si ritornò al bellum justum[30]. La caratterizzazione sostanziale della giustezza del conflitto e della ragione delle parti belligeranti implicava, dunque, che il nemico degradasse a criminale[31].
Questa tendenza è individuata da Schmitt negli artt. 227 e 231 del Trattato di Versailles. Nel primo, veniva messo sotto accusa il Kaiser Guglielmo II Hohenzollern; nel secondo, si addebitava alla Germania la responsabilità della guerra[32].
In quanto fuorilegge il nemico doveva essere affrontato e distrutto, in una guerra totale, estesa anche ai civili.
Tale lettura morale dell’ostilità si evidenziava anche dalla continuazione della guerra con altri mezzi. In particolare, le riparazioni economiche imposte alla Germania e le sue umiliazioni territoriali venivano interpretate da Schmitt come una non-pace, assimilabile ad una guerra strisciante[33].
Il nomos di Versailles e Ginevra rimaneva, così, drammaticamente precario e instabile.
[1] Sul concetto di jus publicum europaeum secondo Schmitt, cfr. S. PIETROPAOLI, Mitologie del diritto internazionale moderno. Riflessioni sull’interpretazione schmittiana della genesi dello jus publicum europaeum, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno» 37/2008.
[2] Schmitt legge l’inizio della fine nella conferenza sul Congo del 1885, allorché fu riconosciuto un nuovo Stato africano dagli Stati Uniti. Un protagonismo, dunque, tutto extraeuropeo.
[3] C. SCHMITT, Il nomos della terra, Adelphi, Milano, 1991 [1950], p. 287.
[4] Il Giappone conquistò il rango di potenza pari a quelle europee sconfiggendo la Russia nel 1904: ivi, p. 293.
[5] Ivi, p. 297.
[6] Particolarmente interessante l’analogia tracciata da Schmitt tra mare libero e senza regole, nuovo mondo beyond the line e mercato concorrenziale: cfr. C. SCHMITT, Mutamento di struttura del diritto internazionale (1943), in Stato, grande spazio, nomos, Adelphi, Milano, 2005, p. 221.
[7] ID., Il nomos della terra, cit., p. 300, in cui si fa riferimento a uno «standard costituzionalistico liberale».
[8] Ivi, p. 299.
[9] Ivi, p. 302. Per Schmitt, l’abdicazione al risolvere le questioni spaziali fondamentali del diritto internazionale suonava come una resa del ceto dei giuristi, cui – parafrasando Alberico Gentili – riferiva l’esortativo «sileamus in munere alieno». Si verifica così la fine del ciclo dello jus publicum europaeum: il diritto che aveva sedato le guerre civili, cede innanzi alla nuova guerra civile mondiale; e i giuristi, che avevano preso la parola nel XV-XVI secolo, restano ora ammutoliti e inermi: cfr. in tema P. P. PORTINARO, La crisi dello jus publicum europaeum, Edizioni di comunità, Milano, 1982, p. 21.
[10] È per questo che, almeno per quanto riguarda i mari, l’impero britannico appare a Schmitt un katechon: C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit., p. 303.
[11] C. GALLI, Lo sguardo di Giano, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 141, nell’elencare i fattori di dissoluzione dello jus publicum europaeum che hanno cospirato all’affermazione dell’universalismo, osserva che «[…] razionalismo, individualismo, potenza tecnica, moralismo e normativismo, [che] hanno in comune l’indeterminatezza, ossia il fatto che per la loro azione ogni differenza ordinativa si perde in uno spazio liscio e potenzialmente unificabile».
[12] C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit., p. 306.
[13] Ivi, p. 307.
[14] Schmitt assunse un atteggiamento critico nei confronti della Società delle Nazioni sin dal 1926, allorché, pur condividendo la tesi dell’adesione alla Società per tutelare gli interessi tedeschi, sottolineò che «l’universalità perseguita dalla Società delle Nazioni non [potesse] che rimanere spaziale ed esteriore, non rispettando le dimensioni praticabili di un’autentica comunità politica»: così G. PERCONTE LICATESE, Postfazione, in C. SCHMITT, La società delle nazioni. Analisi di una costruzione politica, Milano, 2018 [1926], p. 170. P. P. PORTINARO, op. cit., p. 189 osserva che, già nell’opera del 1926, «la Società delle Nazioni è presentata […] come il tipico esempio di questo legame tra imperialismo economico e pacifismo».
[15] Schmitt osserva che «mentre la res publica christiana del Medioevo conteneva un ordinamento spaziale reale, la Lega di Ginevra tra il 1919 e il 1939 offre un esempio tipico di come non si possa fondare alcun ordinamento internazionale complessivo senza la chiara idea di un nomos radicato nello spazio»: cfr. C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit., p. 310.
[16] Ivi, p. 311.
[17] A. CAMPI, Introduzione a C. SCHMITT, L’unità del mondo e altri saggi, Antonio Pellecani editore, Roma, 2003, p. 44 rileva che «Schmitt […] nega, con sottili argomentazioni tecnico-giuridiche, che la Società delle Nazioni rappresenti un’autentica federazione (Bund) di Stati portatrice di un autonomo jus belli […] e che quindi non può vantare alcuna sovranità sui territori degli Stati membri ed alcun autonomo potere federale».
[18] C. SCHMITT, L’ordinamento del mondo dopo la Seconda guerra mondiale (1962), in Un giurista davanti a se stesso, Neri Pozza, Vicenza, 2012, p. 233.
[19] Ibidem.
[20] Per una rassegna di argomenti critici schmittiani sulla Società ginevrina, cfr. P. P. PORTINARO, op. cit., p. 196.
[21] C. GALLI, Lo sguardo di Giano, cit., p. 136.
[22] G. MIGLIO, I novant’anni di Carl Schmitt, in ID., Carl Schmitt. Saggi (a cura di D. PALANO), Scholé, Brescia, 2018., pp. 27-28.
[23] G. MASCHKE, Epilogo a C. SCHMITT, Stato, grande spazio, nomos, Adelphi, Milano, 2005, p. 517.
[24] Critica che viene rivolta anche all’ONU: l’Autore, infatti, osserva come essa non sia «altro che il riflesso dell’ordine e purtroppo anche del disordine esistenti. L’ONU non significa niente» (C. SCHMITT, L’ordinamento del mondo dopo la Seconda guerra mondiale, cit., p. 222). Cfr. altresì D. ZOLO, Le ragioni del «terrorismo globale», in «Iride» 3/2005, pp. 483 ss., ove viene censurata l’inerzia delle Nazioni Unite dinanzi alle «guerre di aggressione vittoriosamente condotte dalle grandi potenze. Solo le guerre degli sconfitti sono guerre criminali». Al contrario, C. GALLI, Lo sguardo di Giano, cit., p. 170 argomenta che «l’ONU […] non è molto di più che la testimonianza di una volontà di umanistica razionalizzazione dell’età globale […], ma per questa critica non c’è bisogno di servirsi di quella schmittiana verso la Società delle Nazioni, né di ipotizzare dietro le istituzioni internazionali la potestas indirecta delle potenze anglosassoni: anzi, l’ONU è oggi una delle ultime istanze che – senza riuscire a essere un katechon, poiché è nato in un tempo storico troppo diverso da quello di oggi – può ancora porsi come contraltare al potere americano».
[25] C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit., p. 315. Al riguardo, v. anche P. TOMISSEN, Introduzione, in C. SCHMITT, Il concetto d’Impero nel diritto internazionale, Roma, 1996, p. VIII, laddove rammenta che – in un rapporto all’Accademia per il diritto tedesco del 1937 - «pone in evidenza il voltafaccia effettuato dal presidente americano Woodrow Wilson: in un discorso del 19 agosto 1914 costui aderiva al principio della neutralità non discriminatoria, ma nella dichiarazione rilasciata il 2 aprile 1917 affermava che la neutralità non era più realistica e, anzi, la si doveva considerare nociva tanto alla pace del mondo quanto alla libertà dei popoli. […] Il suo mutamento di opinione equivalse alla sostituzione del concetto tradizionale di guerra e neutralità non discriminatorie con la nozione di guerra e neutralità discriminatorie».
[26] C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit., p. 327.
[27] V. anche A. CAMPI, Introduzione, cit., pp. 52-57.
[28] Conferma l’ascrizione di Schmitt al realismo politico la circostanza che questa critica alla Società delle Nazioni e all’universalismo, che dissimula la tutela degli interessi angloamericani, coincida con quella di Carr: cfr. M. CHIARUZZI, Edward H. Carr: utopia e realtà, in F. ANDREATTA (a cura di), Le grandi opere delle relazioni internazionali, Il Mulino, Bologna, 2011, p. 36.
[29] Si ritiene che il teorico fondamentale della guerre en forme sia il giurista Emer de Vattel (1714-1767). In tema, cfr. D. LAZZARICH, Stato moderno e diritto delle genti. Vattel tra politica e guerra, Benevento, 2016, pp. 142 ss. L’Autore evidenzia peraltro come, in Vattel, se la guerre en forme giustifica sul piano giuridico il conflitto, la giusta causa continua a rilevare sul piano politico, incidendo sulla decisione degli altri Stati di serbare la neutralità o di intervenire. In questo senso la lettura schmittiana, pur influente, comporta una forzatura dell’opera vatteliana dovuta all’intento polemico del giurista tedesco. Riguardo la riemersione di dottrine moralistiche della guerra, è acuta l’osservazione di P. P. PORTINARO, op. cit., p. 23 secondo cui è l’origine teologico-politica dello Stato moderno che ha in sé – in potenza – gli elementi conflittuali che suscitarono la guerra civile di religione.
[30] Cfr. S. PIETROPAOLI, Mitologie del diritto internazionale moderno, cit., p. 471.
[31] V. anche J. F. KERVÉGAN, Che fare di Carl Schmitt?, Laterza, Bari, 2016 [2011], pp. 194-195. Anche su questo punto emerge una sintonia di Schmitt con il realismo politico: cfr. H. MORGHENTAU, Politica tra le nazioni: la lotta per il potere e la pace, Il Mulino, Bologna, 1997 [1948], p. 345: «gli Stati non si contrappongono più gli uni agli altri, come hanno fatto dal trattato di Westfalia fino alle guerre napoleoniche, e poi ancora dalla fine di queste fino alla Prima guerra mondiale, all’interno di uno schema di opinioni condivise e di valori comuni, che imponeva effettivi limiti ai fini e ai mezzi della loro lotta per la potenza. Essi si affrontano ora come se fossero i paladini etici diversi, ognuno dei quali è di origine nazionale e vuole fornire uno schema sovranazionale di criteri morali che tutti gli altri stati devono accettare, e all’interno del quale devono inserirsi le loro politiche estere. Il codice morale di uno stato sfida con fervore messianico quello di un altro stato, il quale replica allo stesso modo». Per una categorizzazione delle ‘gabbie tigre’ di Guantanamo come applicazione del bellum justum, cfr. C. DE FIORES, Schmitt, nomos e globalizzazione americana, in «Teoria del diritto e dello Stato» 1-2/2011, p. 151.
[32] C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit., pp. 337 ss.
[33] Al riguardo, cfr. C. SCHMITT, Sul rapporto tra i concetti di guerra e nemico (1938), in ID., Stato, grande spazio, nomos, cit., pp. 83 ss. In quest’opera, Schmitt dà conto della difficoltà di una definizione della guerra. In coppia opposizionale con la pace, occorrerebbe scegliere di qualificare, per viam negationis, l’uno o l’altro polo concettuale. In questo senso, o guerra è tutto ciò che non è pace; o pace è tutto ciò che non è guerra. Il tema di fondo è se vi sia un medium tra guerra e pace. Sebbene regnasse apparentemente la pace, Schmitt argomenta che in realtà il Trattato di Versailles avesse creato le condizioni per un ibrido: non uno stato di pace, ma il prosieguo della belligeranza con altri mezzi oppressivi da parte dei vincitori.