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I «Grandi spazi» nel pensiero internazionalistico di Carl Schmitt

Seconda parte
Faro di Marina di Ravenna
Ph. Enrico Gusella / Faro di Marina di Ravenna

Abstract:

Il saggio delinea il concetto di ‘grande spazio’ elaborato da Carl Schmitt nel 1941 e tiene conto delle diverse interpretazioni che ne sono state proposte. La nozione, infatti, è sostanzialmente aperta e consente di accedere sia a una prospettiva gerarchizzante che a una visione orizzontale, più confacente alla moderna sensibilità delle relazioni internazionali.

In questa seconda parte, si esaminano gli Stati Uniti nella prospettiva schmittiana. Secondo l’Autore, essi avrebbero elaborato, con la dottrina di Monroe, un’embrionale teoria dei ‘grandi spazi’, successivamente tradita da una torsione universalista. La fine della seconda guerra mondiale, dunque, aprirebbe a un nuovo nomos della terra, costruito sul conflitto tra Est e Ovest. Si tratta di una falsa competizione tra monismi animati da una comune filosofia della storia: secondo Schmitt, dal duopolio USA-URSS potrà emergere un unico signore del mondo o, con la creazione di ‘terze forze’, un pluralismo dei ‘grandi spazi’.

 

1. Gli Stati Uniti, nemico dell’ordine terraneo

L’ammiraglio Mahan considerava gli Stati Uniti l’isola maggiore[1], che avrebbe potuto subentrare alla Gran Bretagna nel dominio del mare e, attraverso quell’elemento, del mondo. Gli Stati Uniti, del resto, non sono soltanto eredi della tradizione marittima e, dunque, industriale anglosassone. Sono anche figli dei puritani inglesi, che fornirono l’energia spirituale per i grandi viaggi oceanici e la conquista di mare e di terra dei gloriosi XVI e XVII secolo[2].

Questo carattere marittimo, tuttavia, non si manifestò immediatamente nella storia americana. Ciò anche in virtù dell’esigenza dei coloni e poi degli Stati Uniti di conquistare l’ovest[3]. La loro, dunque, fu all’inizio un’epopea terrestre, che, però, si volgeva alla creazione di un’isola. Solo quando la presa del continente fu compiuta poterono volgersi definitivamente ai mari: all’Atlantico prima, al Pacifico poi.

La politica americana è allora pervasa da questa ambiguità: una tendenza alla chiusura isolazionista, una controforza che si proietta invece nel mondo[4].

Questa duplicità si manifesterebbe anche nella fondamentale dottrina di Monroe, del 1823. Vi si affermava l’indipendenza del continente americano, respingendo qualsivoglia tentativo di ingerenza delle potenze europee. Veniva tracciata una linea, che riservava al nuovo mondo l’emisfero l’occidentale. Gli Stati Uniti si facevano garanti dei Paesi del Centro e del Sud America, di recente liberatisi dalla madrepatria europea. Veniva istituita una linea di demarcazione – un cordone sanitario – che separava così l’emisfero occidentale dalla corrotta Europa[5].

In breve, la Monroe Doctrine sanzionava un’egemonia statunitense sul continente, tanto da far giungere alla sineddoche per cui l’America vien fatta coincidere con gli Stati Uniti.

Sarebbe questa, ad avviso di Schmitt, la prima teorizzazione del grande spazio (Grossraum), inteso come territorio eccedente i confini nazionali, caratterizzato da affinità politico-culturale, in cui è egemone un Impero, con esclusione dell’intervento di potenze estranee[6].

Quantunque detentori di questo primo modello storico-concreto di grande spazio, gli Stati Uniti virarono, tuttavia, verso una concezione marittimo-universalista[7]

È questa una torsione della dottrina di Monroe, interpretata dagli USA come principio abilitante l’intervento ovunque siano in gioco interessi americani[8]. Ne sono testimonianza le posizioni di Wilson e di Roosvelt, icasticamente sintetizzate nella dottrina di Stimson del 1932[9].

Durante il secondo conflitto mondiale – che per Schmitt si sarebbe declinato in una doppia guerra: quella terrestre, iniziata col conflitto civile spagnolo del ’36, e quella oceanica, scoppiata a Pearl Harbour nel dicembre ’41–, l’Autore concentrò la propria analisi sull’intervento americano[10]. Richiamando le tesi di Mahan del 1904, sosteneva che gli Stati uniti sarebbero succeduti all’Inghilterra come superpotenza oceanica, in quanto ‘isola più grande’ in grado di sostenere l’imperialismo marittimo in uno spazio dilatato[11].

L’Autore si dimostrava però critico rispetto alla decisività dell’entrata in guerra americana, rilevando come gli Stati uniti non potessero essere determinanti a causa delle intrinseche contraddizioni della loro politica, combattuti com’erano tra interventismo e isolazionismo, in un’ambigua lettura della dottrina di Monroe[12]:

da decenni, insomma, l’emisfero guidato dagli Stati Uniti vacilla tra tradizione e situation, isolazionismo e interventismo, neutralità e guerra mondiale, riconoscimento e non riconoscimento di ogni nuova situazione[13].

Pur riconoscendo che gli USA potevano avvalersi sia dell’arma ideologico-concettuale del ‘grande spazio’ americano, sia della vocazione universale britannica, in un doppio gioco ideologico e pragmatico, secondo Schmitt questa indecisione di fondo rendeva la nuova superpotenza un attore inconsapevole della storia. Né rallentatori – con l’Impero britannico, katechon di ogni mutamento mondiale – né propulsori di un nuovo ordinamento della terra:

quando abbandonò il terreno dell’isolamento e della neutralità, il presidente Roosvelt si sottomise nolens volens al costitutivo orientamento frenante e rallentante del vecchio impero mondiale britannico. Nel medesimo tempo però proclamò il «secolo americano», per mantenere la traiettoria americana verso il nuovo e il futuro in cui si era mossa la stupefacente ascesa degli Stati Uniti nel XIX secolo. Anche in questo caso […] il passo oscilla nelle profonde contraddizioni interne di un emisfero che ha perduto il proprio baricentro[14].

Evidentemente, Schmitt scriveva da tedesco in guerra contro gli Alleati nel 1942: gli americani furono decisivi nel conflitto e confermarono il Novecento come ‘the American century’.

Tuttavia, la critica culturale agli Stati Uniti non cessò: Schmitt non rinunciò mai al suo tradizionale nemico, neppure dopo la sua sconfitta[15].

Nel Nomos della terra (1950), osserverà come

nel medesimo tempo in cui si iniziava in politica estera l’imperialismo degli Stati Uniti, la situazione interna statunitense vedeva invece terminata l’epoca della sua novità. Il presupposto e il fondamento di quella che, in senso reale e non semplicemente ideologico, poteva essere detta la novità dell’emisfero occidentale era venuto meno. Già attorno al 1890 cessò negli Stati Uniti la libertà di conquista interna e si era conclusa la colonizzazione del territorio che era stato fino ad allora libero. Fino a quel momento era rimasta ancora valida negli Stati Uniti la vecchia linea di confine, che teneva separati i territori colonizzati e territori liberi, ovvero aperti alla libera conquista. Fino ad allora era esistito anche l’abitante tipico di questa linea di confine, chiamato frontier: colui che poteva spostarsi dal territorio colonizzato al territorio libero. Ma ora, assieme al territorio libero cessava anche la libertà fino ad allora esistente. L’ordinamento fondamentale degli Stati Uniti, il radical title, si trasformò […][16].

Ad ogni modo, nonostante le valutazioni schmittiane, era indubbio che dalla seconda guerra mondiale fosse sorto un nuovo nomos della terra, sotto il segno delle due superpotenze USA e URSS.

 

2. Il nomos della cortina di ferro e l’alternativa multipolare

Già dal 1942 Schmitt aveva evidenziato la specificità della seconda guerra mondiale nel fatto che essa era

una guerra per l’ordinamento dello spazio in grande stile, la prima guerra per l’ordinamento dello spazio di proporzioni planetarie[17].

Non quindi una guerra dentro il nomos, ma una guerra per un nuovo nomos globale.

Concluso il conflitto, non abdicò alle sue categorie interpretative, cercando di leggere la contemporaneità attraverso i concetti di nomos e di grande spazio e l’opposizione terra-mare.

Pur ammettendo l’aleatorietà della distinzione est-ovest, Schmitt osservava come l’emisfero occidentale fosse essenzialmente oceanico, mentre quello orientale terraneo. Rinveniva dunque nuovamente la sua formula terra contro mare, in cui civiltà telluriche orientali si scontrano con quelle marittime occidentali[18].

Era, tuttavia, certo che la struttura geopolitica binaria fosse per sua natura transitoria, innalzando la tensione internazionale ed umana ad un livello insostenibile[19].

Secondo l’Autore tre sarebbero stati i fenomeni caratterizzanti un nuovo nomos del secondo dopoguerra: l’anticolonialismo, la presa dello spazio cosmico, l’industrializzazione del terzo mondo[20].

L’anticolonialismo sarebbe stato fondato, nell’avviso di Schmitt, su una leggenda nera antieuropea, che aveva dipinto l’Europa come aggressore e nemico della pace. Dietro la coltre ideologica, l’anticolonialismo avrebbe avuto, dunque, una connotazione eminentemente spaziale: suo scopo sarebbe stato di distruggere l’ordine europeo per sostituirlo con un nuovo ordine. Ciò sarebbe dimostrato dalla circostanza che sul banco degli imputati sia stato posto il solo imperialismo europeo, mentre analoghe posture aggressive – come quella sovietica – non sono state oggetto della stessa censura. Ad ogni modo, secondo Schmitt, la weltanschauung anticolonialista avrebbe carattere soltanto ‘negativo’:

non ha la capacità di promuovere in modo positivo l’inizio di un nuovo ordinamento dello spazio[21].

Al contempo, sarebbe venuta in gioco – per contrappasso – anche la ‘colonizzazione’ del cosmo, secondo la nota azione tripartita di appropriazione, divisione, produzione.

Tuttavia, al centro della visione politica sarebbe rimasta, per il filosofo tedesco, la terra. Il dominio della terra avrebbe garantito i mezzi tecnici per conquistare il cosmo; e la conquista del cosmo avrebbe assicurato le risorse ideologiche fondamentali per conquistare la terra, il solo vero obiettivo delle potenze in lotta.

La guerra fredda rappresenta, per Schmitt, un conflitto che distrugge tutti i concetti classici del diritto internazionale europeo: la distinzione tra guerra e pace e quella tra nemico e criminale.

L’Autore ha, dunque, schematizzato diacronicamente la guerra fredda in tre fasi.

La fase del One World rappresenterebbe il pre-stadio della guerra fredda. In questo periodo, Stati Uniti e URSS – alleati contro Hitler – avrebbero creato un sistema internazionale tendenzialmente unitario, ispirato alla concordia delle due superpotenze.

Ma già nel ’47, al manifestarsi dei primi contrasti tra i due Stati-guida, avrebbe avuto inizio la fase bipolare, segnata dal confronto agonistico tra USA e URSS, con il declino delle tradizionali partizioni guerra-pace e nemico-criminale.

La terza fase consisterebbe, invece, nell’emersione di ‘terze forze’, che avrebbero potuto aprire a un mondo multipolare.

Schmitt si interrogava, così, su quale sarebbe potuto essere il nuovo nomos della terra dopo la guerra fredda: la vittoria completa di una delle due parti, con l’affermazione di un impero mondiale, che stringesse terra e mare; una riedizione dello jus publicum europaeum, con l’affermazione degli Stati Uniti sullo spazio aereo in luogo del dominio britannico sul mare; o, infine, la creazione di grandi spazi reciprocamente indipendenti[22].           

Riguardo la prima ipotesi, Schmitt manifestò notevoli preoccupazioni, dimostrando – naturalmente – la sua propensione per la terza, quella di un equilibrio dei ‘grandi spazi’.

A suo avviso, l’unità del mondo, implicante il dominio di un solo principio politico sulla terra, sebbene possa apparire desiderabile, non sarebbe concettualmente neutra. Infatti, la signoria esclusiva può essere tanto buona che cattiva.

Schmitt riconosceva come il progresso della tecnica sembrasse favorire l’unità, ma dubitava che il mondo potesse essere ridotto – attraverso il progresso scientifico – a un’entità pienamente dominabile e plasmabile da una sola superpotenza che imponesse il proprio esclusivo nomos.

Riteneva che quale che fosse stato il vincitore si sarebbe aperta un’era di universalismo, sotto il dominio di un’unica superpotenza[23]. In questo senso, Ovest ed Est apparivano a Schmitt accomunati dalla filosofia della storia, e cioè da una visione escatologica per cui, con il progresso della tecnica e la pianificazione, si sarebbe giunti ad una società ideale (del consumo o della terra elettrificata, rispettivamente)[24]. Questa logica storicista avrebbero tanto i piani quinquennali staliniani, quanto la fede nel progresso della società del benessere occidentale[25].

Schmitt propendeva, dunque, per la soluzione dei ‘grandi spazi’, che gli sembrava peraltro la più realistica[26]. Il mondo sarebbe stato troppo grande per contenere solo due ideologie dalla medesima radice, non mancando quelle che potremmo chiamare aree di civilizzazione non riducibili alla dicotomia USA-URSS: l’Europa, l’Islam, l’India, la Cina, gli Stati di civiltà ibero-lusitana.

Sarebbero dunque esistite riserve spirituali eccedenti la sola dicotomia Est-Ovest, che avrebbero restituito infine un mondo plurale[27].

Del resto, come osserva Andrea Mossa, Schmitt rinviene nell’azione internazionale degli Stati Uniti una «tendenza entropica», un nulla-di-ordine che si contrappone a una visione spazialmente regolata della terra. In questa prospettiva, potrebbe dunque parlarsi di un moto “entropico e centripeto”, in cui il disordine si sviluppa in ragione di una centralizzazione del potere mondiale nel monopolio di una sola potenza.

Sicché, mentre la Gran Bretagna poteva essere considerata un katechon, una forza ritardante la fine della propria potenza imperiale-coloniale, gli Stati Uniti paiono piuttosto l’Anticristo, che, nel mysterium iniquitatis, usurpa il potere divino, imponendo un’unicità coatta e livellatrice di ogni differenza[28].

Nell’ultima fase del pensiero schmittiano,

“il vinto che scrive la storia” userà parole ben diverse: […] intendendo il nemico non più come avversario irriducibile, da annientare in una battaglia decisiva, bensì come un simile con il quale occorre trovare un’intesa e un confine. Poiché il nemico è colui che, limitandomi, mi definisce, annientarlo significherebbe annientare me stesso[29].

 

[1] C. SCHMITT, Acceleratori involontari. Ovvero: la problematica dell’emisfero occidentale (1942), in ID., Stato, grande spazio, nomos, cit., p. 202.

[2] Cfr. C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit., p. 378. C. SCHMITT, Mutamento di struttura del diritto internazionale (1943), in ID., Stato, grande spazio, nomos, cit., p. 229 rileva come a spingere gli Stati Uniti a una postura universale «sono il calvinismo estremo e il puritanesimo», che avrebbero in forma secolarizzata sorretto la dottrina panamericanista. In proposito, può citarsi il noto apologo della città sulla montagna, di Winthrop, che preconizza la dottrina del “destino manifesto”: cfr. D. FABBRI, La città sulla collina, imperituro mito d’America, in «Limes» 2/2020 «Il potere del mito». Sul rilievo del fattore spirituale anche nella guerra fredda, cfr. G. DESSÌ, Niebuhr: la dimensione etica del realismo, in AA. VV., Le grandi opere delle relazioni internazionali, cit., pp. 72-73.

[3] Nota A. MOSSA, Schmitt e gli Stati Uniti. Breve storia di un gioco di specchi, in «Jura gentium» 2/2015, p. 71 che «gli Stati Uniti occupano uno spazio isolato dagli altri soggetti statali, con frontiere mobili e indefinite in perenne espansione, il cui principio ordinatore non è la sovranità ma la libertà, concetto che viene capovolto (dal significato hobbesiano, negativo e conflittuale, a uno positivo e pacifico, che trasfigura la terra vergine dello stato di natura nella terra di elezione in cui fondare una sorta di nuova Gerusalemme)».

[4] Per questo pendolarismo della politica estera americana, v. C. SCHMITT, Mutamento di struttura del diritto internazionale, cit., p. 237.

[5] Ivi, p. 223.

[6] In A. MOSSA, Schmitt e gli Stati Uniti, cit., p. 68, si rileva che l’interesse di Schmitt per gli Stati Uniti si focalizza sul loro ruolo nello scacchiere internazionale, mentre l’asserita impoliticità di una hegeliana “società civile senza Stato” non ne risvegliava l’interesse per i profili interni.

[7] C. SCHMITT, Mutamento di struttura del diritto internazionale, cit., p. 234 afferma che «la linea autoisolazionista si trasforma infatti nel suo esatto opposto non appena diventa una linea di discredito e discriminazione».

[8] Ivi, p. 227, Schmitt riporta le parole dell’internazionalista americano Jessup, secondo cui: «Oggi le dimensioni mutano rapidamente, e all’interesse che nel 1860 nutrivamo per Cuba corrisponde oggi quello per le Hawaii; forse l’argomento dell’autodifesa porterà un giorno gli Stati Uniti a combattere sullo Yangtze, sul Volga e nel Congo».

[9] Ivi, p. 241. La dottrina del segretario di Stato Stimson era quella del non riconoscimento delle situazioni create con la violenza bellica, allora innanzitutto la conquista giapponese della Manciuria. A. MOSSA, Schmitt e gli Stati Uniti, cit., p. 74 rammenta come «le sue premesse giuridiche sono nel patto Kellogg, ma la sua formulazione definitiva risale a una nota del Segretario di Stato Henry Stimson del 7 gennaio 1932, secondo cui il governo statunitense “non intende riconoscere alcuna situazione, alcun patto e alcuna convenzione ottenuti con mezzi che contravvengono agli accordi e agli obblighi derivanti dal trattato del 27 agosto 1928”».

[10] C. SCHMITT, Acceleratori involontari, cit., p. 202.

[11] In quest’ottica, A. DE BENOIST, Il pensiero geopolitico di Carl Schmitt in A. DE BENOIST – J. FREUND, J., Il mare contro la terra. Carl Schmitt e la globalizzazione, Diana, Napoli, 2019, p. 49 afferma che «non c’è dubbio che nel 1941-1942 Schmitt vedeva ancora nella Germania la grande potenza suscettibile di difendere gli interessi della terra contro la potenza del mare».

[12] C. SCHMITT, Acceleratori involontari, cit., p. 205.

[13] Ivi, p. 207.

[14] Ivi, p. 210. A. MOSSA, Schmitt e gli Stati Uniti, cit., p. 74 definisce quella dell’oscillazione un «leitmotiv» della visione schmittiana degli Stati Uniti. A differenza degli inglesi, gli americani «non sono capaci nemmeno di un chiaro ordinamento della terra»: così C. SCHMITT, Glossario, Giuffrè, Milano, 2001, p. 286.

[15] Sui complessi rapporti tra Schmitt e gli USA, v., più diffusamente, A. MOSSA, Il nemico ritrovato. Carl Schmitt e gli Stati Uniti, Torino, 2017.

[16] C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit., p. 385. Medesime considerazioni sull’invecchiamento del ‘nuovo mondo’ e sulla fine del frontier sono svolte da C. SCHMITT, Mutamento di struttura del diritto internazionale, cit., p. 233. A. MOSSA, Schmitt e gli Stati Uniti, cit., osserva peraltro come l’America assumesse invece per Schmitt un ruolo centrale sul piano internazionalistico. È la sua conquista che segna l’origine dello jus publicum europaeum (con il disegno delle linee d’amicizia: cfr. C. SCHMITT, Mutamento di struttura del diritto internazionale, cit., p. 219); ed è la sua vittoria nella prima guerra mondiale a segnarne il definitivo declino. Ma – a voler proseguire lungo questa linea – ancora dagli Stati Uniti e dalla loro dottrina Monroe sarebbe potuto sorgere un nuovo ordinamento spaziale. Schmitt – come rammenta P. TOMISSEN, op. cit., p. IX – ebbe modo di scrivere, nel 1933, che «in quanto suddito tedesco, esponendo l’imperialismo americano, non posso avere altra sensazione che quella di parlare come un mendicante vestito di stracci parla delle ricchezze e dei tesori estranei». Cfr. S. CARLONI, Dal Grossraum al Nomos der Erde et retour: il pensiero internazionalistico di Carl Schmitt, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto» 1/2008, che rinviene nell’anglofobia di Schmitt anche la consapevolezza della grandezza del suo ‘nemico’, che può metterlo ‘in questione’ (C. SCHMITT, Ex captivitate salus, Adelphi, Milano, 1987 [1950], pp. 91-92). Di uno Schmitt «anglofobo-antiamericano» parla anche G. GIURISATTI, Introduzione a C. SCHMITT, Stato, grande spazio, nomos, Adelphi, Milano, 2005, p. 12,

[17] C. SCHMITT, Acceleratori involontari, cit., p. 204. In ID., Mutamento di struttura del diritto internazionale, cit., p. 217, si legge che «le dimensioni della guerra mondiale attualmente in corso superano quelle di ogni precedente conflitto bellico. Oggi su tutto il pianeta si lotta per un ordinamento della terra intera».

[18] C. SCHMITT, Il nuovo nomos della terra (1955), in ID., Stato, grande spazio, nomos, cit., p. 297.

[19] C. SCHMITT, L’unità del mondo (1952), in ID., Stato, grande spazio, nomos, cit., p. 275. Il filosofo rileva come la guerra fredda sia uno stadio ambiguo, sospeso tra guerra e pace, una «condizione infelice» in ID., L’ordinamento del mondo dopo la Seconda guerra mondiale (1962), in ID., Un giurista davanti a se stesso, cit., p. 221.

[20] Ivi, pp. 222 ss.

[21] Ivi, p. 225.

[22] ID., Il nuovo nomos della terra, cit., p. 298-299. V. anche A. CAMPI, Introduzione, cit., p. 46.

[23] Cfr. J. FREUND, L’amico e il nemico: un ‘presupposto’ del politico (1956), in ID., Il terzo, il nemico, il conflitto. Materiali per una teoria del politico (a cura di A. CAMPI), Giuffrè, Milano, 1995, p. 75, argomenta – lungo un itinerario schmittiano – che «l’idea di Stato mondiale ha una base apolitica, se non antipolitica. Il fatto è che tutti coloro che sognano l’avvento di uno Stato mondiale non solo sono avversari dello Stato e del governo, ma anche della politica tout court. Per un curioso paradosso essi entrano in contraddizione con se stessi: fanno politica appositamente con l’intenzione di sopprimerla». Con riferimento all’One World, peraltro, può osservarsi che – nella prospettiva neoconservatrice americana – esso sia apparso all’orizzonte alla caduta del ‘grande nemico’, l’Unione Sovietica. Si era in quel momento immaginato da alcuni di poter istituire se non uno Stato mondiale, almeno un ‘unipolarismo’ statunitense. È anche in questa logica che possono leggersi gli interventi umanitari degli anni Novanta e dei primi anni Duemila. L’affermazione delle potenze asiatiche e la ripartenza – economica, politica e militare – della Russia ha tuttavia disegnato, a decorrere dagli anni ’10 del Ventesimo secolo, un sistema internazionale policentrico, in cui si sono affiancati agli Stati Uniti altre potenze mondiali e regionali. Cfr. D. LAZZARICH, Guerra e pensiero politico, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli, 2009, pp. 29-30.

[24] Così C. SCHMITT, L’unità del mondo, cit., p. 278. Sul tema, v. anche A. CASTALDINI, Il katechon di Carl Schmitt, custode del “grande spazio”, in «Helipolis» 1/2017, p. 124. A. MOSSA, Schmitt e gli Stati Uniti, cit., p. 77 rileva che «il contrasto tra capitalismo e comunismo sembra quindi a Schmitt un finto dualismo: provvisorio perché, nell’intenzione di ciascuno dei due contendenti, rappresenta soltanto una fase di transizione verso un mondo in cui l’altro non esisterà più; e apparente perché, come scriveva già negli anni Venti, “finanzieri americani, tecnici industriali, socialisti marxisti e rivoluzionari anarco-sindacalisti si uniscono nel richiedere che venga messo da parte il dominio non obiettivo della politica sulla obiettività della vita economica”». È interessante notare che anche Morghentau condivideva la diffidenza di Schmitt per «l’universalismo nazionalistico», tanto americano che sovietico: anch’egli vi intravedeva la tendenza uniformante e distruttiva del pluralismo che caratterizzava entrambe le superpotenze. Sul tema, v. L. ZAMBENARDI, Hans Morgenthau: la politica di potenza”, in F. ANDREATTA (a cura di), Le grandi opere delle relazioni internazionali, Il Mulino, Bologna, p. 66.

[25] Osserva C. RESTA, Stato mondiale o nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso, Diabasis, Reggio Emilia, 2009, p. 90 come «Schmitt vede bene come i due nemici che adesso si combattono, in realtà attingono a quella medesima religione della tecnica che ormai dilaga su tutto il pianeta, da Est a Ovest, come da Nord a Sud, trasformandolo in una immensa distesa oceanica di libero mare, speculare, invertita ed anticristica immagine di quella terra senza mare che, nelle parole dell’Apocalisse di Giovanni, dovrà essere la “nuova terra” redenta dal peccato». È interessante notare come questa comunanza di storicismo di capitalismo e comunismo sia un fil rouge schmittiano: ad esempio, già in C. SCHMITT, Cattolicesimo romano e forma politica, Bologna, 1986 [1923], pp. 27-28 si legge che «l’immagine del mondo di un moderno imprenditore industriale assomiglia a quella del proletario industriale come un gemello assomiglia all’altro. Perciò si intendono reciprocamente tanto bene, quando lottano uniti per il trionfo del pensiero economico».

[26] Può non essere inutile osservare come – in questa preferenza per il policentrismo – Schmitt appaia in linea con la visione del realismo classico, e in particolare di Morghentau, per il quale «lo Stato mondiale sarebbe stato destinato a fallire se tale progetto non avesse tenuto conto del fatto che le radici dell’ordine politico non risiedono solo nella concentrazione delle capacità materiali in un’unica autorità, ma anche nei conflitti politici che devono essere risolti prima della sua creazione»: così L. ZAMBENARDI, op. cit., p. 61. Come per Schmitt, quantunque in termini diversi, Morghentau esclude l’attualità di uno Stato mondiale in assenza di una comunità morale e politica che ne faccia da substrato.

[27] Cfr. A DE BENOIST, Il pensiero geopolitico di Carl Schmitt, cit., p. 56, laddove annota che «la disgregazione del sistema sovietico, il fallimento del tentativo di instaurare un ‘nuovo secolo americano’, l’importanza assunta dai paesi emergenti, l’ascesa della Cina, della Russia e dell’India, hanno confermato questa previsione [del fallimento del mondo unipolare]».

[28] A. MOSSA, Schmitt e gli Stati Uniti, cit., pp. 80-81. Sul concetto di ‘globalizzazione americana’ cfr. anche C. DE FIORES, op. cit., pp. 139 ss. L’Autore, peraltro, afferma come il tentativo di istituire un’era unipolare a partire dal momento unipolare della caduta del muro di Berlino sembra fallito.

[29] Ivi, p. 87.

 

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