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Che partita sta giocando la Cina in Russia?


Il president russo Vladimir Putin a margine dei colloqui a Pechino con il Segretario generale del PCC e Presidente cinese Xi Jinping (kremlin.ru, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons)
Il president russo Vladimir Putin a margine dei colloqui a Pechino con il Segretario generale del PCC e Presidente cinese Xi Jinping (kremlin.ru, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons)

Che partita sta giocando la Cina in Russia?

Ambientazione: Pechino, un venerdì di inizio febbraio. Protagonisti: Vladimir Putin e Xi Jinping. Svolgimento: a poche ore dalla cerimonia inaugurale dei Giochi olimpici invernali di Pechino 2022, i leaders di Russia e Cina si incontrano di persona per un vertice nella capitale cinese. Un’occasione – come già altre in passato – per ribadire il livello “ineguagliato” raggiunto dalla partnership strategica tra Mosca e Pechino. Una sintonia non confinata al solo ambito geopolitico, ma allargata alla sfera commerciale – dal momento che nelle stesse ore il gigante russo Gazprom rende nota la sottoscrizione di un accordo con la cinese CNPC per rifornire il Dragone di 10 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno per il prossimo trentennio (da saldare in euro).

Un incontro bilaterale come tanti, si potrebbe argomentare. Non esattamente, l’obiezione. Meno di tre settimane dopo, infatti, dal Cremlino sarebbe partito l’ordine di invadere l’Ucraina. Genesi di una “operazione speciale di denazificazione” – o, meno perifrasticamente, di una guerra di aggressione – preceduta dal riconoscimento russo delle sedicenti repubbliche popolari di Lugansk e Doneck, nel Donbass russofono.

Ma torniamo a Pechino: Putin e Xi sorridono davanti ai fotografi, ostentano cordialità, indossano persino cravatte simili (viola quella di Putin, tendente al bordeaux quella di Xi). Per l’occasione il Cremlino incassa l’appoggio cinese sulla questione ucraina – e in particolare sulla necessità che la NATO indietreggi dall’Europa orientale – mentre Zhongnanhai ottiene il solido sostegno russo sulla necessità che Taiwan (anzi, “Taipei cinese”) venga annessa alla Cina continentale.

Sullo sfondo ci sono gli Stati Uniti, che da settimane avvertono le opinioni pubbliche dei cinque continenti: i russi hanno accalcato 200.000 truppe al confine con l’Ucraina perché è imminente un’invasione. Gli europei sono più cauti, la ritengono una prospettiva inverosimile. La stessa Cina si aggiunge al coro russo che identifica in Washington una Cassandra “isterica”. Per ironia della sorte, persino il presidente ucraino Zelens’kyj invita Washington alla moderazione per non inquietare gli investitori.

Eppure il 24 febbraio Putin ordina effettivamente alle truppe di muovere verso Kyiv e di conquistare i palazzi del potere usurpati da quelli che Mosca definisce “nazisti” – ossia la classe dirigente salita al potere dopo Euromaidan. Gli Stati Uniti ci avevano preso, la Russia aveva mentito. E la Cina? Ancora prima che si materializzasse l’aggressione ai danni di Kyiv, circola un’indiscrezione secondo cui Putin avrebbe messo Xi al corrente delle sue intenzioni bellicose. Con una promessa, però: nessuna incursione prima della fine dei Giochi in Cina.

Le Olimpiadi si chiudono il 20 febbraio e vedono la Cina sul grandino più basso del medagliere, sopravanzando persino gli USA. Chiude al nono posto invece il Comitato olimpico russo (ROC) – denominazione “punitiva” data dal CIO agli atleti di Mosca per lo scandalo del doping di Stato. A pensar male degli altri si fa peccato… ma la cronologia degli eventi dalla chiusura dei Giochi è marcata da un’escalation inedita: il 21 Putin riconosce Doneck e Lugansk, mentre all’alba del 24 le truppe di Mosca oltrepassano il confine, provocando la guerra.

 

Se Xi fosse stato effettivamente messo al corrente delle mosse dell’alleato non è certo al 100% ma quasi, dal momento che a conoscere i piani russi era persino l’avversario (gli statunitensi) che teoricamente non avrebbe dovuto. Improbabile, comunque, che Putin fosse andato a Pechino a chiedere la benedizione – o addirittura il permesso – del leader cinese. D’altronde l’attacco russo all’Ucraina è stato motivato proprio dalla radicata convinzione russa di essere una superpotenza assoluta, nell’accezione latina del termine ‘absoluta’: priva di vincoli e vassallaggi tanto verso la NATO quanto verso la Cina.

Molto più probabile, invece, che Putin avesse spiegato a Xi le motivazioni dell’imminente attacco, reso improrogabile dallo spettro che la culla della prima Rus’ finisse nell’orbita politico-militare statunitense. Magari cercando di persuadere il socio cinese con analogie retoriche tra la questione ucraina e quella taiwanese.

Eppure Pechino, dall’inizio delle ostilità, non ha mai esplicitamente approvato la condotta russa. Certo, non ha nemmeno fatto fronte comune con la coalizione occidentale, il quale ha subissato Mosca di sanzioni economiche e inondato Kyiv di armi, soldi e intelligence. A tre mesi dallo scoppio del conflitto, pur criticando genericamente l’espansione dell’Alleanza Atlantica nel giardino di casa dell’ex URSS, Xi e il suo partito-Stato non hanno in alcuna occasione avallato i brutali metodi russi per contrastarla.

Un clamoroso voltafaccia o semplicemente basso profilo? Più probabilmente una posizione di convenienza. Pechino non ha alcuna intenzione di effettuare una netta scelta di campo tra i due schieramenti, pur essendo logicamente meglio disposta nei confronti della narrativa moscovita. Il perché è presto detto: a differenza di quella russa, l’economia cinese è enormemente più intrecciata a quella occidentale – nonostante qualche timido tentativo ideale di decoupling che cozza periodicamente con la realtà concreta delle catene di approvvigionamento.

Nel 2021, la Cina è stata il principale esportatore e il terzo importatore dell’UE – nonché il primo Paese esportatore verso gli Stati Uniti. L’interscambio commerciale Cina-Russia vale 100 miliardi di dollari. Quello Cina-USA 615 miliardi, quello Cina-UE addirittura 700 miliardi.

Appoggiare Mosca oltre le dichiarazioni di facciata farebbe precipitare anche su Pechino la scure delle sanzioni occidentali, con conseguenze eufemisticamente catastrofiche per l’economia mondiale e la globalizzazione per come la si conosce. Non sorprende, perciò, che due tra le principali banche cinesi – la Bank of China e la Industrial and Commercial Bank of China – si siano persino rifiutate di aiutare la Russia a gestire le transazioni del suo export dopo lo scoppio della guerra.

Xi non deve essere stato convinto nemmeno dal probabile tentativo di equiparare Ucraina e Taiwan. Per l’establishment comunista non c’è nulla di più differente: la guerra ucraina è considerata dal Dragone come un fallimento della politica estera di due superpotenze. Per Xi quello taiwanese è invece un dossier tutto interno, una questione amministrativa che gli statunitensi si ostinano a ritenere di interesse internazionale, ma che Pechino ha più volte ribadito trattarsi di territorio sovrano cinese su cui nemmeno Taipei ha voce in capitolo – figurarsi Washington.

L’unico collegamento tra crisi ucraina e taiwanese potrebbe però essere quello della reazione degli Stati Uniti. Dopo decenni di ambiguità strategica, Biden ha dichiarato che lo zio Sam è pronto a intervenire al fianco di Formosa in caso di attacco cinese. La Cina ha però tratto una prima importantissima lezione dal conflitto ucraino – e cioè che la Casa Bianca non è propensa a impelagarsi in un conflitto con una potenza nucleare se non costretta. L’unica reazione veramente certa sarebbe invece un’ondata di sanzioni commerciali, a partire dall’esclusione degli istituti cinesi dal sistema di pagamenti interbancari SWIFT. Per questi motivi Pechino sta portando avanti una politica di graduale affrancamento dagli strumenti di influenza finanziaria statunitensi – dollaro in primis –, malgrado sia impossibile farlo del tutto a causa della summenzionata interdipendenza commerciale.

Appurato che la Cina non abbia intenzione di essere tirata troppo per la giacca da Mosca, rimane da capire cosa Xi possa guadagnare dal caos ucraino. Non è troppo inverosimile che nelle fantasie degli strateghi pechinesi ci sia una lunga campagna militare che ridimensioni il ruolo globale di Mosca – ma non troppo lunga da provocare una scelta di campo inequivocabile. L’indebolimento russo spingerebbe ipso facto un Paese economicamente monco nelle braccia della Cina, e perciò a riconoscere Mosca come socio di minoranza dell’alleanza sino-russa. Al contrario, una (improbabile) strabiliante vittoria militare di Mosca invoglierebbe i russi a perseguire una politica di emulazione dell’ex URSS e a far sentire maggiormente la propria voce. Il che non è esattamente una buona notizia per una nazione, la Cina, che negli ultimi decenni ha intensificato gli investimenti in Siberia e provocato più di qualche malumore tra la popolazione e, di riflesso, nei palazzi del potere moscoviti.