Lo spazio «vuoto» del potere: Stato 'giurisdizionale’ e ‘Stato dei giudici’
Abstract
La crisi delle logiche tradizionali che sostenevano la struttura statale nonché la messa in discussione del suo prodotto eminente – la legge nella sua forma generale ed astratta – si ripercuotono, ormai da vari decenni, in letture teorico-interpretative multiformi. Tra queste linee di indagine si situa anche la constatazione del ruolo, sempre più incisivo, che si trova a svolgere, su più fronti, la giurisprudenza costituzionale, unitamente alla presa d'atto di modifiche sostanziali nella visione tradizionale dello Stato quale ente titolare del sovrano indirizzo politico. Da ciò ne deriva la necessità di un generale riassetto degli stessi "strumenti" teorici con cui tali fenomeni esigono di essere esaminati, generando, di conseguenza, il bisogno di un’analisi complessiva della realtà giuridico-politica che prenda in considerazione gli effetti concreti che tali mutazioni, più o meno patenti, hanno prodotto, anche alla luce dell’intrinseca dimensione pluralistica della realtà giuridica contemporanea.
Indice:
1. La prospettiva di Carl Schmitt
2. Lo Stato costituzionale ed il ruolo dei giudici
3. Il cono d’ombra tra diritto e politica
4. Conclusioni
1. La prospettiva di Carl Schmitt
Nelle pagine di un noto saggio, intitolato Legalità e legittimità1 e pubblicato nel 1932, Carl Schmitt (1888-1985) rifletteva sulla necessità di una più esaustiva teorizzazione delle forme di Stato e delle forme di governo, riprendendo alcuni spunti concettuali già parzialmente affrontati nel paragrafo sedici della Dottrina della Costituzione2 (ove però assumono rilievo non tanto le reciproche influenze tra forma di Stato e forma di governo, quanto il problema dell’incidenza del popolo sulla costruzione del governo e il profilo che esso può assumere al fine di costituirsi quale autentica unità politica)3 nonché nel precedente volume sulla dittatura4. All’interno della riflessione schmittiana sul così detto Stato ‘giurisdizionale’ si rintracciano taluni elementi tipici che sembrano fornire qualche suggerimento teorico ai fini di una più comprensiva chiarificazione di quella concezione, diffusasi nella letteratura gius-filosofica degli ultimi anni, a cui è stata associata l’espressione ‘Stato dei giudici’.5
Come è stato ben messo in luce,6 è merito di Schmitt aver rilevato, in contrasto con la tradizione classica del pensiero politico moderno, la capacità di incidenza della forma di governo sul complessivo assetto statale, laddove la suddetta tradizione concepiva la possibilità di una influenza – laddove sussistente – solo nel senso inverso. Per Schmitt, la suddivisione tradizionale del diritto pubblico tra forme di Stato e forme di governo rappresenta, essenzialmente, una falsa distinzione.
Nelle pagine del giurista tedesco, la problematica di quello che lui definisce ‘Stato giurisdizionale’ è esaminata nelle sue strutture ideal-tipiche. All’interno del sopracitato saggio del 1932, così, Schmitt tratteggia una serie di definizioni preliminari al fine di affrontare, nella parte successiva, la tematica inerente la questione della legalità nello Stato parlamentare e della «crisi della teoria giuridica e politica liberale del XIX secolo, crisi che si ripercuote sulla principale forma istituzionale in cui si incarna, vale a dire il c.d. “Stato legislativo” (Gesetzgebungsstaat)».7 Schmitt parla di “tipi di Stato”8 con ciò riferendosi allo ‘Stato legislativo’, allo ‘Stato governativo’, allo ‘Stato amministrativo’ ed allo ‘Stato giurisdizionale’.
È necessario tenere presente che, per Schmitt, tali ideal-tipi si presentano nella realtà storica continuamente commisti tra loro, unendo elementi dell’uno e tratti dell’altro, non esaurendosi, dunque, nella dimensione fenomenica e dimostrando, piuttosto, una continua eccedenza strutturale sul piano categoriale.
Il primo tipo ideale, quello dello Stato ‘legislativo’, risulta essere un sistema legale «dominato da norme, di contenuto misurabile e determinabile, impersonali e perciò generali, prestabilite e perciò pensate per durare: un sistema in cui legge e applicazione della legge, legislatore e organi esecutivi sono separati tra loro» e «la legge è prodotta da un’istanza legislativa, la quale però non governa, né rende esecutive o applica le sue leggi, ma si limita soltanto a produrre le norme vigenti, in nome delle quali poi organi esecutivi soggetti alla legge possono esercitare il potere statale»9; lo Stato governativo, all’opposto rispetto allo Stato legislativo, ha il suo elemento caratteristico nella «volontà personale e nel comando autoritario di un capo di Stato che Governa»10, mentre nello Stato amministrativo – che si situa a metà strada, dal punto di vista tipologico, tra lo Stato legislativo e lo Stato governativo – comando e volontà non appaiono in modo autoritario e personale e non sono neanche mera applicazione di norme superiori, bensì assumono i connotati di specifiche disposizioni concrete: lo Stato amministrativo ha il suo tratto peculiare nel «provvedimento preso solo in base allo stato delle cose, con riferimento ad una situazione concreta e diretto a finalità pratiche».11
Lo Stato giurisdizionale, invece, si sostanzia nella «decisione concreta di un caso, nella quale diritto, giustizia, ragione si manifestano immediatamente, senza essere mediate da normazioni generali prestabilite, e che di conseguenza non si esaurisce nel normativismo della mera legalità».12
Ancor più foriero di interesse è ciò che Schmitt esprime poche righe più avanti laddove dichiara che «Lo Stato giurisdizionale sembra essere uno “Stato di diritto”, nella misura in cui in esso il giudice pronuncia direttamente il diritto e fa valere questo diritto anche contro il legislatore che produce norme e contro la sua legge»13, donde la parvenza di un avvicinamento allo Stato di diritto, rimane, appunto, mera parvenza, e dove viene rilevata l’intrinseca tendenza di tale forma di Stato ad opporre il “vero” diritto avverso norme frutto della deliberazione di un organo legislativo e rappresentativo, in forza di una ragione superiore, chiara, limpida ed intrinsecamente dotata di infallibilità nel pronunciare giustizia.
Il giurista di Plettenberg prosegue, poi, con ulteriori fondamentali annotazioni, tra cui quella di ricollegare i diversi tipi di Stato in base alle tendenze politiche interne: mentre lo Stato legislativo è il veicolo tipico di epoche riformistico-revisionistico-evoluzioniste, e gli Stati governativi e amministrativi si «prestano come strumento radicale di modificazioni sia rivoluzionarie che reazionarie e di formazioni statali complessive, pianificate, previste a lunga scadenza»14, lo Stato giurisdizionale «costituisce lo strumento migliore per la conservazione dello status quo sociale e dei diritti acquisiti, in corrispondenza alla più volte accertata tendenza conservatrice di qualsiasi giurisprudenza».15
L’ethos dello Stato giurisdizionale risiede, per Schmitt, nel fatto che il giudice decide in modo diretto, nel nome del diritto e della giustizia, senza che vi sia un’intermediazione di altri poteri formali, senza, cioè, «che gli vengano proposte ed imposte da parte di altri poteri […] normazioni relative a questa giustizia. Si tratta di un principio semplice e plausibile finché diritto e giustizia, senza l’intervento di norme, mantengono un contenuto univoco e non sono solo strumenti di interessi di potere ed economici».16
Il riferimento alla connessione, stringente, tra diritto e giustizia lascia trasparire una precisa idea orientativa: in periodi di omogeneità e di forte coesione sociale, dove il diritto non è rimesso alla fluttuante volontà deliberante, soggettivamente determinata, e possieda quindi dei caratteri stanziali di oggettività, il problema di un soggetto che dichiari giustizia in virtù e in forza di tali princìpi non suscita timore; ma laddove il diritto perda i suoi caratteri sostanziali e i suoi intrinseci legami con la sfera della giustizia e assuma sempre più i contorni irrazionali della pura volontà17, la questione genera problema.
Il Nostro autore, infine, oppone lo Stato amministrativo e quello governativo agli Stati di natura giurisdizionale e legislativa al fine di dichiarare che «tanto l’uno che l’altro [lo Stato amministrativo e lo Stato governativo] pongono termine alle dispute avvocatesche che accompagnano lo Stato giurisdizionale e alle discussioni senza fine dello Stato legislativo e riconoscono un valore giuridico positivo al decisionismo della disposizione prontamente eseguibile».18
In quest’ultimo passo appena citato l’elemento di contrasto, dunque, sembra integrare una nuova opposizione: quella tra dimensione dialogico-razionale (che permane seppur in misura diversa nelle forme giurisdizionali e legislative) e volontà decisionistica concreta (tipica, invece delle altre due tipologie). Le riflessioni di Schmitt assumono rilievo perché racchiudono, in nuce, una parte dei problemi fondamentali che sembrano coinvolgere le discussioni vertenti sui poteri dello Stato e quelle relative ai rapporti tra gli organi in correlazione con la recente costruzione teorica del c.d. ‘Stato dei giudici’ o, quantomeno, forniscono alcuni spunti teorici meritevoli di considerazione.
Riassumendo, per Schmitt, nello Stato giurisdizionale: a) diritto, giustizia, ragione si manifestano immediatamente, senza essere mediate da normazioni generali prestabilite; b) le decisioni del caso concreto sono opponibili all’organo legislativo; c) si riscontra una tendenza alla conservazione dello status quo; d) prevale la dimensione razionale-giustificativa (a scapito di quella decisionista).
2. Lo Stato costituzionale ed il ruolo dei giudici
Seguendo un certo indirizzo critico19, i principali fautori di una nuova lettura dello Stato contemporaneo, nella sua declinazione di Stato costituzionale (o, addirittura, post-costituzionale)20 sarebbero i rappresentanti del c.d. neo-costituzionalismo.21
Il neo-costituzionalismo «può essere concettualizzato secondo tre lineamenti: 1) quale interpretazione dello Stato costituzionale che viene visto quale forma di Stato nella quale il diritto è caratterizzato dalla inclusione di valori morali; 2) come precisa teoria del diritto (teoria delle norme, dell’ordinamento e dell’interpretazione) che viene sviluppata sulla base di questa interpretazione; 3) quale meta-teoria (o filosofia) del diritto che dai lineamenti del diritto degli Stati costituzionali deriva una riflessione più generale sulla natura del diritto […]»22. Tra gli autori che hanno lavorato secondo quest’ultima prospettiva di analisi è d’uopo ricordare, fra gli altri, Robert Alexy23, Ronald Dworkin24, Carlos Santiago Nino25 e, in Italia, Gustavo Zagrebelsky26. Orbene, per i suddetti pensatori, «la struttura degli Stati costituzionali […] e l’evoluzione di tali sistemi […] possono essere interpretati in una direzione unitaria. Si tratta del ruolo che in tali autori hanno i principi e diritti contenuti nella costituzione e il loro rapporto con esigenze morali. La dimensione normativa della costituzione è legata alla presenza di valori giuridici e morali che fanno riferimento sia ai diritti individuali, sia a obiettivi generali e collettivi [e] […] da questo legame viene derivata la rilevanza dei processi di applicazione/interpretazione per l’individuazione del diritto e il ruolo centrale che, in questo quadro, assume il potere giudiziario».27
Il rinvio ai diritti rimanda, in quest’ottica, alla centralità delle esigenze morali che trovano un naturale sbocco nel ruolo produttivo e al contempo applicativo degli organi giudiziari. Alla centralità dei diritti, pertanto, si aggiunge, «il ruolo dei tribunali, e in particolare di quelli costituzionali, per la tutela e lo sviluppo della costituzione. La giurisdizione diviene uno degli attori fondamentali dei processi di implementazione della costituzione sia in quanto protagonista diretta della realizzazione dei valori in essa contenuti, sia quale controllore delle scelte del potere legislativo democratico».28
Come acutamente notato, ciò che caratterizza le posizioni degli autori neo-costituzionalisti «consiste non tanto nel rilevare l’importanza che va assumendo quell’opera che alcuni chiamerebbero creativa e altri, forse, integrativa della giurisprudenza. Quanto piuttosto nel promuovere tale attività, cui dovrebbe guardare con favore anche la scienza del diritto. L’attività giudiziale, infatti, viene individuata come quell’elemento in grado di dare razionalità al sistema attraverso il suo continuo adeguamento alle esigenze che emergono dalla società, reinterpretando la legge e la costituzione a tale fine».29
Tale predominanza del ruolo del giudice, non più riducibile a organo meramente suppletivo e ancillare, è una diretta derivazione di altri corollari intimamente connessi alla pratica e teoria del neo-costituzionalismo quali la distinzione forte tra regole e principî30 o la metodologia interpretativa costituzionale quale attività strutturalmente differenziata dalla comune interpretazione delle disposizioni della legge ordinaria.31
Viene imputato, così, al movimento dottrinale neo-costituzionalistico non già di descrivere determinati fenomeni o di constatare una certa prassi ma bensì di incentivarla, stimolando alcuni elementi strutturali ed alcune tendenze implicite. La configurazione critico-descrittiva schmittiana dello stato giurisdizionale, in tal senso, pone l’accento su alcune note strutturali e, soprattutto, censura lo stesso principio fondante che sorregge, nel suo nucleo prescrittivo e nella sua anima interna, la logica neo-costituzionalistica diretta al sostegno e alla promozione dell’attività giudiziaria, primariamente di matrice costituzionale.
3. Il cono d’ombra tra diritto e politica
La questione del potere giudiziario è strettamente correlata, soprattutto nella sua esplicazione a livello sovra-nazionale, alla crisi dello Stato di diritto e, in via logica e diacronica, alla involuzione dello Stato sociale all’interno della globalizzazione. Tale problema, tuttavia, non risulta legato solo alle suddette trasformazioni ma sussisterebbe (e resisterebbe) fin dalla genesi dello Stato moderno. Secondo Agostino Carrino, ad esempio, «Il tema della connessione problematica tra giudice, politica, legge e società è infatti un tema che accompagna sotto traccia l’emergere dello Stato di diritto nella modernità in particolare dalla Rivoluzione francese in poi, con l’avvento delle codificazioni e del primato (in buona parte, per verità, solo ideologico) della legge».32
Proprio lo sviluppo di questi fenomeni ha condotto, nella nostra epoca, alla genesi di uno «spazio vuoto tra legalità e legittimità, conseguenza di una politica debole».33 In questo spazio vuoto si inserisce il potere del giudice «non solo con funzioni di supplenza, ma rivendicando un potere autofondato e non più cooperativo rispetto agli altri, ovvero col potere di imposizione del diritto esistente, ma sostanzialmente autonomo in virtù del fatto che si sono limati i confini tra i poteri e in nome delle più varie ‘carte dei diritti’; ciò che poteva e doveva essere affidato alla tutela impositiva dei governi è stato affidato in parte alle cosiddette “independent authorities” in parte alle corti, con risultati deleteri per il mantenimento del rule of law».34
La centralità attribuita alle corti giudiziarie, nazionali e sovranazionali, sarebbe funzionale, oltre che a condurre al suo esito estremo il processo di de-territorializzazione del diritto35, anche a legittimare una nuova teoria morale costituzionalmente orientata.
Tale teoria morale si fonderebbe sul primato di princìpi giuridici non scritti totalmente disancorati dal sostrato storico della costituzione e che ignorano i presupposti fondamentali dell’ermeneutica giuridica, la quale non rimanendo prigioniera del testo dovrebbe portare avanti un’attività che sia con quest’ultimo strettamente correlata e da quello desumendo le basi sostanziali: «Un giudice delle leggi in quanto fondamentalmente custode della costituzione (secondo un un’antica idea del pensiero occidentale) deve presupporre che il suo vincolo alla legge sia un vincolo all’ordine, in quanto struttura o esistente, o da raggiungere. Non si tratta di abolire l’interpretazione da parte del giudice, sia quello ordinario o quello delle leggi, essendo l’attività interpretativa strutturalmente insita nell’attività del giudicare; ma nemmeno è possibile trascurare i rischi che in questa attività sono nascosti quando il ‘creazionismo’ giudiziario viene staccato dall’ordinamento concreto».36 Così, la confessione di oggettività che abiterebbe il metodo interpretativo delle Corti dissimulerebbe un procedere ermeneutico presuntivamente scientifico37, ma in realtà orientato ad un vero e proprio esercizio di politica del diritto. D’altronde, l’intervento giudiziario nell’ambito di fattispecie non conosciute dalla normazione legislativa risulta inevitabile, ma questo “diritto giudiziario” diventa problematico «se la Corte dissimula la normazione giudiziale e tenta di nascondersi dietro un presunto “senso oggettivo” della legge».38
Alla necessità strutturale di un intervento di copertura del ‘vuoto’ normativo, inevitabilmente correlato alla dinamica strutturale della giuridicità, che dimostra, nella realtà storica, la sua continua inadeguatezza dinanzi al cangiare dei rapporti sociali, fa da contraltare l’esigenza, avanzata dai “critici” del c.d. ‘Stato dei giudici’, di limitare la suddetta attività in termini maggiormente stringenti. Invero, tale possibilità di limitazione risulta di complessa assimilazione, soprattutto in ragione della forza valoriale dei nuovi ordinamenti costituzionali che appaiono inestricabilmente orientati ad un operare per ‘princìpi’, che per loro stessa natura non possono non caratterizzarsi per un utilizzo flessibile e che, cogliendo l’occasione degli spazi lasciati vuoti dall’emergere dei casi concreti, si insinuano in questi ultimi, invitando l’interprete a ricercare una soluzione alla luce dei valori direttivi che innervano l’ordinamento.
La situazione si struttura, così, in forma ambivalente: da una parte l’esigenza di trovare forme più solide di ancoraggio normativo rispetto alla soluzione dei casi della vita, che non siano soltanto quelle, meramente argomentative, del richiamo a princìpi e valori; dall’altra, l’inevitabile avanzata dei princìpi stessi quale elemento strutturale di un diritto globale sempre più connotato in senso ‘giurisprudenziale’ e ‘pluralistico’.
4. Conclusioni
Gli aspetti qui brevemente tratteggiati fanno emergere molteplici elementi di discussione, bisognosi di un attentato riesame critico. Essi, in prima istanza, ripropongono il complesso tema dei rapporti e delle reciproche interrelazioni tra la sfera della c.d. costituzione formale e il piano della c.d. costituzione materiale.39
L’idea, infatti, che il mutamento degli assetti di potere si possa conseguire attraverso attività, azioni, comportamenti formalmente non codificati lascia trasparire l’idea che la costituzione non sia soltanto riducibile a ciò che esplicitamente statuiscono le disposizioni costituzionali (sia regolative che di principio), aprendo spazio al concreto organizzarsi di nuovi fenomeni di esercizio del potere e di regolamentazione del ‘vuoto’ normativo. Emergono, altresì, plurimi interrogativi in relazione alla sorte delle categorie giuridiche tradizionali, al di là dell’irrefutabile valore euristico che, tutt’oggi, continuano rivestire per la prassi e la dogmatica giuridica.40 Ad esempio, l’aggiunta rispetto al termine ‘Stato’ di un attributo proprio di un organo dello stesso (la magistratura, ordinaria o costituzionale: l’elemento giudiziale) lascia presumere che tale organo possa assurgere ad elemento determinate ai fini di una più precisa caratterizzazione della stessa forma-Stato, incrinando la stessa strutturazione dicotomica tra forma di Stato e forma di governo: ciò manifesta una minore demarcazione e una maggiore influenza reciproca tra le due sfere, fino sfumarne i confini delimitativi.41 Anche questo aspetto, non a caso, rientra nel più ampio fenomeno di sempre più intensa pluralità delle fonti che abita il diritto europeo e il diritto sovranazionale (e internazionale).
Prima ancora di prendere posizione, a livello deontologico, e stante, ad ogni modo, la problematicità di verificare tali mutamenti sul piano strettamente empirico – che deve andare di pari passo con la necessità della teoresi e che schiude continuamente nuovi elementi dubitativi dinanzi al conflitto delle interpretazioni – è d’uopo cercare di capire quali siano le possibili conseguenze di tali cambiamenti. Molto spesso, al di là di più o meno esplicite posizioni ideologiche, una adeguata concettualizzazione può aiutare a cogliere le sfumature del problema che, una volta determinato e messo a punto, ci fornirà, al tempo stesso, dei chiari indici programmatici che meriteranno di essere esaminati. Un problema analogo, non a caso, sembra presentarsi nei confronti della crisi del parlamentarismo e dell’esponenziale sviluppo dell’organo esecutivo. Gli elementi sopra sottolineati, pertanto, si ricollegano ad una crisi di frattura determinata dal crollo della certezza della fonte legislativa42 quale strumento di direzione e di catalizzazione dell’ordine giuridico-politico.
La crisi che tende a spodestare le procedure parlamentaristiche e rappresentative a favore di dinamiche che dimostrino un contatto più intrinseco con la puntualità dell’esistente, deve fornire da monito al fine di comprendere le ragioni di tale scostamento che, pur nelle sue diverse forme, trova il suo elemento denominatore, appunto, in una tendenza centrifuga rispetto al peso del fenomeno legislativo. Che tale sviamento si concluda, dipoi, nell’ampliamento dell’ambito di operatività dell’organo esecutivo o, piuttosto, nell’implementazione delle facoltà decisionali dei giudici attraverso l’allargamento del raggio di incidenza applicativa della fattispecie astratta al caso concreto, sembrano costituire la risacca di un medesimo frangente d’onda, la cui genesi si situa nel decadimento della convinzione di poter regolamentare l’esistente mediante il semplice apporto della normazione generale che, nel suo continuo deficit di adeguamento al dato sostanziale, dimostra, ciclicamente, la sua consustanziale insufficienza gestionale dinanzi al mutare, continuo ed irrequieto, dei fenomeni sociali.43
Inoltre, in ragione dell’emergere della dimensione sovra-nazionale come elemento significativo del nostro tempo, la struttura verticistica con cui, usualmente, si suole identificare l’assetto tradizionale delle fonti del diritto, lascia il posto a nuove raffigurazioni che vedono nella dimensione reticolare ed orizzontale44 uno dei suoi caratteri tipici, e di cui i fenomeni di integrazione europea sono una delle manifestazioni più evidenti e consolidate. Questi ultimi sembrano indicare sentieri nuovi, che vedono in una lettura pluralistica del diritto e delle sue fonti un indice da perseguire, al fine di rendere conto, nel modo più adeguato, della complessa varietà della normazione ormai intrinsecamente correlata allo svolgersi composito dei fenomeni della realtà globale.
1 C. Schmitt, Legalità e legittimità, in Le categorie del ‘politico’ (a cura di G. Miglio e P. Schiera), il Mulino, Bologna, 2003, pp. 211-244.
2 C. Schmitt, Dottrina della Costituzione [1928] (a cura di A. Caracciolo), Giuffrè, Milano, 1984.
3 A. Salvatore, Schmitt e la teoria delle forme di Stato, in “Politica & Società”, 2015, pp. 81-97. In relazione alla sterminata bibliografia critica relativa all’opera politico-giuridica del giurista di Plettenberg, ci si limita ad alcuni rimandi generali: AA.VV., La politica oltre lo Stato: Carl Schmitt, a cura di G. Duso, Arsenale, Venezia, 1981; P.P. Portinaro, La crisi dello jus publicum europaeum. Saggio su Carl Schmitt, Edizioni di Comunità, Milano 1982; E. Castrucci, Introduzione alla filosofia del diritto pubblico di Carl Schmitt, Giappichelli, Torino 1991; C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Bologna, il Mulino, 1996; L. Albanese, Schmitt, Laterza, Roma-Bari 1996; J. Taubes, In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, a cura di E. Stimilli, Quodlibet, Macerata 1996; H. Hofmann, Legittimità contro legalità. La filosofia politica di Carl Schmitt, Edizioni Scientifiche Italiane, 1999; M. Nicoletti, Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, Morcelliana, Brescia 2002; R. Cavallo, Le categorie politiche del diritto. Carl Schmitt e le aporie del moderno, Bonanno, Acireale-Roma 2007; C. Galli, Lo sguardo di Giano. Saggi su Carl Schmitt, Bologna, il Mulino, 2008; S. Pietropaoli, Schmitt, Carocci, Roma 2012; Luigi Garofalo, Intrecci schmittiani, il Mulino, Bologna 2020.
4 C. Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria [1921] (trad. it.), Settimo Sigillo, Roma, 2006.
5 A. Carrino, La giustizia come conflitto. Crisi della politica e stato dei giudici, Mimemis, Milano-Udine, 2011; Id, La costituzione come decisione. Contro i giusmoralisti, Mimesis, Milano-Udine, 2019; B. Rüthers, La rivoluzione clandestina, Dallo Stato di diritto allo Stato dei giudici (trad. it.), Mucchi, Modena, 2018.
6 A. Salvatore, Schmitt e la teoria delle forme di Stato, op. cit., p. 84.
7 E. Castrucci, Introduzione alla filosofia del diritto pubblico di Carl Schmitt, Giappichelli, Torino, 1991, p. 22.
8 Per “tipo di Stato” si deve intendere altra cosa rispetto alle c.d. “forme di Stato”, proprie del diritto pubblico generale, le quali si fondano su ben precise determinazioni formali. Cfr. M. Volpi, Libertà e autorità. La classificazione delle forme dello Stato e delle forme di governo, Giappicchelli, Torino, 2013; G. Amato, F. Clementi, Forme di Stato e forme di governo, il Mulino, Bologna, 2012. Emblematico in tal senso Castrucci il quale, richiamando le note tesi schmittiane, afferma che «Il “tipo” non deve essere assunto a dogma assoluto, ignorando di esso il condizionamento storico (geschichtliche Bedingtheit) e la relatività politica (politische Relativität). Uno dei compiti fondamentali della dottrina della costituzione è anzi propriamente quello di dimostrare fino a che punto talune formule ed alcune configurazioni della dogmatica del diritto pubblico contemporaneo dipendano totalmente da situazioni precedenti e siano ancora in gran parte fissate agli svolgimenti ideologici del XIX secolo». Cfr, Castrucci, Introduzione alla filosofia del diritto pubblico, op. cit, p. 35.
9 C. Schmitt, Legalità e legittimità, op. cit., p. 212.
10 Ibidem, p. 213.
11 Ibidem.
12 Ibidem, (corsivo mio).
13 Ibidem (corsivo mio). Nota, non a caso, Carla Faralli in una brevilinea caratterizzazione della visione neo-costituzionalista che, oltre alla centralità del perseguimento della “correttezza” morale e alla attribuzione della centralità dei processi di applicazione del diritto, assume un rilievo essenziale anche l’assunzione di un «vincolo del legislatore, di fronte ai principi e ai diritti costituzionali e il ruolo decisivo dei giudici per la loro attuazione, anche in contrasto con le decisioni legislative e la legge» (corsivo mio), cfr. G. Fassò, Storia della filosofia del diritto III. Ottocento e Novecento, 3 voll., Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 365.
14 Ibidem, p. 216.
15 Ibidem.
16 Ibidem, p. 216 (corsivo mio).
17 N. Irti, Nichilismo giuridico, Laterza, Roma-Bari, 2005; Id., L’uso giuridico della natura, Laterza, Roma-Bari, 2013.
18 C. Schmitt, Legalità e legittimità, op. cit., p. 217.
19 G. Bongiovanni, Il neocostituzionalismo: i temi e gli autori, in A.A.V.V.; Filosofia del diritto. Introduzione critica al pensiero giuridico e al diritto positivo (a cura di G. Pino, A. Schiavello, V. Villa,, Giappicchelli, Torino, 2013, pp. 85-116, p. 86. Del medesimo autore si veda, altresì, G. Bongiovanni, Costituzionalismo e teoria del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2012.
20 A. Carrino, La costituzione come decisione. Contro i giusmoralisti, Mimemis, Milano-Udine, 2019; Id., La giustizia come conflitto, op. cit.
21 M. Barberis, Neocostituzionalismo, democrazia, imperialismo della morale, in “Ragion Pratica”, 2000, p. 147 ss.. Vi è chi invece vi si riferisce come teorie ‘principialiste’, cfr. A. García Figueroa, Principios y positivismo jurídico: el non positivismo principialista en las teorías de Ronald Dworkin y Robert Alexy, Madrid, 1998.
22 G. Bongiovanni, Il neocostituzionalismo, op. cit., p. 86
23 R. Alexy, Concetto e validità del diritto, trad. it., Einaudi, Torino, 1997; Id., Teoria dell’argomentazione giuridica, trad. it., Giuffrè, Milano, 1998; Id., Teoria dei diritti fondamentali, trad. it., il Mulino, Bologna, 2012.
24 R. Dworkin, Taking Right Serously, Harvard University Press, Cambridge, 1977; trad. it. I diritti presi sul serio, il Mulino, Bologona, 1982; Id. L’impero del diritto, trad. it., Il Saggiatore, Milano, 1994.
25 C. S. Nino, Diritto come morale applicata, Giuffrè, Milano, 1999; Id., Introduzione all’analisi del diritto, trad. it., Giappicchelli, Torino, 1996.
26 Tra i vari lavori, si vedano soprattutto G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, Einaudi, Torino, 1992; Id., Intorno alla legge. Il diritto come dimensione del vivere comune, Einaudi, Torino, 2009. Vicina a questa posizione – benché l’autore non si consideri, a pieno titolo, “neo-costituzionalista” – è l’opera teorica di Luigi Ferrajoli. Cfr. L. Ferrajoli, Costituzionalismo principialista e costituzionalismo garantista, in “Doxa”, vol. 34, 2011, pp. 15-53.
27 Ibidem, p. 87
28 Ibidem, p. 91.
29 S. Pozzolo, Metacritica del neo-cositituzionalismo. Una risposta ai critici di “Neocostituzionalismo e positivismo giuridico”, in “Diritto e questioni pubbliche”, novembre 2003, pp. 51-70, p. 54, corsivo mio.
30 R. Guastini, Nuovi studi sull’interpretazione, Aracne editrice, Roma, 2008, pp. 119-144.
31 Id., Lezioni di teoria del diritto e dello Stato, Giappicchelli, Torino, 2006, pp. 111-158.
32 A. Carrino, La costituzione come decisione., op. cit., p. 135.
33 Ibidem, p. 227.
34 Ibidem, cit. pp. 227-228.
35 Su tali questioni si vedano, N. Irti, Norma e luoghi: problemi di geo-diritto, Laterza, Roma-Bari, 2001; F. Ruschi, Spazio. La questione del territorio statale, in “Dimensioni del diritto” (a cura di A. Andronico, T. Greco, F. Macioce), Giappicchelli, Torino, 2019, pp. 345-369.
36 A. Carrino, La costituzione come decisione, op. cit. p. 355.
37 B. Rüthers, La rivoluzione clandestina, op. cit., p. 91.
38 Ibidem, p. 97.
39 È d’obbligo il richiamo a F. Mortati, La costituzione in senso materiale (1940), Giuffrè, Milano, 1998; Id. Il problema del potere costituente, (1945), a cura di M. Goldoni, Quodlibet, Macerata, 2020; si vedano altresì gli studi critici di Fioravanti, tra quali almeno M. Fioravanti, La scienza del diritto pubblico. Dottrine dello Stato e della costituzione tra Otto e Novecento, Giuffrè, Milano, 2001; Id., Stato e costituzione. Materiali per una storia delle dottrine costituzionali, Giappicchelli, Torino, 1993.
40 U. Vincenti, Diritto senza identità. La crisi della categorie giuridiche tradizionali, Laterza, Roma-Bari, 2007.
41 Si pensi, tra l’altro, anche alla strutturazione di nuove forme giuridiche internazionali, quali l’attuale Unione europea, che la odierna giuspubblicistica con difficoltà riesce ad inquadrare coerentemente in una delle categorie classiche del diritto pubblico. Cfr. M. La Torre, Autunno della sovranità. Comunità europea e pluralismo giuridico, in “Ragion Pratica”, 12, 1999, pp. 187-210.
42 P.G. Monateri, I confini della legge. Sovranità e governo del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 2014.
43 Tale incapacità orientativa della disposizione normativa generale rispetto al complesso intensificarsi dei fenomeni sociali trova un ulteriore rappresentazione nel fenomeno emergente della soft law, quale paradigma teorico volto a decifrare un insieme di comportamenti, attività, pratiche che, pur non lambendo in via diretta il nocciolo ‘duro’ della normatività contribuiscono al buon funzionamento dei compiti di regolamentazione. Per un inquadramento generale del fenomeno su diversi piani teorici e disciplinari si veda AA.VV., Soft law e hard law nelle società postmoderne, a cura di A. Somma, Giappicchelli, Torino, 2009.
44 Si vedano in questo senso, fra le varie ricostruzioni teoriche, l’inquadramento generale fornito da F. Poggi, Concetti teorici fondamentali. Lezioni di teoria generale del diritto, ETS, Pisa, 2013, pp. 209-259; M. Barberis, L’europa del diritto. Sull’identità giuridica europea, il Mulino, Bologna, 2008, pp. 249-279.