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Superiorem non recognoscens: la Costituzione russa tra sovranità interna e diritto internazionale

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Anno Domini 1993: a due anni dal collasso dell’Unione Sovietica, e a quattro dalla caduta del Muro di Berlino, la neo-nata Federazione Russa di Boris El’cin si trova innanzi all’arduo compito di sostituire il testo costituzionale sovietico del 1978 (ispirato alla c.d. Costituzione “brežneviana” dell’URSS del 1977) con una nuova Legge fondamentale che tenga conto della mutata atmosfera politico-sociale. Dapprincipio, il capo di Stato russo decide di convocare una commissione costituzionale parlamentare (in seno al Congresso dei deputati del popolo), ma rimane evidentemente insoddisfatto della bozza presentatagli dai deputati – giudicata assai poco presidenzialista, al punto da fungere da concausa per la più acuta crisi costituzionale dai tempi della Rivoluzione d’ottobre, tra esecutivo (presidenziale) e legislativo, con quest’ultimo destinato a soccombere sotto i colpi di cannone dell’esercito. El’cin si affida quindi a un più affine “Congresso costituzionale”, composto da poco meno di un migliaio di rappresentanti dei governi locali e della società civile. Il nuovo documento appare più congruo alle volontà del presidente e riceve il suo avvallo, per poi essere sottoposto a referendum il 12 dicembre 1993 – assumendo la denominazione e il vigore di Costituzione della Federazione Russa dal 25 dicembre dello stesso anno.

I costituenti decidono di contrassegnare il nuovo status quo determinatosi in Russia sancendo, per la prima volta nella storia costituzionale dello Stato eurasiatico, che “[i] principi e le norme generalmente riconosciuti del diritto internazionale e i trattati internazionali della Federazione Russa costituiscono parte integrante del suo sistema giuridico (articolo 15, par. 4). La disposizione prosegue deliberando che “[se] un trattato internazionale […] stabilisce regole diverse da quelle previste da una legge, si applicano le disposizioni del trattato internazionale”.

In buona sostanza, laddove in epoca sovietica si prediligeva un approccio “dualista” – talché le norme di diritto internazionale erano applicabili solo in quanto adottate dal legislatore interno – nella Costituzione di El’cin il diritto internazionale può (o poteva, come si vedrà) teoricamente precedere financo la Legge fondamentale: quello che un russo chiamerebbe “razvorot”, una vera inversione a U[1].

Seguirono anni di speranza, in una nuova pax internazionale, e di ottimismo, sull’efficacia delle riforme liberiste – entrambe le quali sarebbero state in gran parte spezzate dalla tremenda crisi finanziaria del 1998, a causa della quale circa il 30% della popolazione si sarebbe ritrovato a vivere sotto la soglia di povertà, e il 40-50% dell’economia nazionale sotto il controllo della criminalità organizzata[2]. Prima del crack, tuttavia, nel febbraio 1996 Mosca compì un altro passo in avanti verso l’integrazione del proprio ordinamento giuridico federale nel sistema internazionale liberale, accedendo al Consiglio di Europa e accettando di sottoporsi allo scrutinio della Corte di Strasburgo (Corte EDU). Una straordinaria apertura verso il diritto internazionale, da una parte, e la sottoposizione al vaglio della Corte Europea dei Diritti Umani, dall’altra, sembrarono aprire un nuovo capitolo nella storia istituzionale russa.

A dire il vero, un capitolo dalla genesi quantomeno sui generis: il Consiglio d’Europa identificò difatti molteplici mancanze sul piano della protezione interna dei diritti umani, il che, in linea teorica, avrebbe dovuto precludere in maniera semi-insormontabile la partecipazione russa all’organizzazione.

Tuttavia, in nome del mantraintegrare è meglio d’isolare”, a Strasburgo si decise di chiudere strategicamente un occhio. Non si poté però chiudere un occhio sull’impressionante numero di istanze che iniziarono ad arrivare alla Corte da parte di cittadini russi, seguite da una diffusa disapplicazione delle sentenze domestiche – tali da condurre a una sentenza pilota di Strasburgo contro Mosca.

La conflagrazione vera e propria tra Strasburgo e Mosca ebbe però compiutamente luogo nel triennio 2010-12: le prime avvisaglie dello “scontro aperto” si erano verificate nel 2006 con il rifiuto della Federazione di ratificare il Protocollo 14 alla CEDU (che ha introdotto un “filtro” all’accesso alla tutela della Corte, più volte a rischio paralisi anche a causa della mole di richieste russe) – un veto che ne compromise l’entrata in vigore almeno sino al 2010. In quell’anno, le autorità russe raggiunsero un faticoso compromesso basato sulla formale garanzia del coinvolgimento di giudici russi nella revisione di denunce rivolte contro Mosca.

Toni ben più esacerbati furono però quelli che contraddistinsero la querelle sul caso giudiziario di Konstantin Markin, un funzionario militare divorziato. Questi aveva difatti richiesto un congedo parentale per prendersi cura dei propri bambini, negatogli però dalla Corte Costituzionale russa sostanzialmente sulla base del suo sesso (laddove la possibilità di accesso fu ritenuta dai giudici prerogativa delle sole genitrici). Approdato il caso a Strasburgo, la Corte EDU condannò la Russia per la discriminazione operata tra la categoria di madri e quella di padri – segnando un momento-spartiacque nella diatriba tra diritto interno e diritto internazionale[3]. Beninteso, quella non fu certo la prima né l’ultima condanna subita dal Cremlino in sede europea (nel 2011, ad esempio, erano state nel frattempo accertate le violazioni del diritto al giusto processo nei confronti degli azionisti della compagnia petrolifera Jukos[4], e dei diritti alla libertà e all’incolumità personale dell’attivista Sergej Šimovolos[5]) – ma fu la goccia che fece traboccare il vaso[6].

A poca distanza dalla vicenda, il capo del Governo Dmitri Medvedev assecondò la richiesta del presidente della Corte costituzionale, Valerij Zor’kin, di configurare la supremazia del testo costituzionale russo all’interno della gerarchia delle fonti (modificando nei fatti l’assetto “internazionalista” del succitato articolo15 Cost.). La dura contrapposizione riemerse poi nel 2016 in merito al caso Ančugov e Gladkov (relativo ai diritti di voto dei condannati)[7] – fonte di un’ulteriore condanna della Corte EDU che non venne però eseguita dal tribunale costituzionale pietroburghese, il quale poi trovò un “compromesso” affermando che i diritti in questione fossero esercitabili dai non arrestati.

Gli ultimi due paragrafi del tribolato rapporto Russia-CEDU, in ordine di tempo, sono stati costituiti dalla sospensione dei diritti di voto di Mosca nell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa – conseguenza dell’annessione della Crimea del 2014 –, con la piena riammissione avvenuta però nel giugno 2019. Ma, soprattutto, dalle riforme costituzionali russe approvate nell’estate del 2020, le quali hanno profondamente ridisegnato l’assetto giuridico statale. Per quanto rileva in tale sede, è stato di fatto formalizzato il superamento dell’articolo 15 nella sua interpretazione originale, a favore di una netta supremazia (costituzionalmente sancita) del dettato costituzionale interno sul diritto internazionale pattizio (leggasi CEDU) – con la possibilità per i giudici costituzionali di derogare in alcuni casi particolari (sostanzialmente a propria discrezione)[8]. Quest’ultima postilla sembra richiamare il “diritto di veto” interno sulle sentenze di Strasburgo, contenuto nella proposta avanzata dal senatore conservatore Aleksandr Toršin nel 2011 – che venne di fatto bloccata dall’impopolarità del d.d.l. oltreché dagli appelli dei difensori dei diritti umani.

La Russia sembra aver da tempo deciso di ritornare sui suoi passi per affermare la più compiuta sovranità giudiziario-costituzionale interna, avvicinandosi molto più al dualismo sovietico che all’internazionalismo di matrice el’ciniana. Segno, questo, del probabilmente definitivo tramonto del sogno di ”integrare” Mosca nel c.d. ”ordine” liberale occidentale, nonché, dopotutto, del poco interesse di questa di farne effettivamente parte.

 

[1] Jane Henderson, The Constitution of the Russian Federation: a Contextual Analysis (Londra: Hart, 2011), 91-93.

[2] Ennio Di Nolfo, Storia delle Relazioni Internazionali: dalla Fine della Guerra Fredda a Oggi (Bari: Laterza, 2016), 85-96.

[3] Alexandra Timmer, “From Inclusion to Transformation: Rewriting Konstantin Markin v. Russia,” in Diversity and European Human Rights: Rewriting Judgments of the ECHR, ed. Eva Brems (Cambridge: Cambridge University Press, 2012): 148-170.

[4] Iryna Marčuk e Marina Aksenova, “The Tale of Yukos and of the Russian Constitutional Court’s Rebellion against the European Court of Human Rights,” Osservatorio Costituzionale 1/2017 (2017): 1-12.

[5] Richard A. Edwards, “Police Powers and Article 5 ECHR: Time for a New Approach to the Interpretation of the Right to Liberty,” Liverpool Law Review 41 (2020): 331-356.

[6] William E. Pomeranz, "Uneasy Partners: Russia and the European Court of Human Rights," Human Rights Brief 19, n. 3 (2012): 17-21.

[7] Gleb Boguš e Ausra Padskocimaite, “Case Closed, But What About the Execution of the Judgment? The Closure of Anchugov and Gladkov v. Russia,” Blog of the European Journal of International Law, 30 ottobre 2019, https://www.ejiltalk.org/case-closed-but-what-about-the-execution-of-the-judgment-the-closure-of-anchugov-and-gladkov-v-russia/.

[8] “Polnyj Tekst Popravok v Konstituciju: za čto My Golosuem? [Testo Integrale degli Emendamenti Costituzionali: per Cosa Voteremo?],” Gosudarstvennaja Duma, 14 marzo 2020, http://duma.gov.ru/news/48045/.