«Terra e mare» di Carl Schmitt
1. Schmitt negli anni del nazionalsocialismo
Centrali nel pensiero schmittiano, sino alla seconda metà degli anni ’30, erano stati i temi della sovranità, dello Stato e del politico. Schmitt era diventato uno dei protagonisti del diritto pubblico e della scienza politica nella Repubblica di Weimar, ricollegando la sua riflessione all’eredità di Bodin e Hobbes.
Aveva teorizzato il concetto di politico, quale relazione amico-nemico segnata dalla potenzialità del conflitto armato[1]. Aveva definito il sovrano come chi decide sullo stato d’eccezione[2]. Aveva affermato, nella teologia politica, come i concetti giuridici fossero concetti teologici secolarizzati[3].
In un afflato decisionistico, aveva aderito alla «rivoluzione conservatrice»[4], ponendo in luce i profondi limiti della democrazia weimariana, incapace di difendersi dalle ali estreme del nazismo e del comunismo e auspicando che il Presidente del Reich si ergesse a custode della Costituzione[5].
La conquista – legale, ma, secondo Schmitt, non legittima[6] – del potere da parte di Hitler pose il giurista dinanzi all’interrogativo se schierarsi col nuovo regime.
Nella sua aspirazione, non solo carrieristica, ma d’incidere nel reale, diviene il Kronjurist[7] del nazionalsocialismo[8]. È, però, un idillio che dura poco. Le sue posizioni teoriche, troppo poco Völkisch, gli attirarono l’ostilità delle S.S. Anche il credo cattolico non gli giovò, insospettendo i paganeggianti vertici delle squadre di protezione.
Fu, così, fatto segno il 3 e il 10 dicembre del 1936 di un duro attacco sulle pagine di Das Schwartze Korps, la rivista ufficiale delle S.S. Fu costretto a rimettere tutte le cariche, salvo quella di Consigliere di Stato di Prussia[9]. Solo l’intervento di Göring, suo grande patrono, gli evitò la perdita della cattedra universitaria[10]. Gli è comunque interdetto di viaggiare all’estero, divieto rimosso solo nel ’41.
L’intimidazione del braccio armato del regime lo indusse così a ritrarsi dalle trattazioni di diritto interno – troppo compromettenti, troppo pericolose – per tornare al più asettico diritto internazionale[11], di cui s’era in precedenza occupato in relazione alla questione renana e alla Società delle Nazioni[12].
Soffermandosi sull’itinerario intellettuale di Schmitt, ne viene comunque posta in rilievo la continuità scientifica tra l’opera di diritto interno e quella di diritto internazionale[13]. Vi pulserebbero i medesimi concetti fondamentali: di amico-nemico, di decisione[14], di politicizzazione[15].
Come gli studi sullo Stato sarebbero stati preordinati a comprendere come spoliticizzare lo spazio interno, per impedire la guerra civile; così pure la ricerca internazionalistica sarebbe stata volta a individuare il principio regolatore che garantisse – se non la pace – almeno la guerre en forme.
Ci si può chiedere se e in che misura Schmitt abbia sinceramente parteggiato per il III Reich e quanto la sua opera si inscriva nella temperie culturale nazista.
Due tesi estreme[16] – quella della parentesi e quella continuista[17] – offrono responsi manichei[18].
Secondo la prima, piuttosto generosa per il giurista renano, il periodo nazista sarebbe, appunto, una triste parentesi nella sua vita intellettuale.
Altra interpretazione propende invece per sottolineare come l’impegno internazionalistico di Schmitt ambisse a fondare il substrato teorico della politica estera nazionalsocialista, così come le speculazioni costituzionalistiche avevano forgiato il puntello per l’affermazione della dittatura hitleriana. In questa visione fortemente critica, la dottrina del Grossraum fonderebbe – come l’accusa a Norimberga ebbe modo di sostenere – l’apparato teorico per la politica espansionistica del Terzo Reich[19]. Insomma, l’adesione di Schmitt al nazismo sarebbe stata necessitata, alla stregua delle sue stesse posizioni intellettuali[20].
È infine particolarmente interessante la critica di Löwith, secondo il quale l’adesione al nazismo di Schmitt sarebbe dovuta all’occasionalismo del suo pensiero, privo di «contenuti universali e fondativi»[21].
In realtà, si ritiene di poter respingere le tesi estreme, secondo cui Schmitt sarebbe stato sempre un nazista[22] o sarebbe stato abbagliato solo brevemente dall’astro hitleriano. La prima trascura gli scritti apertamente antinazisti dell’Autore pubblicati prima del 30 gennaio 1933, allorché Hitler ascese al cancellierato. La seconda, invece, dimentica la compromissione, documentata in plurimi articoli e saggi[23], del giurista di Plettenberg con il nazismo.
Anche la teoria di Löwith, sebbene suggestiva, non sembra eziologicamente decisiva:
al più, spiega perché essa [l’adesione al nazismo] sia stata possibile, [ma] perché quella possibilità divenisse realtà è stato necessario un elemento di contingenza, una decisione dettata da opportunismo personale[24].
La conclusione più plausibile sembra essere che Schmitt abbia aderito al regime per ragioni opportunistiche[25]: per condizionare il potere nazista e realizzare parte del programma della Rivoluzione conservatrice; per acquisire una tranquillità ‘borghese’[26]; per porsi – come ebbe a dire Jaspers – intellettualmente a capo del regime[27].
Tornando alla svolta internazionalistica di Schmitt, può allora dirsi che effettivamente egli temette la persecuzione nazista, rinunciando ad occuparsi dei più pericolosi temi di diritto interno[28]. Ma che, nel volgere il suo sguardo al diritto internazionale, ambì comunque a dialogare col potere[29], elaborando teoriche non naziste, ma schmittiane[30]: come riuscì a dimostrare anche in sede di indagini preliminari a Norimberga.
2. Genesi e riferimenti culturali di Terra e mare
Terra e mare[31], pubblicato nel 1942, è forse la prima opera che segna il definitivo distacco dal nazionalsocialismo. In quest’epoca, Schmitt già tende a paragonarsi al Benito Cereno di Herman Melville, capitano di un galeone spagnolo dirottato a seguito della ribellione degli schiavi che trasportava, metafora dell’intellighenzia tedesca ostaggio della barbarie nazista[32].
Dinanzi all’infuriare della seconda guerra mondiale, l’autore tentò di carpire il senso più recondito della storia, rievocando i quattro elementi primari: terra, acqua, aria e fuoco[33].
È l’estremo tentativo di Schmitt di penetrare la storia e il mondo, di accedere a verità esoteriche e nascoste[34].
L’opposizione fondamentale tra terra e mare, nella sua dimensione mitica, è tratta dall’Antico Testamento, dove in molti luoghi si fa riferimento a Behemoth, bestia terrestre, e Leviathan, mostro marino[35]. Le due creature soprannaturali si battono in una lotta epica, in cui Behemoth cerca di azzannare e incornare Leviathan, che con la coda gli serra le mascelle. Schmitt osserva come questa postura della lotta rievochi il blocco navale perpetrato dalle potenze marittime in danno di quelle terranee. La pregnanza di queste metafore[36], anche se secolarizzate, si coglie dalla circostanza che, nella letteratura popolare,
la lotta tra l’Inghilterra e la Russia era comunemente rappresentata come uno scontro tra l’orso e la balena. Lo stesso Napoleone parlava dell’elefante francese di fronte alla balena inglese[37].
Il libro presenta un elevato registro letterario[38]. Schmitt, che diviene anche «narratore di saghe»[39], è ispirato dal Melville di «Moby Dick»[40]. Del resto, Leviatano è, secondo la Bibbia, una balena, come testimoniato nella sezione etimologica del capolavoro americano.
Trascorrendo al piano contenutistico, secondo Schmitt terra e mare si fronteggiano nella storia delle civiltà. Popoli terranei e popoli marittimi sono reciprocamente nemici[41]: si intravvede un chiaro riferimento alla dicotomia Freund-Feind, fondamentale per la costruzione schmittiana del concetto di politico.
In quest’ostilità radicale tra ordinamenti tellurici e acquei si può ricostruire il senso della storia. Lo storicismo di Schmitt pare echeggiare Hegel, di cui è, in questo, debitore[42], mentre la contrapposizione terra-mare era già stata esplorata da Jules Michelet (1798-1874), autore di «La mer contre la terre».
Sotto il profilo geostrategico, fondamentale per Schmitt è la frequentazione di Alfred Tahyer Mahan (1840-1914)[43]. Il contrammiraglio americano, teorico del navy power, consolida le convinzioni di Schmitt riguardo la vocazione imperialistica e oceanica degli Stati Uniti, eredi della Gran Bretagna. In questo senso, per il concetto di sfida assume innegabile rilievo lo storico inglese Toynbee, secondo il quale ogni epoca ha una sua challenge da raccogliere[44].
Assai discusso è invece quanto Schmitt sia stato ispirato e condizionato dalla geopolitica. Carl Schmitt – a differenza dei giuristi normativisti à la Kelsen[45] – ha sempre sostenuto che il diritto sia unità di ordinamento (Ordnung) e localizzazione (Ortung).
Osserva Pier Paolo Portinaro che
per il teorico della dottrina pura del diritto, l’elemento territoriale non è preso in considerazione che come ambito di validità spaziale dell’ordinamento giuridico, mentre la categoria di spazio resta interna alla tradizione filosofica neokantiana e non assume il significato geografico concreto che è proprio di ogni concezione della Raumordnung. Questa divaricazione tra sfera giuridica e sfera geografico naturale deve essere invece necessariamente rifiutata da Schmitt […][46].
La concretezza spaziale è stata, dunque, il segno distintivo della dottrina di Schmitt. Pur senza cadere nella retorica del Blut und Boden[47], Schmitt ha sottolineato come il nomos riposi su una reale e storica spartizione della terra e sulle regole che ad essa accedono[48].
Sorge, dunque, l’interrogativo se Schmitt sia stato ispirato da geopolitici come Friedrich Ratzel e Karl Haushofer[49]. Ratzel, in particolare, aveva dedicato alcune pagine alla scelta marittima dell’Inghilterra[50].
In realtà, la riflessione schmittiana resta essenzialmente giuridica[51].
Pur riconoscendosi debitore della geopolitica, Schmitt ha evidenziato come
il lavoro del pensiero giuridico rimane qualcosa di diverso dalla geografia. I giuristi non hanno appreso la loro conoscenza di cose e di territori, di realtà e di territorialità, dai geografi. Il concetto di occupazione di mare è stato coniato da un giurista, e non da un geopolitico[52].
Giuridici sono i profili concettuali che analizza nel disegnare il divenire storico del diritto internazionale; giuridiche le analisi sulla forma-Stato e sul suo tramonto; giuristi gli interlocutori con i quali dialoga a distanza.
Per Schmitt, insomma, non hanno rilievo tanto le coazioni geografiche alla politica – la presenza di mari o risorse naturali, di fiumi o di monti – quanto i sistemi ordinamentali che si sviluppano sulla terra, le istituzioni che vengono create dagli uomini per governarsi, le regole che s’impongono alle comunità.
In questa prospettiva, certamente la geografia e la geopolitica hanno influenzato il pensiero di Schmitt riguardo il rilievo centrale assunto dalla spazialità, dalla terra e dal mare. Ma mai la geopolitica pare averne distratto le speculazioni dal loro proprio campo d’elezione: il diritto[53].
3. La teorica degli elementi
Schmitt essenzializza la storia umana nell’attraversamento degli elementi della terra, acqua, aria e fuoco. In particolare, egli ricorre al conflitto (che è anche relazione) tra potenze terranee e marittime.
È un conflitto di elementi e, pertanto, occorre indagare questo concetto.
Schmitt osserva che la scienza ha destituito di ogni fondamento la natura di sostanza semplice dei quattro elementi classici:
Oggi nessun fisico o chimico sosterrebbe che uno dei quattro antichi elementi sia l’unica “sostanza semplice” del mondo, come affermarono Talete di Mileto dell’acqua, Eraclito di Efeso del fuoco, Anassimene di Mileto dell’aria ed Empedocle di Agrigento di un composto delle quattro radici elementari[54].
La questione, nondimeno, non va riguardata in senso scientifico, bensì storico-spirituale. I quattro elementi valgono allora come «caratterizzazioni generali che rinviano a differenti possibilità dell’esistenza umana»[55]. Precisa ancora Schmitt:
Gli “elementi” terra e mare di cui parlerò qui di seguito non sono dunque da intendere come grandezze meramente naturalistiche, poiché altrimenti si dissolverebbero subito in sostanze chimiche, ossia in un nulla storico[56].
Tanto posto, l’uomo ha carattere essenzialmente terraneo[57]. È dalla terra che costruisce la propria visione del mondo[58]. Non casualmente, chiama il mondo sfera terrestre e non già acquea, sebbene la superficie del pianeta sia per l’ottanta percento ricoperta – appunto – d’acqua. Ne consegue che
l’idea che un altro dei quattro elementi possa incidere sull’esistenza umana al pari della terra appare a prima vista solo una possibilità fantastica, giacché l’uomo non è un pesce né un uccello, e ancora meno una creatura di fuoco, ammesso che ve ne siano[59].
Tuttavia, non è oziosa la domanda su quale sia l’elemento dell’uomo. L’uomo, infatti, pur nascendo terraneo, conosce il mare. Julien Freund, amico e per certi versi continuatore di Schmitt[60], chiarisce che nello spazio marittimo o aereo
l’uomo fa delle incursioni, ad esempio con gli aerei, ma non vi risiede. Lo spazio marittimo e aereo, infatti, non offre le comodità dello spazio terrestre, perché se gli uomini vi entrano è grazie alla tecnica, ossia grazie a mezzi mobili nei quali la vita è concentrata, scomoda nella durata e asservita a condizioni di sicurezza caute ed eccezionali, a differenza della terra dove l’habitat è in generale sedentario (casa o appartamento) nel quadro della più grande libertà di movimento[61].
Soprattutto, però, l’uomo – a differenza degli altri esseri viventi – è dotato della facoltà di scegliere il proprio elemento. È una superiorità spirituale assimilabile al libero arbitrio, che permette all’uomo di orientarsi nel mondo e di autodeterminare la propria esistenza:
è un essere che non si riduce al suo ambiente. Egli ha la forza di conquistare storicamente la sua esistenza e la sua coscienza: conosce non solo la nascita, ma anche la possibilità di una rinascita, […] gode della libertà d’azione del suo potere e della sua potenza storica; può scegliere, e in determinati momenti storici può scegliere addirittura un elemento quale nuova forma complessiva della sua esistenza storica, decidendosi e organizzandosi per esso attraverso la sua azione e la sua opera[62].
Non sfugge come Schmitt ricorra al concetto di decisione, in coerenza con il suo pensiero classico[63]. La scelta dell’elemento si risolve nell’atto di volontà di un popolo, in un orientamento a un modello di esistenza da cui derivano inevitabili conseguenze storiche.
Per Schmitt, dunque,
la storia del mondo è la storia della lotta tra le potenze marittime contro le potenze terrestri e delle potenze terrestri contro le potenze marittime[64].
La terra è concreta spazialità; differenziazione tra ordinamenti; storicità dei popoli; «madre del diritto»[65]. La terra traccia confini, crea istituzioni politiche, è il dominio dello Stato. Alain de Benoist afferma che
la Terra è uno spazio formato da territori separati e differenziati da frontiere. La frontiera ha un valore intrinsecamente politico nella misura in cui, in politica estera, è rispetto ad essa che si effettua la distinzione tra amici e nemici che costituisce il criterio del politico. La logica della terra si fonda su distinzioni nette tra la guerra e la pace, i combattenti e i non combattenti, l’azione politica e il commercio. Essa è dunque per eccellenza il luogo della politica e della storia[66].
Al contrario, il mare è lo spazio infinito, liscio, uniforme, indifferenziato. Il mare è de-statualizzato, non regolato né regolabile, insuscettibile di termini e – dunque – tende all’universale[67].
La storia mondiale può essere così ripercorsa alla luce del contrasto terra-mare. Da Creta, civiltà marittima, che debellò i pirati del Mediterraneo orientale; ad Atene, vincitrice sulla potenza terranea persiana e sconfitta dall’altrettanto terrestre Sparta[68]; a Roma, città terrestre[69], che trionfò sulla marittima Cartagine. Alla disgregazione dell’Impero d’occidente, sopravvisse come katechon – ovvero come freno alle forze storiche avversarie[70] – l’Impero d’oriente, con le sue navi e il fuoco greco. Accanto ad esso, altre potenze marinare a nord e sudest: i vichinghi e i saraceni. Con le crociate – condotte da principi terranei, che marciarono nei Balcani piuttosto che imbarcarsi nei porti italiani[71] – si affermò poi l’icastica potenza marittima veneziana.
Sin qui, però, a prevalere – nonostante le apparenze – è pur sempre la civiltà terranea, solo mitigata da influssi potamici o talassici[72].
Infatti, il saldo ancoraggio delle potenze dell’antichità e del medioevo fu pur sempre la terra. La navigazione non si spinse mai nella vastità degli oceani, ma sempre nel mare interno del Mediterraneo[73]. L’opzione, insomma, non fu mai per un’esistenza integralmente marittima[74]. Né, per la stessa visione del mondo, sarebbe potuto essere diversamente. Solo le scoperte geografiche del XVI secolo avrebbero permesso una radicale decisione per il mare.
4. La scelta dell’Inghilterra per il mare
Come osservato, ad avviso di Schmitt sino alla scoperta dell’America e all’ingresso nell’età moderna non si è assistito ad alcuna decisione per l’elemento marino.
Venezia, l’ultima grande potenza talassica, restava comunque una civiltà costiera.
Tanto può riscontrarsi sia dalle tecniche di navigazione che dall’arte della guerra marittima. Sotto il primo profilo,
al pari degli altri popoli mediterranei, Venezia conobbe solo la nave a remi, la galea. La grande navigazione a vela giunse invece nel Mediterraneo dall’Oceano Atlantico[75].
Sul piano militare, ponendo un’analogia tra le battaglie di Azio e di Lepanto, Schmitt annota come gli scontri navali avvenissero tramite abbordaggio e combattimento appiedato sulle tolde delle navi. In sostanza, una battaglia terrestre combattuta sulle navi. È, quindi, necessario «chiarire che cosa significa il fatto che un popolo si decida per il mare in quanto altro elemento»[76].
Schmitt, adottando un registro epico-letterario, rimanda alla saga dei balenieri, eroici scopritori di mari e lande sconosciute. Si tratta di cacciatori, piuttosto che pescatori, che intrepidi affrontavano il Leviatano coi loro arpioni, nei mari freddi del nord. «Era un combattimento mortale fra due esseri viventi che, senza essere pesci nel senso zoologico, si muovevano entrambi nell’elemento del mare», nel quale si creava «un intimo legame di amicizia-ostilità tra il cacciatore e la sua preda»[77].
Sono i balenieri che, inseguendo la balena, si fondono con l’elemento marino e ne conoscono gli abissi oceanici.
A quel tempo, nel XVI secolo, iniziarono simultaneamente il loro elementare cammino sul nostro pianeta due diversi tipi di cacciatori, che aprirono nuovi spazi sconfinati da cui nacquero grandi imperi: sulla terra i cacciatori di pellicce russi, che sulle tracce delle loro prede conquistarono la Siberia, raggiungendo via terra la costa dell’Asia orientale; sul mare questi balenieri originari dell’Europa settentrionale e occidentale, che andavano a caccia per tutti i mari del mondo e che, come dice giustamente Michelet, rivelarono il globo. Sono questi i primogeniti di una nuova esistenza elementare, i primi nuovi, veri “figli del mare”[78].
Schmitt osserva come in quel periodo si sviluppò anche una nuova tecnica navale, fondata sulla vela, che consentiva di navigare controvento. Al riguardo fu fondamentale l’apporto della cantieristica olandese[79].
Analogamente, superando la tradizione militare durata sino a Lepanto, «iniziò una nuova era della strategia navale»[80]. Il posizionamento di bocche di fuoco a bordo delle imbarcazioni da guerra comportò che la battaglia navale acquisisse una propria specificità, valorizzando pienamente le manovre e le evoluzioni in mare.
Ma a consentire il vero slancio verso il mare fu la scoperta di un nuovo mondo, che dischiudeva gli oceani e offriva immensi spazi di conquista[81]. A questa corsa parteciparono, in diversa guisa, tutti i Paesi europei. Fu tuttavia solo l’Inghilterra a raccogliere, irrinunciabilmente, la sfida del mare.
Pionieri della conquista del mare furono i pirati[82], i primi a insidiare il prepotere spagnolo del Siglo de oro. Accanto a loro, autentici hostes humani generis, erano poi i corsari, privati (per ciò anche detti privateers) dotati di lettere da corsa dai loro governi, che li autorizzavano ad arrembare le navi nemiche[83].
Schmitt – secondo cadenze weberiane[84] – osserva che il fenomeno della pirateria nel suo complesso trova una costante nel protestantesimo professato dai suoi protagonisti:
tutti questi rochellois, gueux del mare e buccanneers hanno un comune nemico politico, ossia la Spagna, la potenza mondiale cattolica […]. Essi fanno dunque parte di un vasto fronte che, nella prospettiva della storia del mondo, è quello del protestantesimo mondiale di allora schierato contro il cattolicesimo mondiale[85].
Questo carattere religioso non è privo di rilievo nella costruzione schmittiana. Il protestantesimo, massimamente il calvinismo con la sua idea di predestinazione, ha una vocazione individualista-universalista che trascende lo spazio concreto della comunità, istituendo un rapporto diretto tra singolo e Dio. In questo senso, come l’etica protestante ha sospinto lo spirito capitalistico, analogamente può dirsi che l’élite protestante, cosciente della propria superiorità morale e spirituale, ha fornito il supporto ideologico e le energie umane alla scelta per il mare[86]. Alain De Benoist rileva che già in Cattolicesimo romano e forma politica, del 1923, Schmitt aveva osservato come i popoli cattolici avessero un rapporto con la terra assai più intenso rispetto ai popoli protestanti, aperti invece al mare e all’industria[87].
Non è quindi casuale che i più valorosi navigatori e pirati furono i puritani inglesi, gli ugonotti francesi e i calvinisti olandesi[88], che intrapresero una sanguinosa lotta contro i cattolici. In questo senso, la linea amico-nemico corre, dunque, tra cattolicesimo (gesuitismo) e protestantesimo (calvinismo).
Del resto, una connessione forte tra elemento marittimo e capitalismo si rinviene proprio nell’arricchimento derivante dal “capitalismo di rapina”. Gli inglesi, da pastori che vendevano la lana delle pecore nelle Fiandre[89] – come osserva con qualche malizia Schmitt –, divengono ricchi navigatori, anche in virtù delle grassazioni dei loro corsari[90].
Quindi, l’Inghilterra decide infine per il mare, per il capitalismo, per la “deterritorialità” e la “destatualità”, per l’universalismo. Schmitt identifica il momento cruciale di questa decisione nell’occupazione della Giamaica nel 1655 da parte di Oliver Cromwell, il puritano protettore del Regno. Al contempo, l’Olanda – che pure aveva prevalso sui mari sino al ‘600 – era costretta ad “interrarsi” per difendersi dalle mire espansionistiche del Re Sole. Anche la Francia, col massacro della notte San Bartolomeo del 1572, rinunciava all’elemento marittimo, associandosi alla Chiesa romana e decidendo definitivamente per la terra[91].
L’Inghilterra, dunque, ereditò la tradizione marittima e le imprese oceaniche di tutti gli altri popoli europei. Secondo Schmitt, non può tracciarsi alcun parallelo con altre potenze marittime della storia:
«qui siamo di fronte a un caso essenzialmente unico. La sua peculiarità, la sua unicità consistono nel fatto che l’Inghilterra compì una trasformazione elementare in un momento storico e in un modo del tutto differenti da quelli delle precedenti potenze marittime, trasferendo cioè veramente la sua esistenza dalla terra all’elemento del mare. Essa così non vinse soltanto molte battaglie navali e molte guerre […], ma anche […] una rivoluzione di immensa portata, una rivoluzione spaziale»[92].
5. Rivoluzione spaziale e conquista del Nuovo Mondo
Schmitt evidenzia come la concezione dello spazio muti a seconda dell’osservatore, delle sue esperienze, della sua vita. Altro è il concetto spaziale del contadino, altro quello del navigatore, o dell’aviatore.
Ma le differenze tra le varie idee di spazio sono ancora più grandi e profonde quando si tratta nel complesso di popoli diversi e di diverse epoche della storia dell’umanità[93].
Analogamente a quanto già sostenuto riguardo gli elementi, Schmitt si svincola dalle definizioni spaziali delle scienze naturalistiche, peraltro irrelate tra loro. Per contro, sostiene che lo spazio si costruisca a partire dallo sprigionarsi delle energie storiche[94].
Schmitt fornisce tre esempi di grandi rivoluzioni spaziali.
Inizia da Alessandro il Grande, che dischiuse all’occidente le porte dell’oriente, avvicinando culture prima contrapposte. Trascorre poi a Giulio Cesare, che conquistò – e così, in certo senso, scoprì – Gallia e Britannia. Veniva così rivoluzionato lo spazio politico dell’Impero, che, sotto Nerone, circondava il Mediterraneo e si spingeva a nord fino all’oceano atlantico. Con la fine dell’Impero romano e l’affermazione sulla scena mondiale delle potenze arabe, l’Europa si interrò, informandosi a un sistema agricolo-feudale terraneo. Solo con le crociate della fine dell’XI secolo si “riscoprì” il Vicino Oriente, avviando così nuovi traffici commerciali, aprendo a un nuovo concetto di spazio.
Nulla tuttavia di quanto appena narrato appariva commensurabile alla rivoluzione spaziale dei secoli XVI e XVII. La scoperta delle Americhe; della sfericità del globo terrestre; della fissità del sole e delle orbite terrestri; dell’infinità dell’universo; della legge di gravità.
È anzi il rivoluzionamento del concetto di spazio – secondo Schmitt – ad aver consentito la scoperta di un nuovo continente e di nuovi oceani, piuttosto che il contrario. Non erano mancati, infatti, vichinghi del nord che si erano spinti sino alla Groenlandia e forse all’America. Ma non per questo essa fu scoperta. La scoperta implica infatti energie spirituali e consapevolezza storica superiori rispetto allo scoperto: «occorre una trasformazione dei concetti di spazio che abbracci tutti i livelli e gli ambiti dell’esistenza umana»[95].
Questo rivoluzionamento del concetto di spazio non poteva non mutare il nomos della terra attraverso nuove grandi conquiste, spartizioni e sfruttamento di terre.
I popoli europei conquistarono le nuove terre, soggiogando e talora massacrando gli indigeni. Invocavano come titolo giuridico prima la diffusione del cristianesimo, poi la civilizzazione di genti barbare: «da tali giustificazioni nacque un diritto internazionale cristiano-europeo, ossia una comunità dei popoli cristiani d’Europa contrapposti al resto del mondo. Questi popoli costituirono una famiglia delle nazioni, un ordinamento interstatale»[96], mentre i popoli non cristiani rappresentavano più un oggetto che un soggetto di diritto internazionale. Come chiosa Schmitt, «l’epoca delle scoperte può essere definita altrettanto bene – e forse in modo ancora più esatto – come l’epoca della conquista di terra da parte dell’Europa»[97].
Una conquista che principiò secondo le logiche medievali. Il Papa Alessandro VI Borgia divise con una raya l’oceano, assegnando l’ovest alla corona di Castiglia e l’est al Portogallo. Questa linea fu rivisitata poi con il Trattato di Tordesillas del 7 giugno 1494. I regni cristiani riconoscevano ancora l’auctoritas papale e ad essa si rivolgevano per la spartizione della terra. Ma le altre potenze faticavano a sentirsi vincolate dalle decisioni papali, vieppiù a seguito della Riforma[98]. Gli antichi titoli giuridici erano ormai superati: i sovrani protestanti non si riconoscevano più nella res publica christiana[99], e si aprì la contesa per un nuovo nomos. Sarebbe emerso così – nell’equilibrio tra Stati-nazione europei e l’isola Inghilterra, dominatrice dei mari – lo jus publicum europaeum[100].
6. L’equilibrio dello jus publicum europaeum
La fine della res publica christiana e dell’auctoritas papale diedero luogo a un confronto militare tra potenze cattoliche e protestanti. Il disconoscimento di istanze ultime – papa e imperatore – e la nuova grande conquista di terra e mare determinarono una crisi di legittimità sistemica, il travagliato tramonto di un nomos.
La dicotomia amico-nemico percorse non solo le relazioni internazionali, ma anche i rapporti interni ai singoli ordinamenti. Ne venne una guerra civile di religione, particolarmente sanguinosa per la Germania[101].
A questa esasperata politicizzazione interna si riuscì a riparare attraverso l’istituzione dello Stato, grande macchina spoliticizzante che assumeva su di sé – deus mortalis – il monopolio della forza legittima[102]. Gli Stati riuscirono nell’impresa di civiltà di pacificare l’interno e di regolare la conflittualità internazionale attraverso il superamento del bellum iustum[103]. Si rinunciò a bollare come criminale il nemico e ad un concetto moralistico della guerra, che – per conseguenza – autorizzava la distruzione illimitata di quello. Al contrario, invalse la formula dello justus hostis, riconosciuto in quanto altro Stato, dotato di uno jus ad bellum sulle cui ragioni sovrane non era dato sindacare. Gli Stati – equiparati dalla scienza giuridica a dei magni homines[104] – adottavano così una nozione di guerra eminentemente formale, da condurre secondo le regole e con mutuo riconoscimento delle rispettive ragioni. Questa guerra-duello o guerra di gabinetto era procedimentalizzata, trovando avvio con la dichiarazione di guerra e concludendosi con l’armistizio. Era una guerra tra eserciti, senza coinvolgimento dei civili e con un uso moderato della violenza.
Queste regole, peraltro, trovavano vigore soltanto sull’elemento della terra.
Sul mare si affermò la potenza oceanica Inghilterra[105], così che i due elementi si scissero: «una piccola isola situata al margine nord-occidentale dell’Europa diventò così, volgendo le spalle alla terraferma e decidendosi per il mare, il centro di un impero mondiale»[106] e «[…] si trasformò, da frammento staccatosi dal continente, in una parte del mare, in una nave, o, meglio ancora, in un pesce»[107]. La scelta del mare mutava la stessa ontologia dell’Inghilterra, dunque, e la sua Weltanschauung.
Il mare – infinito e uguale a se stesso – rimaneva libero per la pesca, la navigazione pacifica e la belligeranza. Il mare pare rimandare allo stato di natura. Come osserva Freund, non è casuale che le tesi del bellum omnium contra omnes siano nate in una talassocrazia come l’Inghilterra, mentre il contratto sociale sia stato pensato in potenze continentali[108]. A differenza di quella terrestre, la guerra marittima era orientata non solo contro l’esercito regolare, ma contro ogni naviglio battente bandiera nemica e persino contro le navi di Paesi neutrali che commerciassero col nemico.
La guerra terrestre mirava alla conquista di territorio e dunque a preservarne la popolazione, le risorse e l’ordine pubblico. Anche l’occupazione temporanea – come si evince dall’istituto dell’occupatio bellica – tendeva pur sempre alla conservazione dell’ordine sociale e del comune standard costituzionale europeo[109].
Per contro, la guerra marittima era guerra indiscriminata di preda e di distruzione[110].
Rileva Carlo Galli che
infatti la guerra per mare è assai diversa da quella terrestre, e ben più di quella orientata all’assolutezza e al non riconoscimento del nemico, che è principalmente il pirata, figura irregolare criminalizzata come nemico dell’umanità […][111].
In certa misura assimilabili più al mare che al suolo europeo erano poi i territori extraeuropei, aperti alla conquista dei popoli cristiani e sui quali non trovavano applicazione le regole di civiltà valide in Europa.
La violenza veniva dunque limitata nel Vecchio Continente, per esplodere senza vincoli sul mare e nei territori extraeuropei.
In questo equilibrio tra elementi e tra continenti sta, secondo Schmitt, la grande invenzione dello spirito moderno che informa il nomos dello jus publicum europaeum[112].
7. La nuova rivoluzione spaziale. L’isola maggiore
L’essenza marittima – come anche Hegel aveva sottolineato – si rivelò funzionale alla rivoluzione industriale. Osserva Freund che
forse le invenzioni tecniche hanno ugualmente facilitato lo spostamento via terra, ma furono capitali, anzi determinanti, per la traversata dei mari. Il controllo e il dominio progressivo dell’elemento marino furono dunque immediatamente legati al progresso dell’equipaggiamento tecnico dell’uomo[113].
Il carattere di macchina della nave, il favor per il rischio e un concetto immoderato di libertà rappresentarono il volano per le scoperte industriali che tra Settecento e Ottocento fornirono all’Inghilterra il primato tecnologico ed economico. Ma la rivoluzione industriale produsse anche una rivoluzione ontologica dell’isola e antropologica della sua gente:
[…] da grande pesce il Leviatano si trasformò in macchina […]. La macchina mutò il rapporto dell’uomo con il mare. La temeraria specie di uomini che fino a quel momento aveva fatto la grandezza della potenza marittima perse il suo antico significato[114].
Secondo Schmitt altro è misurarsi col mare in un corpo a corpo, altro è invece un dominio meccanizzato, dovuto alla tecnologia navale sviluppata. Per Schmitt «[…] l’esistenza puramente marittima – il segreto della potenza mondiale britannica – era stata colpita nella sua essenza»[115].
In questo quadro, il contrammiraglio statunitense Mahan indagò come conformare il predominio marittimo anglosassone anche nel tempo della rivoluzione tecnica[116], che è anche rivoluzione spaziale in quanto dilata ulteriormente gli spazi d’azione delle potenze[117]. L’Inghilterra è divenuta – nel ragionamento del militare americano – troppo piccola, sicché non può più essere l’isola signora dei mari, perno geopolitico dell’assetto moderno. La posizione inglese dovrebbe, allora, essere ereditata dagli Stati Uniti, l’isola maggiore, capace di fronteggiare le sfide mondiali del Novecento[118].
Schmitt, tuttavia, dubita del successo della translatio imperii. A suo avviso, il declino dello spirito marinaro anglosassone, fiaccato dalla rivoluzione industriale, non potrebbe consentire agli Stati Uniti di egemonizzare i mari, succedendo all’Inghilterra[119].
Schmitt cerca dunque un nuovo nomos per la rivoluzione spaziale della tecnica, che non potrebbe replicare – con attori diversi – il nomos dello jus publicum europaeum.
Ciò anche in virtù della nuova dimensione – introdotta dall’aeroplano[120] e dalle onde elettromagnetiche – dell’aria[121], o – tenuto conto di motori e bombe – del fuoco[122].
Schmitt argomenta la nuova rivoluzione spaziale anche a partire dal mutato valore del mare nell’esperienza umana. Esso, addomesticato dalla tecnica, non è più l’anomico elemento del XVI secolo, ma è divenuto autentico spazio, come tale dominabile dall’uomo.
Il filosofo osserva come questo mutamento possa essere percepito con terrore, ma lascia intravedere che
[…] molti vedono solo un disordine privo di senso laddove in realtà un nuovo senso sta lottando per il suo ordinamento[123].
[1] C. SCHMITT, Il concetto di ‘politico’ (1932), in ID., Le categorie del ‘politico’ (a cura di G. MIGLIO e P. SCHIERA), Il Mulino, Bologna, 1972, pp. 101 e ss.
[2] ID., Teologia politica, in ID., Le categorie del ‘politico’, cit., p. 33. Al riguardo, cfr. anche G. PRETEROSSI, Potere, Laterza, Bari, 2007, pp. 155-164. Sull’esperienza di Schmitt come addetto al Ministero della guerra bavarese, che lo familiarizzò con lo stato d’eccezione, v. G. MASCHKE, Epilogo a C. SCHMITT, Stato, grande spazio, nomos, Adelphi, Milano, 2005, p. 497.
[3] ID., Teologia politica, cit., p. 61.
[4] Colloca Schmitt in questa categoria storiografica S. BREUER, La rivoluzione conservatrice, Donzelli, Roma, 1995.
[5] C. SCHMITT., Il custode della Costituzione, Giuffrè, Milano, 1981 [1931].
[6] ID., Legalità e legittimità (1932), in ID., Le categorie del ‘politico’, cit., pp. 201 e ss. Schmitt pone una distinzione, sulla scorta della tradizione, tra legalità e legittimità. La legalità è la conformità al diritto positivo, alla lex. La legittimità è invece la formula dell’identità e dell’autorappresentazione morale o ideologica dell’ordinamento statale, lo ius. Su queste basi, è evidente come possano esservi atti legali ed illegittimi, e viceversa. In questo senso si disvela la preoccupazione di Schmitt per le sorti della repubblica weimariana. La circostanza che la Costituzione abilitasse, ai sensi dell’art. 48, all’adozione di misure straordinarie in deroga ai diritti fondamentali ha indotto il giurista a formulare ipotesi catastrofiche, poi inveratesi, nel caso della presa del potere di un partito anticostituzionale. Questo avrebbe potuto, del tutto legalmente, chiudere alle proprie spalle la porta della legalità, così alterando la sostanza democratica del sistema. Anche in ciò Schmitt fu profetico, perché è quanto avvenne con l’avvento del nazismo. Schmitt auspicava, allora, il ricorso alla legittimità per negarla a chi volesse, in contrasto col principio fondante del sistema – quello democratico – assumere i pieni poteri, eliminando la contendibilità del potere politico. Questo ruolo di custode della Costituzione è da Schmitt assegnato al Presidente del Reich, che fonda la propria competenza anche sul principio plebiscitario-carismatico, venendo eletto direttamente dal popolo. Sulla costernazione di Schmitt per la legale presa del potere di Hitler cfr. C. GALLI, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 840. Sull’impegno intellettuale schmittiano nella difesa di Weimar, sostenendo limiti impliciti alla revisione costituzionale ex art. 76 della Carta, nonché evocando i poteri straordinari ex art. 48, cfr. A. CAMPI, L’ombra lunga di Weimar. Carl Schmitt nella cultura politica italiana tra terrorismo e crisi della partitocrazia, in «Rivista di politica» 2/2011, p. 94.
[7] Così lo definì Waldemar Gurian, intellettuale antinazista di famiglia ebrea convertitasi al cattolicesimo, in precedenza collaboratore dello stesso Schmitt e poi, dall’esilio, suo strenuo oppositore. Ma rileva A. CAMPI, Introduzione, cit., p. 39 che di particolare rilievo per la costruzione della linea interpretativa di uno Schmitt teorico del Terzo Reich furono le voci di Franz Neumann e di György Lukács.
[8] Per le molte cariche accademiche, dopo breve perdute, ottenute da Schmitt all’adesione al nazismo cfr. A. DE BENOIST, Il pensiero geopolitico di Carl Schmitt, in A. DE BENOIST – J. FREUND, Il mare contro la terra. Carl Schmitt e la globalizzazione, Diana, Napoli, 2019, p. 8.
[9] Carica procacciatagli da Göring, su indicazione di Johannes Popitz (1884-1945), politico conservatore amico di Schmitt. Popitz trovò la morte in quanto partecipe alla congiura di Stauffenberg del 20 luglio 1944, come peraltro anche Albrecht Hausofer (1903-1945), figlio di Karl.
[10] Sul ruolo di Göring nella sua protezione da Himmler, cfr. C. SCHMITT, Un giurista davanti a se stesso 1982), in ID., Un giurista davanti a se stesso, Neri Pozza, Vicenza, 2012, p. 159.
[11] Sul tema, F. RUSCHI, Carl Schmitt e il nazismo: ascesa e caduta del Kronjurist, in «Jura gentium» 9/2012, p.141 afferma che «a Schmitt non restava che la via dell’esilio interno, il ritorno ai classici – Hobbes in primo luogo, e non è un caso –, lo sconfinamento in campi del sapere fino ad allora poco sondati, come la filosofia del diritto internazionale». L’idea di una frattura dell’opera schmittiana, segnata dal sorgere dell’interesse internazionalistico, è condivisa da Nicolaus Sombart (v. anche A. CAMPI, Introduzione, cit., p. 41) e Julien Freund. Contra, cfr. P. CAPPELLINI, Carl Schmitt revisited. Ripensare il Concetto di ‘Grande Spazio’ (Grossraum) in un Contesto Globale, in M. MECCARELLI, M.J. SOLLA SASTRE (a cura di), Spatial and Temporal Dimensions for Legal History, Frankfurt am Main, 2016, p. 183: «Non si tratta dunque affatto di un interesse tardivo, come vuole, ad esempio, un seguace dell’importanza di Lucien (sic) Freund, secondo il quale il suo maestro si sarebbe orientato verso il diritto internazionale soltanto dal 1936, a seguito delle minacce rivoltegli dall’ala più intransigente e fanatica del partito nazista». Ancora, C. GALLI, La genealogia della politica, cit., p. 864 osserva che «questo passaggio di Schmitt agli studi internazionalistici presenta in primo luogo in carattere prudenziale di un allontanamento da tematiche di politica interna, ormai fattesi per lui pericolose», ma prosegue rilevando altresì che «quel passaggio è anche la manifestazione della crescente consapevolezza, da parte di Schmitt, del fatto che la politica interna ha ormai raggiunto esiti fallimentari». Anche A. CAMPI, Introduzione a C. SCHMITT, L’unità del mondo e altri saggi, Pellicani, Roma, 2003 p. 43 rammenta che «è parzialmente errata l’idea, espressa ad esempio da Julien Freund, che egli si sia dedicato alle questioni di diritto internazionale, in particolare dopo il 1936, per sfuggire alle censure dell’ala più intransigente e fanatica del nazionalsocialismo».
[12] S. PIETROPAOLI, Schmitt, Carocci, Roma, 2012, pp. 87 e ss.
[13] Così A. BOLAFFI nella sua introduzione a C. SCHMITT, Terra e mare, Giuffrè, Milano, 1986 [1942] e F. RUSCHI, Carl Schmitt e il nazismo, cit., p. 130, nonché P. P. PORTINARO, La crisi dello jus publicum europaeum, Edizioni di comunità, Milano, 1982, pp. 161-162. S. PIETROPAOLI, Schmitt, cit., p. 13 scrive: «rileggendo l’opera schmittiana con una visione d’insieme è inevitabile cogliere la sostanziale unitarietà di un percorso. Un percorso tortuoso e accidentato, certo, e tuttavia ininterrotto». Stessa tesi l’Autore sostiene in S. PIETROPAOLI, Mitologie del diritto internazionale moderno. Riflessioni sull’interpretazione schmittiana della genesi dello jus publicum europaeum, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno» 37/2008, p. 465.
[14] Per l’esordio della dottrina decisionistica si suole rimandare a C. SCHMITT, Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi giudiziale, Giuffrè, Milano, 2016 [1912].
[15] Cfr. A. CAMPI, Introduzione, cit., p. 9 osserva che «[…] le sue riflessioni sulle origini, sullo sviluppo e sul declino dello jus publicum europaeum, sul nomos della terra, sull’imperialismo, sulle idee di Reich e di Grossraum, sui cambiamenti intervenuti nei rapporti tra guerra e politica e sulle trasformazioni del diritto internazionale, rappresentano il riflesso speculare delle sue ricerche dedicate alla natura (polemico-conflittuale) della politica, al concetto di politico ed alle sue forme storiche di manifestazione (a partire, ovviamente, dallo Stato), all’evoluzione dei regimi politici nell’era della politica di massa, alle metamorfosi del diritto costituzionale, alla dittatura ed alla sovranità, alle differenze tra democrazia e liberalismo».
[16] Ivi, p. 9, l’Autore divide «la platea dei suoi lettori in denigratori da una parte e apologeti dall’altra».
[17] Stigmatizza le idee schmittiane come idee del male Y. C. ZARKA, Un dettaglio nazi nel pensiero di Carl Schmitt, Il melangolo, Genova, 2005, che sottolinea il sostegno prestato da Schmitt alle leggi di Norimberga. L’accusa è particolarmente sottile perché costruisce questa posizione non già come frutto di un occasionalismo opportunistico, ma come il coerente esito della dicotomia amico-nemico. L’ebreo sarebbe, insomma, il nemico secondo le cadenze logico-argomentative de Il concetto di ‘politico’. Ma, sul tema, v. F. VOLPI, Bisogna bruciare Carl Schmitt?, in «La Repubblica», 24 settembre 2005, che stigmatizza il metodo di Zarka, che estrapolerebbe, senza alcuna visione sistematica, specifici scritti schmittiani, così fornendone inevitabilmente una lettura distorta. Ad avviso di G. GIURISATTI, Introduzione a C. SCHMITT, Stato, grande spazio, nomos, Adelphi, Milano, 2005, p. 26 l’antisemitismo schmittiano riposerebbe sul tellurismo dell’Autore, ostile al carattere delocalizzato e disgregante della tradizione giudaica. Sui profili biografici relativi al rapporto tra Schmitt e l’ebraismo, cfr. J.H. KAISER, Il Glossarium di Carl Schmitt. Impressioni e indicazioni, in C. SCHMITT, Glossario, Giuffrè, Milano, 2001, p. XIV.
[18] Così J.F. KERVÉGAN, Che fare di Carl Schmitt?, Laterza, Bari, 2016 [2011], p. 20.
[19] Cfr. invece la difesa da quest’accusa avanzata in C. SCHMITT, Risposte a Norimberga (a cura di H. QUARTISCH), Laterza, Bari, 2006.
[20] Sottolinea che «[…] esistono significativi punti di contatto tra Schmitt e lo stesso Hitler» L. ALBANESE, Schmitt, Laterza, Bari, 1996, p. 55.
[21] Così C. GALLI, Genealogia della politica, cit., p. 845 e A. CAMPI, L’ombra lunga di Weimar, cit., p. 96.
[22] Tra gli altri, F. RUSCHI, Carl Schmitt e il nazismo, cit., p. 130 respinge la tesi di uno Schmitt «protonazista». È nota, del resto, la fallacia logica della reductio ad Hitlerum, ampiamente usata anche per screditare posizioni e concetti di Schmitt. Sul tema, interessante che Raymond Aron, in una sua missiva, negava che Schmitt, come uomo d’alta cultura, potesse essere nazista: cfr. l’analisi di D. STEINMETZ-JENKINS, Why did Raymond Aron write that Carl Schmitt was not a nazi? An alternative genealogy of french liberalism, in Modern Intellectual History, 11/ 2014, pp. 549-574.
[23] Vedi in particolare C. SCHMITT, Stato, movimento, popolo. La triplice articolazione dell’unità politica (1933), in ID., Un giurista davanti a se stesso, cit., p. 255. Si consideri la giustificazione, in punto di diritto, della notte dei lunghi coltelli. Il giurista di Plettenberg – già oggetto di attacchi delle SS per la sua vicinanza ai conservatori e per il culto cattolico – erige qui una monumentale difesa dell’operato hitleriano. È dubbio se questa posizione sia autenticamente schmittiana o se, invece, il filosofo sia stato costretto, per ragioni d’opportunità, a schierarsi dalla parte del regime: non possum scribere in eum qui potest proscribere (C. SCHMITT, Ex captivitate salus, Adelphi, Milano, 1987 [1950], p. 23). Appare utile osservare come Schmitt non giustifichi in senso legalistico la strage nazista, né invochi il caso d’eccezione. Neppure, in una logica quasi savignyana, egli pretende che l’atto sia espressione del diritto tedesco, custodito dal Führer. Sicché non si è in presenza di una decisione politica ex nihilo, bensì della creazione del diritto tedesco nel suo farsi, attraverso l’azione del suo autentico interprete, il Führer. Schmitt tenta, ancora una volta, di por fine all’identità tra diritto e legge. Per far questo non assegna tuttavia al Völk una funzione nomopoietica, attribuendo invece il potere normativo al partito – elemento dinamico e politico dell’ordinamento – e, per esso, al Führer. Al riguardo, cfr. T. GAZZOLO, «Il Führer crea il diritto». Carl Schmitt e la notte dei lunghi coltelli, in «Endoxa. Prospettive sul presente», 26/2020. F. RUSCHI, Carl Schmitt e il nazismo, cit., p. 133 rileva come in controluce lo scritto di Schmitt mirasse, comunque, a impetrare la punizione dei delitti ai danni dei conservatori massacrati dalle SS e, in particolare, del suo riferimento politico, Kurt von Schleicher. Lo stesso Schmitt sostiene di essersi trovato in disaccordo con il regime nell’«affare Röhm»: così in C. SCHMITT, Un giurista davanti a se stesso, cit., p. 160. Va ad ogni modo sottolineato come, per altro verso, la giustificazione della notte dei lunghi coltelli si accosti al prodotto della scienza giuridica nazista «di legittimazione (soprattutto in campo penale) per ogni atto arbitrario del Führer, unica istanza unificante degli innumerevoli corpi, tribunali, istanze, polizie, servizi e apparati amministrativi, dello Stato, del partito, delle S.S., che costituivano la mostruosa caoticità strutturale, il ‘pluralismo’ poststatuale (o neofeudale), del potere nazista»: C. GALLI, Genealogia della politica, cit., pp. 850-851.
[24] Ivi, p. 847.
[25] A. CAMPI, Introduzione, cit., p. 10 ricorda che Schmitt ha agito come «un opportunista privo di nerbo morale», sebbene la critica venga mitigata dalla considerazione che il giurista viveva sotto un regime politico violento e senza scrupoli.
[26] Per una rassegna di tesi che «definiscono l’adesione di Schmitt al nazismo più in base a circostanze concrete, o a dati caratteriali personali, o a strategie politiche, che non a una necessità o a una inevitabilità motivate dalla struttura teoretica del suo pensiero» cfr. ivi, p. 845.
[27] J.F. KERVÉGAN, op. cit., p. 20. Analoga ambizione era coltivata da Heidegger: cfr. F. RUSCHI, Carl Schmitt e il nazismo, cit., pp. 119 e ss. L’Autore sottolinea come «in tutta la produzione schmittiana si avverte la persistente volontà di dialogare con il potere, l’aspirazione ad agire da ‘consigliere del principe’ in virtù di una propria auctoritas intellettuale’». Del resto, Schmitt si sentiva intellettualmente superiore a Hitler: C. SCHMITT, Risposte a Norimberga, cit., p. 77. In questo senso, C. GALLI, Genealogia della politica, cit., p. 848 ascrive a Schmitt, oltre ad ambizioni accademiche, l’aspirazione intellettuale di «essere colui che – dopo il suicidio della repubblica di Weimar – pilota, dall’alto della propria ‘superiorità’ rispetto ai nuovi demagoghi che la catastrofe delle forme politiche tradizionali ha portato al potere, il passaggio dalla morta forma dello Stato a un’esperienza (parzialmente) post-statuale che abbia la capacità di dare forma politica concreta al popolo tedesco». V. anche G. MASCHKE, Epilogo, cit., p. 499 secondo cui l’impegno schmittiano era finalizzato anche a far salvo e rafforzare lo Stato tedesco: «nel 1933 Schmitt nutriva ancora la speranza di poter dare un senso – un senso statualistico – agli slogan del nazismo».
[28] Contra, A. CAMPI, Introduzione, cit., p. 10 sostiene invece che Schmitt sia addivenuto ai temi internazionalistici per motivi ‘intrinseci’ e non ‘estrinseci’, come naturale evoluzione della sua riflessione di diritto interno.
[29] F. RUSCHI, Leviathan e Behemoth. Modelli egemonici e spazi coloniali in Carl Schmitt, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico», 33-34/2004-2005.
[30] Icasticamente, A. CARACCIOLO, Presentazione, in C. SCHMITT, Il custode della Costituzione, cit., p. VII afferma che «paradossalmente può dirsi che il nazismo fu schmittiano più di quanto Schmitt non sia stato nazista».
[31] È una riflessione sul mondo in forma favolistica, tanto che Schmitt riferisce di averlo elaborato raccontando una storia a sua figlia Anima. Nicolaus Sombart osservò, con un calembour, che Schmitt stava in effetti narrando una storia alla sua anima. V. A. DE BENOIST, Il pensiero geopolitico di Carl Schmitt, in A. DE BENOIST – J. FREUND, op. cit., p. 11. Il 16 ottobre 1941 Schmitt aveva tenuto una prolusione, a Parigi, per l’Istituto tedesco, sulla distinzione tra terra e mare in diritto pubblico. Si tratta di un intervento che anticipa il libello su terra e mare e che già all’epoca conobbe una traduzione italiana: cfr. C. SCHMITT, Il mare contro la terra, in ID., Scritti politico-giuridici 1933-1942. Antologia da «Lo Stato», a cura di A. CAMPI, Bacco & Arianna, Perugia, 1983, pp. 107-113.
[32] Cfr. la diaristica di Jünger, citata in A. DE BENOIST, Il pensiero geopolitico di Carl Schmitt, in DE BENOIST, A. – FREUND, J., Il mare contro la terra. Carl Schmitt e la globalizzazione, Diana, Napoli, 2019, p. 1. Sulla figura di Don Benito Cereno a bordo del Saint Dominick v. G. AGAMBEN, Introduzione, in C. SCHMITT, Un giurista davanti a se stesso, cit., pp. 24-28, secondo cui Don Benito identificherebbe «la legge d’Europa tra le due guerre», ormai svuotato di potere dal feroce e selvaggio Babo, nonché V. ANTONIOL, Al crepuscolo della statualità: Carl Schmitt e lo spettro di Benito Cereno, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto» 1/2018, pp. 53 e ss., secondo cui la metafora è tutt’altro che remissiva, rappresentando piuttosto il «punto d’attacco» per evidenziare la grandezza di «un’epoca gloriosa» trascorsa. Sull’emigrazione interna e sul valore del silenzio, mutuato dal tempo delle guerre di religione, in cui il foro interiore è uno spazio di libertà garantito dallo Stato, cfr. P. P. PORTINARO, op. cit., pp. 14-17.
[33] F. VOLPI, Il potere degli elementi, in C. SCHMITT, Terra e Mare, Adelphi, Milano, 2002 [1942], p. 115 cita Aristotele, secondo il quale è mancato un adeguato cantore della terra. Rileva l’Autore come possa ritenersi che la lacuna sia stata colmata da Schmitt, Heidegger e Jünger.
[34] Riferisce Volpi, nell’opera appena citata, come Nicolaus Sombart reputasse Schmitt dotato di un sapere iniziatico, a differenza dell’approccio essoterico del padre, il grande sociologo Werner.
[35] Cfr. Libro di Giobbe, capp. 40-41, citati da C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 19. Consegue – come ebbe a dire Schmitt – che Hobbes errò nell’assegnare allo Stato il simbolo marino del Leviatano, riconoscendo invece il popolo in Behemoth. Al contrario, più propriamente questi – creatura di terra – avrebbe dovuto essere impiegato per designare il sovrano statale: A. DE BENOIST, Il pensiero geopolitico di Carl Schmitt, cit., p. 28. P. P. PORTINARO, op. cit., p. 180 propone una lettura alternativa: a suo avviso «non è un caso che egli [Hobbes] abbia riferito il simbolo di Behemoth, signore della terra, alla guerra civile, e Leviathan, signore del mare, sia divenuto per lui simbolo dell’unità statale».
[36] Ivi., p. 163, Portinaro esamina filologicamente l’origine delle due figure, che – dalla tradizione biblica – vengono, secondo un meccanismo teologico-politico, traslate alla dimensione secolare da Hobbes.
[37] A. DE BENOIST, Il pensiero geopolitico di Carl Schmitt, cit., p. 25. Del resto, ricorda G. MASCHKE, Epilogo, cit., p. 520-521 «Schmitt era certo anche un homme de lettres, e cadrebbe in errore il lettore che considerasse queste attività – che contribuirono notevolmente alla sua fama – alla stregua di uno hobby raffinato».
[38] Su uno Schmitt esteta v. S. PIETROPAOLI, Schmitt, cit., p. 24.
[39] L’espressione è di F. RUSCHI, Leviathan e Behemoth, cit., p. 387.
[40] Capolavoro della letteratura americana del 1851. Secondo Schmitt è, per gli oceani, ciò che l’Odissea fu per il Mediterraneo orientale: C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 32. Peraltro, in tema, A. DE BENOIST, Il pensiero geopolitico di Carl Schmitt, cit., p. 25 rammenta che «l’Odissea è certo un’epopea marittima, ma è un’epopea marittima dove la navigazione è presentata come un esilio. Raccontando le sue peregrinazioni, l’Odissea mostra Ulisse desideroso di tornare a casa perché non è sul mare, ma a Itaca che abita. Ulisse non ha scelto un’esistenza marittima, è un terrestre che si è perduto in mare e la cui unica aspirazione è ritrovare Penelope». V. anche A. CANTARO, Il nomos preso sul serio, in «Teoria del diritto e dello Stato» 1-2/2011, p. 3., p. 13, secondo il quale Omero [più correttamente, probabilmente, Odisseo], pur navigando per le vastità talassiche, ambiva pur sempre al nostos – al ritorno – alla propria isola, alla propria terra. Queste riflessioni si collocano in piena sintonia con la tesi schmittiana per cui la cultura greca restò, comunque, costiera e mai integralmente marittima. Altra fonte di ispirazione per Schmitt è il poeta Theodor Daübler: sulla relazione tra il giurista e il letterato triestino v. S. PIETROPAOLI, Schmitt, cit., pp. 24-25. Secondo F. RUSCHI, Leviathan e Behemoth, cit., p. 389 figurerebbero, tra gli impliciti riferimenti schmittiani, anche Stevenson e Defoe.
[41] C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 18. L’opposizione terra-mare era già stata evocata da Jacob Burckhardt, cui Schmitt pare rinviare con il sottotitolo dell’opera «Una riflessione sulla storia del mondo». Per ulteriori riferimenti v. A. DE BENOIST, Il pensiero geopolitico di Carl Schmitt, cit., pp. 14-15.
[42] Così A. BOLAFFI, op. cit., p. 8, nonché P.P. PORTINARO, op. cit., p. 171. Del resto, Schmitt cita espressamente il paragrafo 247 dei Lineamenti di filosofia del diritto, in cui si afferma che la terra è fondamento e terreno stabile per la vita familiare, mentre il mare lo è per l’industria. V., sul punto, anche M. FELIZIANI, La filosofia spaziale del pensiero politico di Carl Schmitt, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata», XL–XLI, p. 168.
[43] Su Schmitt studioso di Mahan cfr. M. CHIARUZZI, «Fas est ab hoste doceri». Motivi e momenti della prima geopolitica anglosassone, in «Filosofia politica» 1/2011, pp. 45-56. Altro teorico militare evocato da Schmitt è l’ammiraglio francese Raoul Castex (1878-1968), autore di La mer contre la terre, del 1935. Analogamente, nel 1904 il geopolitico inglese Halford John Mackinder (1861-1947) «proponeva una visione geopolitica globale fondata sull’opposizione tra la potenza marittima anglosassone e la potenza terrestre dell’Eurasia. Egli concepiva il pianeta come un insieme composto da un “oceano mondiale”, da una “isola mondiale”, corrispondente all’insieme eurasiatico così come dall’Africa, e da “isole periferiche, l’America e l’Australia. Per dominare la terra, diceva, bisogna impadronirsi dell’isola mondiale e principalmente del suo “cuore”»: così A. DE BENOIST, Il pensiero geopolitico di Carl Schmitt, cit., p. 17.
[44] La teorica della challenge è esplicitamente richiamata da C. SCHMITT, Dialogo sul nuovo spazio (1958), in ID., Terra e mare, edizione a cura di A. BOLAFFI, cit., pp. 103-104.
[45] F. RUSCHI, A settant’anni dal Nomos della terra. Riflessioni sulla filosofia del diritto internazionale di Carl Schmitt, in «Diritto@Storia» 17/2019, ove si chiede retoricamente: «non era stato forse Hans Kelsen a concepire la giurisprudenza come scienza dello spirito, da indagare attraverso una dottrina depurata da ogni elemento naturalistico?».
[46] P. P. PORTINARO, op. cit., p. 197. Nel senso che per il formalismo giuridico lo spazio identifica soltanto i confini di vigenza di un ordinamento, pretermettendo ogni influenza culturale e morale del locus sull’ordo juris v. anche F. RUSCHI, Leviathan e Behemoth, cit., p. 391.
[47] Tra i giuristi nazisti ortodossi vicini al brocardo “terra e sangue” possono citarsi – oltre ai notissimi Freisler e Franck – le SS Höhn e Koellreutter, che censurarono l’operato di Schmitt, avviando una campagna fortemente denigratoria nei suoi confronti (J. F. KERVÉGAN, op. cit., p. XIII). Sulla polemica tra Höhn e Schmitt sui ‘grandi spazi’ cfr. G. MASCHKE, Epilogo, cit., p. 507. Un cenno meritano anche Dahm e Schaffstein, i penalisti della Scuola di Kiel. Infine, va comunque rammentato che il topos del Blut und Boden non era mancato in una conferenza tenuta dall’Autore a Milano nel 1936: cfr. C. SCHMITT, I caratteri essenziali dello Stato nazionalsocialista, in ID., Scritti politico-giuridici, cit., in particolare pp. 62-63. Per una panoramica sulla ‘lotta tra scuole’ nella Germania nazista v. C. GALLI, Genealogia della politica, cit., p. 850.
[48] C. SCHMITT, Nomos, presa di possesso, nome (1959), in ID., Stato, grande spazio, nomos, cit., pp. 337 ss. Ad avviso di ID., Appropriazione, divisione, produzione (1953), in ID., Le categorie del ‘politico’, cit., nomos è un nomen actionis, che discende dal verbo nemein. Nemein significa prendere; spartire; coltivare. Il nomos si articola come processo in questi tre momenti fondamentali. Viene anzitutto la conquista di terra. Può esitare a un’occupazione di terre libere ovvero alla spoliazione dei nemici. Alla base di ogni ordinamento v’è, dunque, questa originaria appropriazione. Ad essa segue poi la divisione, la divisio primaeva, che consiste nello stabilire ‘la legge del mio e del tuo’. È – afferma Schmitt – il pollo che il contadino mette in tavola la domenica, ovvero la terra che coltiva, o ancora l’automobile dell’operaio americano. Viene infine la produzione, il cui archetipo è la coltivazione, ma che va assumendo forme più complesse con l’evoluzione economico-sociale: commercio, industria, finanza. Questa tripartizione, nell’ordine descritto, può essere scardinata dall’evoluzione della tecnica. Ad esempio, nella logica capitalistico-liberale l’esponenziale aumento della produzione accentra il momento costitutivo dell’ordinamento in questa fase prettamente economica; ne segue la divisione, facilitata dalla quantità delle merci; l’appropriazione non è più urgente, apparendo anzi un vecchio arnese teorico, inutile nel mondo della tecnica. Analogamente, per gli utopisti socialisti il progresso tecnico dovrebbe favorire una migliore distribuzione. Al contrario, Proudhon sosteneva che si sarebbe dovuta attuare una più giusta divisione tra i produttori, a scapito dei consumatori: con ciò, alla divisione sarebbe comunque seguita un’appropriazione. Per Marx, invece, prioritario sarebbe il momento dell’appropriazione: e cioè la conquista dei mezzi di produzione da parte del proletariato. Ancor oggi, nell’ottica schmittiana, resta fondamentale il tema del nomos e dell’articolazione dei suoi tre momenti fondativi.
[49] Secondo P. CHIANTERA, Una dottrina Monroe per la Mitteleuropa, in «Storia del pensiero politico», 3/2015, pp. 427-450 Terra e mare tratta della mitizzazione di un tema già trattato scientificamente dalla geopolitica. I richiami fondamentali sono a Mahan e Mackinder. L’Autrice, peraltro, sulla base di un’analisi dei testi di riferimento tra età guglielmina e hitleriana, non ritiene fondata la distinzione teorica tra imperialismo marittimo e continentale. In particolare, osserva come già nell’ammiraglio von Tirpitz convivano le prospettive del Kulturstaat e della Weltpolitik: il potenziamento navale era infatti letto come garanzia dall’intervento britannico nella sfera d’influenza terrestre della Germania. Trascorre poi ad esaminare il pensiero di Ratzel, che predica un’espansione ad est fondata sulla superiorità culturale della Germania e la necessità di garantire al popolo tedesco il suo Lebensraum, senza per ciò trascurare d’esaltare la politica navalista di von Tirpitz. Nonostante ritenga superiori le civiltà marittime, Ratzel preconizza un futuro imperiale mitteleuropeo per la Germania. Analogamente Schmitt, nell’evocare la costituzione di un diritto internazionale dei grandi spazi, pare consapevole dell’esigenza tedesca di bilanciare anche sul mare la potenza inglese.
[50] A. DE BENOIST, Il pensiero geopolitico di Carl Schmitt, cit., p. 15.
[51] Cfr. S. PIETROPAOLI, Schmitt, cit., p. 13, ove afferma che «Schmitt è rimasto sempre fedele alla figura del giurista, dello studioso di diritto». Nella sua intervista a Fulco Lanchester, Schmitt ebbe modo di affermare: «Mi sento al cento per cento giurista e niente altro. E non voglio essere altro. Io sono giurista e lo rimango e muoio come giurista e tutta la sfortuna del giurista vi è coinvolta», in C. SCHMITT, Un giurista davanti a se stesso, cit., p. 183 [2005]. Riguardo il ‘grande spazio’, si rievoca il giudizio di C. GALLI, Lo sguardo di Giano, cit., p. 144, secondo cui «anche il Grande spazio è un concetto politico e non geografico, nonostante Schmitt civetti in questi anni con la geopolitica di Hausofer». Di questo avviso, sebbene accentui le influenze della geografia e della geopolitica su Schmitt, anche P. P. PORTINARO, op. cit., pp. 164-169. L’Autore annota che «i problemi inerenti alla conquista dello spazio […] trovano in Schmitt svolgimento e determinazione giuridica, ma restano tributari nella loro impostazione agli schemi della geopolitica», per concludere, sul piano anche politico, che «Der Nomos der Erde è opera che si distacca in modo netto dalla letteratura geopolitica nazista, la quale ha in Karl Hausofer il suo esponente di maggiore spicco ed il suo velleitario propagandista».
[52] C. SCHMITT, Il nomos della terra, Adelphi, Milano, 1991, p. 14 [1950].
[53] Mostra come il condizionamento sia solo tematico, senza investire l’architettura dei concetti L. MESINI, Carl Schmitt e la geopolitica tedesca. Note per un confronto critico, in «Filosofia politica» 3/2019, pp. 521 e ss.
[54] C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 15.
[55] Ivi, p. 16.
[56] Ibidem.
[57] Quantunque non manchino esempi di popoli, come i Canachi e i Sawaiori, che vivono invece un’esistenza marittima. Sul tema e sull’egemonia della terra nella visione dell’uomo cfr. J. FREUND, La Talassopolitica, in A. DE BENOIST – J. FREUND, op. cit., pp. 92-93 [1985]. Per i profili teologico-politici implicati da quest’affermazione, v. A. CASTALDINI, Il katechon di Carl Schmitt, custode del “grande spazio”, in «Helipolis» 1/2017, pp. 123 ss.
[58] Secondo A. DE BENOIST, Il pensiero geopolitico di Carl Schmitt, cit., p. 19 humus e homo hanno la stessa origine.
[59] C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 12.
[60] Sul fondamentale ruolo di Freund nella ricezione di Schmitt in Francia, cfr. J. F. KERVÉGAN, op. cit., pp. 48-49.
[61] J. FREUND, La Talassopolitica, cit., p. 99.
[62] SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 17.
[63] V. C. SCHMITT, I tre tipi di pensiero giuridico (1933), in ID., Le categorie del ‘politico’, cit., pp. 245 ss.
[64] C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 18.
[65] C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit., p. 1. Sul nesso tra terra e diritto, interessante è il riferimento di F. RUSCHI, Leviathan e Behemoth, cit., pp. 397-398 all’architettura castrense come celebrazione della vittoria del diritto sullo spazio. In particolare, l’Autore cita Romolo che istituisce il pomerium e uccide Remo, suo fratello, come violatore del diritto e della comunità, avendone illegittimamente invaso lo spazio.
[66] A. DE BENOIST, Il pensiero geopolitico di Carl Schmitt, cit., p. 21.
[67] Ibidem: «Il mare è tutto l’opposto, perché ignora i limiti e le frontiere naturali, le montagne, i fiumi e le foreste».
[68] Cfr. anche l’analisi di F. RUSCHI, Questioni di spazio, cit. L’Autore dimostra come l’opzione marittima ateniese – ben più radicale di quanto sostenuto da Schmitt in Terra e mare – abbia prodotto un autentico mutamento del nomos e dell’ethos della città attica. Alla natura terranea degli opliti e degli ordinamenti cittadini di cui erano espressione, si sarebbe contrapposto il carattere marittimo dei rematori-pirati, prodotto della talassocrazia. In questa prospettiva, la decisione di Temistocle per il mare avrebbe determinato una rivoluzione giuridica e spirituale di Atene, proiettandola verso uno sfrenato imperialismo, illimitato come il nuovo elemento della città. Filippo Ruschi costruisce una fitta trama di riferimenti, da Plutarco a Isocrate a Tucidide a Platone – che corroborano la dicotomia terra-mare in età classica, provando la piena consapevolezza degli antichi riguardo l’ontologia dei due elementi e le conseguenze per la polis dell’opzione per l’uno o per l’altro.
[69]Ivi, p. 75 viene osservato come il mare – anomica distesa liquida – abbia inciso anche sulla struttura istituzionale romana. In questo senso, viene evocata la lex Gabinia sulla repressione della pirateria, che conferiva Pompeo un imperium infinitum, in analogia all’illimitatezza della distesa liquida del mare.
[70] Sul senso di questa metafora proveniente dal Nuovo Testamento cfr. A. CASTALDINI, Il katechon di Carl Schmitt, custode del “grande spazio”, cit. A. DE BENOIST, Il pensiero politico di Carl Schmitt, cit., pp. 50-51 ricorda che «questo termine, che Schmitt utilizza spesso, è preso in prestito da San Paolo (2 Tessalonicensi, 2, 7). Nell’apostolo, sembra designare una forza che ritarda o trattiene la manifestazione dell’Anticristo (“l’Uomo empio, l’Essere perduto, l’Avversario) che si ritiene preceda la Parusia. Agli occhi di Schmitt, possono a buon diritto essere assimilate al katechon tutte le forze, tutte le istituzioni che, nella storia, impediscono all’umanità di dirigersi verso il mysterium iniquitatis, ritardando così il sopraggiungere della fine dei tempi».
[71] Così F. RUSCHI, Leviathan e Behemoth, cit., p. 403.
[72] Per queste classificazioni Schmitt rimanda a Ernst Kapp: cfr. C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 25. In tema, v. anche E. CASTRUCCI, Nomos e guerra. Glosse al nomos della terra, La scuola di Pitagora, Napoli, 2011, p. 25.
[73] Chiara è l’etimologia del nome di questo mare: medi-terraneo, tra le terre: A. DE BENOIST, Il pensiero geopolitico di Carl Schmitt, cit., 29.
[74] È emblematica la descrizione schmittiana dello sposalizio col mare, cerimonia in cui il doge veneziano lanciava nelle acque marine un anello, a significare appunto le nozze della Città col mare. Ebbene, Schmitt rileva come una civiltà integralmente oceanica non avrebbe avuto bisogno di un simile rito, poiché sarebbe coincisa col mare stesso, non concepibile come altro da sé (C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 26).
[75] Ivi, p. 27.
[76] Ivi, p. 28.
[77] Ivi, p. 35. L’Autore, nel confronto con il sinologo, esperto di Mao, J. Schickel – C. SCHMITT-J. SCHICKEL, Colloquio sul partigiano, in C. SCHMITT, Un giurista davanti a se stesso, cit., p. 90 – ha modo d’affermare, icasticamente, «l’uomo terraneo è una specie diversa, sarei tentato di dire, dall’uomo marittimo». In questo senso, A. DE BENOIST, Il pensiero geopolitico di Carl Schmitt, cit., p. 56 sottolinea che la svolta marittima genera quasi una differente tipo d’uomo. V. anche F. RUSCHI, Communis hostis omnium. La pirateria in Carl Schmitt, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico» 38/2009, p. 1228: «le distese talassiche, a loro volta, generavano un’antropologia altrettanto peculiare: il pirata e tutta la sinistra genia degli ‘schiumatori del mare’».
[78] Ivi, pp. 36-37.
[79] Ivi, p. 38: «In quest’epoca di svolta si verificò anche un importante avvenimento tecnico. Anche qui furono all’avanguardia gli olandesi, che intorno al 1600 erano ormai i maestri incontrastati della cantieristica. Essi inventarono una nuova tecnica velica e nuovi tipi di velieri che sopravanzarono il remo, rendendo possibile una navigazione adeguata alle dimensioni degli oceani recentemente scoperti».
[80] Ivi, p. 39.
[81]F. RUSCHI, Leviathan e Behemoth, cit., p. 416 rileva come la presa della terra nelle Americhe fosse, in realtà, più propriamente una presa del mare. E cioè: in tanto si poteva occupare il suolo americano, in quanto si fossero scoperte e conquistate le rotte oceaniche.
[82] Tra le fonti privilegiate di Schmitt in tema, The pirate’s who’s who, di Philip Gosse, edito nel 1924. Osserva F. RUSCHI, Leviathan e Behemoth, cit., p. 389 che la tradizione piratesca era viva anche in Germania, tanto che i Frei Korps – nel primo dopoguerra – issavano le insegne dei pirati baltici.
[83] Schmitt rileva come l’età dell’oro della pirateria sia contenuta tra il 1550, in cui fu scatenata dalle potenze protestanti contro la Spagna cattolica, e il 1713, anno della pace di Utrecht, in cui si consolidò la pax europaea.
[84] Schmitt aveva frequentato i corsi tenuti da Weber nel 1919-1920, mutuandone alcuni concetti quali la distinzione tra legalità e legittimità e il carisma: S. PIETROPAOLI, Schmitt, cit., p. 34.
[85] SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 46. Può rammentarsi il contributo dei corsari alla vittoria inglese contro l’Armada nel 1588.
[86] A. DE BENOIST, Il pensiero geopolitico di Carl Schmitt, cit., p. 30.
[87] Ibidem. In C. SCHMITT, Cattolicesimo romano e forma politica, Bologna,1986 [1923], p. 23 si legge che «sembra che i popoli cattolici amino il suolo, la Madre Terra […]: hanno tutti il loro terrisme».
[88] I passi riguardanti il tema religioso rafforzeranno in Gottfried Benn – secondo quanto da lui scritto in una missiva a Schmitt – l’istintivo rifiuto del protestantesimo della Bassa Sassonia. V. F. VOLPI, Il potere degli elementi, cit, p. 128.
[89] Cfr. C. SCHMITT, Terra e mare, cit.,p. 95.
[90] Un caso emblematico è quello dei Killigrew. Schmitt narra la storia di questa casata, che, in conformità con lo stile dell’élite di appartenenza, era dedita alla pirateria e all’assassinio. Ivi, pp. 47 ss.
[91] Ivi, pp. 54-55.
[92] C. SCHMITT, Terra e mare, cit., pp. 55-56.
[93] Ivi, p, 57.
[94] Ibidem: «Cristoforo Colombo non ha aspettato Copernico».
[95] Ivi, p. 70.
[96] Ivi, p. 75.
[97] Ivi, p. 77.
[98] Cfr. F. RUSCHI, Levithan e Behemoth, cit., p. 393, ove cita lo sprezzante argomentare della regina Elisabetta I, che respinge ogni vincolatività dei dicta papali e dei patti ispano-portoghesi per l’Inghilterra.
[99] Sulla res publica christiana e il suo nomos, cfr. C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit., p. 41.
[100] V. ANTONIOL, op. cit., p. 60 definisce icasticamente lo jus publicum europaeum come [sul]l’ equilibrio terra/mare ed Europa/resto del mondo».
[101] Secondo Schmitt, l’unico personaggio storico degno di memoria, tra la seconda metà del ‘500 e il primo ‘600 fu l’imperatore Rodolfo II, katechon che riuscì a frenare la contesa interna tra luterani e cattolici. C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 82.
[102] In questo senso, v. G. MIGLIO, Oltre Schmitt (1980) in ID., Carl Schmitt, cit., p. 37.
[103] Sulle funzioni della forma-Stato di centralizzazione della decisione politica, pacificazione interna della guerra feudale e civile, nonché di regolazione esterna (temperamentum belli) mediante le amity lines, v. P. P. PORTINARO, op. cit., p. 178.
[104] C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit., pp. 170-172. L’Autore, in particolare, rileva che «lo Stato viene concepito giuridicamente come entità di un nuovo ordinamento spaziale e come soggetto di un nuovo diritto internazionale, imponendosi come concetto giuridico. Questo Stato è tuttavia essenzialmente uno spazio unitario, territorialmente chiuso, di suolo europeo, che viene contemporaneamente rappresentato come un magnus homo». Sulla metafora, anche letteraria, impiegata da Schmitt per esplicare la costruzione dello Stato cfr. M. BALESTRIERI, Allegorie della legge. L’archeologia come pratica del diritto, in «The Cardozo electronic law bulletin», 1/2017, p. 9.
[105] Schmitt non esita ad affermare che «la terraferma appartiene ora a una dozzina di Stati sovrani, mentre il mare appartiene a tutti o a nessuno o in definitiva soltanto a uno: l’Inghilterra». C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 88.
[106] Ivi, p. 91.
[107] Ivi, p. 95.
[108] J. FREUND, La Talassopolitica, cit., p. 109.
[109] C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit., pp. 247 ss.
[110]Schmitt annota che «un blocco degli approvvigionamenti, in particolare, colpisce indifferentemente l’intera popolazione del territorio che vi è sottoposto: militari e civili, uomini e donne, vecchi e bambini» (C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 90). V. anche P. TOMISSEN, Introduzione, in C. SCHMITT, Il concetto d’Impero nel diritto internazionale, Roma, 1996.
[111] C. GALLI, Lo sguardo di Giano, cit., p. 139.
[112] La sincera ammirazione schmittiana per la politica dell’equilibrio lo avvicina al realismo classico: cfr., ex multis, L. ZAMBERNARDI, Hans Morghentau: la politica di potenza, in AA. VV., Le grandi opere delle relazioni internazionali (a cura di F. ANDREATTA), Il Mulino, Bologna, 2011, pp. 53 e ss.
[113] J. FREUND, La Talassopolitica, cit., p. 98.
[114] C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 101.
[115] Ivi, p. 102
[116] Che – come dimostra J. FREUND, La Talassopolitica, cit., p. 104 – è una rivoluzione non solo dello spazio, ma anche del tempo. L’Autore osserva come anche il tempo – in generale ma soprattutto in età recente – rappresenti un rilevante fattore geopolitico, importante quanto lo spazio.
[117] C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 106 osserva che «lo sviluppo industriale e la nuova tecnica non si lasciarono bloccare al livello del XIX secolo. Non si fermarono alla nave a vapore e alla ferrovia. Il mondo si trasformò più rapidamente di quanto avessero presagito perfino i più fervidi profeti delle macchine, ed entrò nell’epoca dell’elettrotecnica e dell’elettrodinamica. Elettricità, aviazione e radiotelegrafia produssero un tale sovvertimento di tutte le idee di spazio da portare chiaramente a un nuovo stadio della prima rivoluzione spaziale planetaria, se non addirittura a una seconda, nuova rivoluzione spaziale».
[118] J. FREUND, La talassopolitica, cit., p. 105 osserva come, in ragione della scoperta e dell’uso dell’arma atomica, l’insularità abbia – in realtà – smarrito il proprio carattere di protezione.
[119] V. infra, pp. 29 ss.
[120] C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit., p. 28.
[121] L’irrompere di un nuovo elemento evoca la sua creatura mitica, Grifo, uccello dominatore dell’aria: v. F. VOLPI, Il potere degli elementi, cit., p. 122. Analogamente, A. DE BENOIST, Il pensiero geopolitico di Carl Schmitt, cit., p. 52.
[122] Schmitt esprime l’idea che il nuovo elemento – dopo terra e acqua – potrà essere il fuoco in una lettera a Jünger del 4 luglio 1941, forse influenzato dai bombardamenti alleati sulle città tedesche: cfr. ibidem.
[123] C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 110.