Cartelle mute: in attesa del pronunciamento della Corte Costituzionale ...

Il presente lavoro ha lo scopo di condurre un’approfondita analisi della querelle giuridica creatasi intorno alle “c.d. cartelle mute”, tracciando sostanzialmente l’evoluzione normativa, nonché giurisprudenziale[1] che la questione ha avuto a seguito dell’ordinanza della Corte Costituzionale n. 377 del 9 novembre del 2007, fino ad arrivare all’attuale contesto normativo introdotto dall’art. 36, comma 4 – ter, del D.L. n. 248 del 31 dicembre 2007, convertito in legge n. 31 del 28 febbraio 2008, in relazione al quale si ergono gravissimi profili di incostituzionalità.

1. Gli elementi indefettibili della cartella esattoriale: art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente (Legge n. 212 del 27/07/2000).

Appare necessario partire dal dato normativo, ed in particolare dall’art. 7, comma 2, dello Statuto dei diritti del contribuente (Legge n. 212 del 27 luglio 2000), che dispone quanto segue:

“Gli atti dell’amministrazione finanziaria e dei concessionari della riscossione devono tassativamente indicare:

a) l’ufficio presso il quale é possibile ottenere informazioni complete in merito all’atto notificato o comunicato e il responsabile del procedimento;

b) l’organo o l’autorità amministrativa presso i quali é possibile promuovere un riesame anche nel merito dell’atto in sede di autotutela;

c) le modalità, il termine, l’organo giurisdizionale o l’autorità amministrativa cui é possibile ricorrere in caso di atti impugnabili.”

La norma de qua prescrive, tra gli altri, quale requisito tassativo, l’indicazione del responsabile del procedimento, bene inteso che tassativamente significhi a pena di nullità.

Infatti, occorre rammentare che il termine “nullità” non deve necessariamente comparire nel lessico normativo, potendo lo stesso desumersi per tabulas, tenuto conto dello scopo che persegue e la funzione che adempie (rispetto del diritto di difesa e del principio del contraddittorio sotto il controllo del giudice), come più volte affermato dalla Corte di Cassazione con le sentenze n. 2787/2006, n. 138/04 e n. 1771/04.

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria – con le suddette sentenze, ha decretato, per esempio, la natura perentoria di un termine, ancorché in assenza di espressa previsione legislativa.

Infatti, sebbene l’art. 152 c.p.c. disponga che i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, salvo che questa li dichiari espressamente perentori, non si può da tale norma dedurre che, ove manchi una esplicita dichiarazione in tal senso, debba senz’altro escludersi la prerentorietà del termine “perché nulla vieta di indagare se, a prescindere dal dettato della norma, un termine, per lo scopo che persegue e la funzione che adempie, debba essere rigorosamente osservato” (Cass., sent. n. 1771/2004).

La norma statutaria in commento, tuttavia, è rimasta lungamente inascoltata, almeno fino alla pronuncia della Corte Costituzionale n. 377 del 2007[2], che ha provocato a dir poco un movimento tellurico intorno alla questione.

In sostanza, la Consulta ha rivendicato la forza cogente e la valenza giuridica propria dello Statuto dei diritti del contribuente, ed in particolar modo dell’art. 7, comma 2, lett. a), statuendo che: “l’obbligo imposto ai concessionari di indicare nelle cartelle di pagamento il responsabile del procedimento, lungi dall’essere un inutile adempimento, ha lo scopo di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa, che sono altrettanti aspetti del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione predicati dall’art. 97, primo comma, Cost. ( si veda l’art. 1, comma 1, della Legge n. 241 del 1990, come modificato dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, recante “Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa”).

La prassi, seguita fino a pochi mesi fa da parte del concessionario, secondo la quale si rispettava il modello ministeriale disciplinato dal D.M. 28/06/1999, senza preoccuparsi di attenersi alla lettera della norma statutaria, è risultata essere lesiva di alcuni importantissimi principi costituzionali, attuati per mezzo dell’art. 7 dello Statuto cit..

Inutile dire, che dati gli effetti dirompenti insiti nella succitata pronuncia del Giudice delle leggi, Equitalia S.p.A. senza perdere troppo tempo, con nota del 29 novembre 2007, ha provveduto a comunicare che nei modelli ministeriali delle cartelle sarebbe stata inserita la seguente indicazione: “il responsabile del procedimento di emissione e notificazione della presente cartella di pagamento è il coordinatore dell’attività di cartellazione dell’ambito provinciale di…”.

Tuttavia, nonostante l’aver ammesso implicitamente tale nullità, l’Agenzia delle Entrate ed Equitalia S.p.a. hanno elaborato una tesi secondo cui la mancata indicazione del responsabile del procedimento comporta una mera irregolarità, non suscettibile di determinare l’annullabilità della cartella.

In sostanza, secondo Equitalia, l’indicazione del responsabile del procedimento non influisce sul contenuto della cartella di pagamento, essendo questa la mera trasposizione dei dati contenuti nel ruolo formato e consegnato all’ente creditore (Agenzia delle Entrata, Inps, Comuni), in conformità con il modello approvato con decreto ministeriale. L’Agente della riscossione, quindi, riporterebbe i dati contenuti del ruolo tout court, senza alcun tipo di elaborazione propria.

L’attività posta in essere dall’Agente della riscossione, dunque, non avrebbe natura discrezionale, tale per cui nei giudizi promossi dai contribuenti nei suoi confronti, Equitalia S.p.A. ha ritenuto valida la tesi difensiva fondata sull’applicazione dell’art. 21 octies, comma 2, della Legge n. 241 del 07/08/1990. In base a tale norma, infatti, “non è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolante del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.

2. La valenza dello Statuto dei diritti del contribuente.

Nella vicenda sulle cartelle mute, ciò che lascia più perplessi non è tanto la tesi propugnata dall’Agenzia delle Entrate e da Equitalia S.p.A., finalizzata chiaramente (e comprensibilmente) a preservare il gettito erariale, quanto invece l’assoluta pacatezza con cui alcuna giurisprudenza di merito (e si vedrà anche il Legislatore del 2008), ha ignorato la valenza giuridica dell’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente.

È necessario, infatti, ricordare come in ordine al valore ed alla portata dei principi espressi nello Statuto dei diritti del contribuente, la giurisprudenza della Cassazione abbia precisato che il cui contenuto di tali norme, richiamando in materia tributaria i principi costituzionali, debba ritenersi immanente nell’ordinamento giuridico, anche prima della sua entrata in vigore, vincolando l’interprete al canone ermeneutico dell’interpretazione adeguatrice alla Costituzione, che si sostanzia nel preferire l’interpretazione della legge più conforme alla Costituzione ( ex multis: Cassazione, sentenze n. 21513 del 2006; n. 7080 del 2004 e n. 17576 del 2002).

La valenza dello Statuto del contribuente è da qualificarsi alla stregua dei principi, enucleati dalla succitata giurisprudenza di legittimità (sentenza n. 17576 del 10/12/2002), secondo cui:“alle specifiche clausole rafforzative” di autoqualificazione delle disposizioni stesse come attuative delle norme costituzionali richiamate e come “principi generali dell’ordinamento tributario” deve essere attribuito un preciso valore normativo…“ è costituito, quantomeno, dalla superiorità assiologica” dei principi espressi o desumibili dalle disposizioni dello Statuto e, quindi, dalla loro funzione di orientamento ermeneutico, vincolante per l’interprete. In altri termini, il dubbio interpretativo o applicativo sul significato e sulla portata di qualsiasi disposizione tributaria, che attenga ad ambiti materiali disciplinati dalla Legge 212 del 2000 deve essere risolto dall’interprete nel senso più conforme ai principi statutari”.

Tali principi, peraltro, sono confermati nella successiva sentenza n. 7080 del 14/04/2004, sempre della Corte di Cassazione – Sezione Tributaria – secondo cui: “ogni qual volta una normativa fiscale sia suscettibile di una duplice interpretazione, una che ne comporti la retroattività ed una che l’escluda, l’interprete dovrà dare preferenza a questa seconda interpretazione come conforme a criteri generali introdotti con lo Statuto del contribuente, e attraverso di esso ai valori costituzionali intesi in senso ampio ed interpretati direttamente dello stesso legislatore attraverso lo Statuto” .

Del resto il principio della tutela della ragionevolezza e dell’affidamento, posto legittimamente sulla certezza dell’ordinamento giuridico, ha trovato già riconoscimento non solo nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. civ., 23 maggio 2003, n. 8146), ma anche in quella della Corte Costituzionale (sentenze nn. 211/97, 416/99, 525/2000) ed in quelle della Corte di Giustizia CEE (24 settembre 2002, C. 255/2000, Gr. It. S.p.A. C. Ministero delle Finanze) e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (30 maggio 2000, Ca. e Ve. C. Italia)”.

Questi corretti principi della Corte di Cassazione, peraltro, valorizzati con la succitata ordinanza n. 377 del 2007 della Corte Costituzionale, devono sempre rappresentare il faro interpretativo di tutte le leggi tributarie, per cui se, come nel caso di specie, lo Statuto richiede tassativamente un requisito è chiaro che la mancanza di tale requisito determina necessariamente la nullità dell’atto o della cartella esattoriale.

La cartella di pagamento essendo un atto amministrativo autoritativo, per mezzo del quale l’ente impositore va ad incidere negativamente sulla sfera giuridico – patrimoniale del contribuente, deve contenere determinati requisiti, affinché possa essere ritenuta un atto valido ed efficace. Questo, proprio in virtù dell’art. 7 dello Statuto cit. che attua i principi costituzionali di trasparenza, buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione sanciti nell’art. 97 Cost.

Ai sensi dell’art. 7 dello Statuto cit., gli atti dei concessionari, tra cui la cartella esattoriale, devono riportare la sottoscrizione del Funzionario investito dall’Ufficio avente competenza ad emanare l’atto e l’indicazione dell’Ufficio presso il quale è possibile ottenere informazioni in merito all’atto stesso ed il responsabile del procedimento.

La suddetta informativa è necessaria:

- per assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa, in quanto, soprattutto in un complesso sistema tributario come il nostro, non si possono emettere e notificare atti o cartelle esattoriali “anonimi”, stampati in modo meccanico dai computers, con il rischio delle c.d. “cartelle pazze”;

- per la prima informazione del cittadino-contribuente, anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile, soprattutto oggi che sono state potenziate al massimo le procedure di riscossione e di esecuzione, con l’utilizzo, alcune volte inopportuno, di ipoteche e fermi amministrativi;

- infine, per la garanzia del diritto di difesa, perché deve consentire al cittadino-contribuente di conoscere “a priori” il responsabile del procedimento cui chiedere specifiche motivazioni, soprattutto nel calcolo delle indennità di mora e degli interessi.

Tale disposizione di legge, avendo rango costituzionale, non può assolutamente essere ignorata, né aggirata per mezzo di interpretazioni estemporanee, fondate sulla base di altre fondamentali disposizioni di legge (vedi quelle contenute nella Legge n. 241 del 1990), che a ben vedere potrebbero cedere il passo innanzi ad una normativa a carattere speciale, come quella contenuta nello Statuto dei diritti del contribuente.

L’art. 7 dello Statuto, infatti, è norma speciale e, pertanto, in virtù del principio lex specialis derogat lex generalis, si deve ritenere che quanto disposto da tale norma di legge prevalga sulle disposizioni contenute nella legge n. 241 del 1990 e, quindi anche dell’art. 21 octies cit.

3. L’ordinanza della Corte Costituzionale n. 377 del 9 novembre 2007.

L’ordinanza della Corte Costituzionale n. 377 del 2007 trae origine dalla Commissione Tributaria Regionale del Veneto che, nel giudizio di appello in riferimento alla legittimità o meno della cartella di pagamento emessa dal Concessionario, ha sollevato la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 2, lett. a), della Legge n. 212 del 27 luglio 2000, nella parte in cui prevede che gli atti dei Concessionari della riscossione devono, così come gli atti emessi dall’Amministrazione finanziaria, tassativamente indicare, tra le altre cose, il responsabile del procedimento.

Il giudice rimettente ha rilevato, altresì, come le disposizioni del tipo di quella censurata, proprio perché si adattano bene all’attività procedimentale svolta dagli Uffici della pubblica amministrazione, al fine di emettere un provvedimento amministrativo destinato ad incidere sulla sfera giuridico – patrimoniale del destinatario, non possono essere rivolte nello stesso modo all’attività del Concessionario della riscossione, poiché l’attività di formazione della cartella di pagamento non sarebbe equiparabile a quella di un vero e proprio procedimento[3].

La Corte Costituzionale, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 2, lett. a), della Legge n. 212 del 2000, ha statuito quanto segue:

* l’art. 7 della Legge n. 212/2000 si applica ai procedimenti tributari non solo dell’amministrazione finanziaria, ma anche dei concessionari della riscossione, in quanto soggetti privati cui compete l’esercizio di funzioni pubbliche. Tali procedimenti comprendono sia quelli che il giudice definisce “procedimenti di massa” (i quali culminano in provvedimenti di contenuto omogeneo o standardizzato nei confronti di innumerevoli destinatari), sia di quelli di natura non discrezionale;

* l’obbligo imposto ai concessionari di indicare nelle cartelle di pagamento il responsabile del procedimento, lungi dall’essere un inutile adempimento, ha lo scopo di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa, che sono altrettanti aspetti del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione predicati dall’art. 97, primo comma, Cost. (si veda l’art. 1, comma 1, della Legge n. 241 del 1990, come modificato dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, recante “Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa”);

* anche prima dell’entrata in vigore della legge n. 212 del 2000, e cioè dello Statuto dei diritti del contribuente, la Corte ha statuito l’applicabilità ai procedimenti tributari della legge generale sul procedimento amministrativo n. 241 del 1990 (ordinanza n. 117 del 2000, relativa all’obbligo di motivazione della cartella di pagamento).

4. La posizione dell’Avvocatura dello Stato.

In relazione alla questione della nullità delle cartelle mute è bene tener presente, altresì, la posizione dell’Avvocatura dello Stato, la quale, costituendosi per la Presidenza del Consiglio dei Ministri nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 2, della legge n. 212 del 2000, ha, opportunamente, precisato che: “l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità della norma raggiungerebbe l’effetto contrario a quello indicato dal giudice de quo (l’accoglimento dell’appello), giacchè, facendo venir meno l’obbligo di indicare il responsabile del procedimento, comporterebbe che la mancanza o l’insufficienza di tale indicazione non sarebbe più oggetto di un dovere sanzionabile con la declaratoria di illegittimità della cartella di pagamento”.

In sostanza, dal tenore della succitata nota dell’Avvocatura dello Stato si deve ritenere che è lo Stato stesso, per mezzo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, a ribadire la tesi che la mancata indicazione del responsabile del procedimento determina l’illegittimità della cartella di pagamento, così come l’art. 7 definisce tale indicazione come tassativa e la Corte Costituzionale nega che consista in un inutile adempimento.

In assenza di una espressa previsione legislativa, quindi, si era venuta a creare una polemica intorno alla necessità o meno di statuire la nullità delle ”cartelle c.d. mute”, prive cioè dell’indicazione del responsabile del procedimento[4].

5. Giurisprudenza di merito: le pronunce favorevoli al contribuente.

La prima pronuncia di merito favorevole al contribuente è da individuarsi nella sentenza n. 517/2/7 della Commissione Tributaria provinciale di Lecce – Sezione II- pronunciata il 12 dicembre 2007 e depositata il 14 gennaio 2008[5].

La sentenza trae spunto dalla notifica a un contribuente di una cartella di pagamento, da parte del concessionario della riscossione, per un ruolo emesso dall’Agenzia dell’Entrate. Tuttavia, nella sezione destinata alle informazioni su quando e come presentare il ricorso contro il ruolo e, più nello specifico, nella parte dedicata dalle indicazioni sulla richiesta di informazioni e di riesame in autotutela dello stesso, il concessionario aveva omesso di indicare le generalità del responsabile del procedimento.

In questa sede, infatti, il Giudice ha ritenuto che il requisito dell’indicazione del responsabile sia un elemento indefettibile della cartella di pagamento, tale per cui la sua omissione abbia come conseguenza l’illegittimità della cartella medesima.

Il principio, che in realtà è consolidato nella giurisprudenza dei Giudici di pace, trova il suo primo riconoscimento, nell’ambito della giustizia tributaria, con la sentenza de qua.

Il Collegio leccese ha stabilito la nullità della cartella di pagamento che non rechi l’indicazione del responsabile del procedimento, in virtù dell’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente (Legge n. 212 del 2000), aderendo, così, agli importantissimi principi statuiti, in materia, dall’ordinanza della Corte Costituzionale n. 377 del 09/11/2007.

Ed infatti, la Commissione di Lecce ha ritenuto che il Legislatore, con l’art. 7 dello Statuto, abbia espresso, chiaramente, la volontà di predisporre determinate garanzie ai destinatari di un’iscrizione a ruolo e, quindi di una cartella di pagamento. Il mancato rispetto anche di una sola prescrizione dettata dalla legge non può essere ritenuta una mera irregolarità, quando tali cautele legislative sono finalizzate ad apprestare una tutela di rango costituzionale.

Anche la Commissione Tributaria Provinciale di Bari, Sezione IV, con la sentenza n. 445/4/07, depositata il 14/01/2008, ha aderito ai principi statuiti dalla Corte Costituzionale, ribadendo che l’indicazione del responsabile del procedimento, lungi dall’essere definito come un inutile adempimento, ha la funzione di fornire all’utente ogni informazione utile sull’atto che gli è stato notificato.

Il Collegio barese ha correttamente evidenziato come l’obbligo imposto all&rsqu

Il presente lavoro ha lo scopo di condurre un’approfondita analisi della querelle giuridica creatasi intorno alle “c.d. cartelle mute”, tracciando sostanzialmente l’evoluzione normativa, nonché giurisprudenziale[1] che la questione ha avuto a seguito dell’ordinanza della Corte Costituzionale n. 377 del 9 novembre del 2007, fino ad arrivare all’attuale contesto normativo introdotto dall’art. 36, comma 4 – ter, del D.L. n. 248 del 31 dicembre 2007, convertito in legge n. 31 del 28 febbraio 2008, in relazione al quale si ergono gravissimi profili di incostituzionalità.

1. Gli elementi indefettibili della cartella esattoriale: art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente (Legge n. 212 del 27/07/2000).

Appare necessario partire dal dato normativo, ed in particolare dall’art. 7, comma 2, dello Statuto dei diritti del contribuente (Legge n. 212 del 27 luglio 2000), che dispone quanto segue:

“Gli atti dell’amministrazione finanziaria e dei concessionari della riscossione devono tassativamente indicare:

a) l’ufficio presso il quale é possibile ottenere informazioni complete in merito all’atto notificato o comunicato e il responsabile del procedimento;

b) l’organo o l’autorità amministrativa presso i quali é possibile promuovere un riesame anche nel merito dell’atto in sede di autotutela;

c) le modalità, il termine, l’organo giurisdizionale o l’autorità amministrativa cui é possibile ricorrere in caso di atti impugnabili.”

La norma de qua prescrive, tra gli altri, quale requisito tassativo, l’indicazione del responsabile del procedimento, bene inteso che tassativamente significhi a pena di nullità.

Infatti, occorre rammentare che il termine “nullità” non deve necessariamente comparire nel lessico normativo, potendo lo stesso desumersi per tabulas, tenuto conto dello scopo che persegue e la funzione che adempie (rispetto del diritto di difesa e del principio del contraddittorio sotto il controllo del giudice), come più volte affermato dalla Corte di Cassazione con le sentenze n. 2787/2006, n. 138/04 e n. 1771/04.

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria – con le suddette sentenze, ha decretato, per esempio, la natura perentoria di un termine, ancorché in assenza di espressa previsione legislativa.

Infatti, sebbene l’art. 152 c.p.c. disponga che i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, salvo che questa li dichiari espressamente perentori, non si può da tale norma dedurre che, ove manchi una esplicita dichiarazione in tal senso, debba senz’altro escludersi la prerentorietà del termine “perché nulla vieta di indagare se, a prescindere dal dettato della norma, un termine, per lo scopo che persegue e la funzione che adempie, debba essere rigorosamente osservato” (Cass., sent. n. 1771/2004).

La norma statutaria in commento, tuttavia, è rimasta lungamente inascoltata, almeno fino alla pronuncia della Corte Costituzionale n. 377 del 2007[2], che ha provocato a dir poco un movimento tellurico intorno alla questione.

In sostanza, la Consulta ha rivendicato la forza cogente e la valenza giuridica propria dello Statuto dei diritti del contribuente, ed in particolar modo dell’art. 7, comma 2, lett. a), statuendo che: “l’obbligo imposto ai concessionari di indicare nelle cartelle di pagamento il responsabile del procedimento, lungi dall’essere un inutile adempimento, ha lo scopo di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa, che sono altrettanti aspetti del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione predicati dall’art. 97, primo comma, Cost. ( si veda l’art. 1, comma 1, della Legge n. 241 del 1990, come modificato dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, recante “Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa”).

La prassi, seguita fino a pochi mesi fa da parte del concessionario, secondo la quale si rispettava il modello ministeriale disciplinato dal D.M. 28/06/1999, senza preoccuparsi di attenersi alla lettera della norma statutaria, è risultata essere lesiva di alcuni importantissimi principi costituzionali, attuati per mezzo dell’art. 7 dello Statuto cit..

Inutile dire, che dati gli effetti dirompenti insiti nella succitata pronuncia del Giudice delle leggi, Equitalia S.p.A. senza perdere troppo tempo, con nota del 29 novembre 2007, ha provveduto a comunicare che nei modelli ministeriali delle cartelle sarebbe stata inserita la seguente indicazione: “il responsabile del procedimento di emissione e notificazione della presente cartella di pagamento è il coordinatore dell’attività di cartellazione dell’ambito provinciale di…”.

Tuttavia, nonostante l’aver ammesso implicitamente tale nullità, l’Agenzia delle Entrate ed Equitalia S.p.a. hanno elaborato una tesi secondo cui la mancata indicazione del responsabile del procedimento comporta una mera irregolarità, non suscettibile di determinare l’annullabilità della cartella.

In sostanza, secondo Equitalia, l’indicazione del responsabile del procedimento non influisce sul contenuto della cartella di pagamento, essendo questa la mera trasposizione dei dati contenuti nel ruolo formato e consegnato all’ente creditore (Agenzia delle Entrata, Inps, Comuni), in conformità con il modello approvato con decreto ministeriale. L’Agente della riscossione, quindi, riporterebbe i dati contenuti del ruolo tout court, senza alcun tipo di elaborazione propria.

L’attività posta in essere dall’Agente della riscossione, dunque, non avrebbe natura discrezionale, tale per cui nei giudizi promossi dai contribuenti nei suoi confronti, Equitalia S.p.A. ha ritenuto valida la tesi difensiva fondata sull’applicazione dell’art. 21 octies, comma 2, della Legge n. 241 del 07/08/1990. In base a tale norma, infatti, “non è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolante del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.

2. La valenza dello Statuto dei diritti del contribuente.

Nella vicenda sulle cartelle mute, ciò che lascia più perplessi non è tanto la tesi propugnata dall’Agenzia delle Entrate e da Equitalia S.p.A., finalizzata chiaramente (e comprensibilmente) a preservare il gettito erariale, quanto invece l’assoluta pacatezza con cui alcuna giurisprudenza di merito (e si vedrà anche il Legislatore del 2008), ha ignorato la valenza giuridica dell’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente.

È necessario, infatti, ricordare come in ordine al valore ed alla portata dei principi espressi nello Statuto dei diritti del contribuente, la giurisprudenza della Cassazione abbia precisato che il cui contenuto di tali norme, richiamando in materia tributaria i principi costituzionali, debba ritenersi immanente nell’ordinamento giuridico, anche prima della sua entrata in vigore, vincolando l’interprete al canone ermeneutico dell’interpretazione adeguatrice alla Costituzione, che si sostanzia nel preferire l’interpretazione della legge più conforme alla Costituzione ( ex multis: Cassazione, sentenze n. 21513 del 2006; n. 7080 del 2004 e n. 17576 del 2002).

La valenza dello Statuto del contribuente è da qualificarsi alla stregua dei principi, enucleati dalla succitata giurisprudenza di legittimità (sentenza n. 17576 del 10/12/2002), secondo cui:“alle specifiche clausole rafforzative” di autoqualificazione delle disposizioni stesse come attuative delle norme costituzionali richiamate e come “principi generali dell’ordinamento tributario” deve essere attribuito un preciso valore normativo…“ è costituito, quantomeno, dalla superiorità assiologica” dei principi espressi o desumibili dalle disposizioni dello Statuto e, quindi, dalla loro funzione di orientamento ermeneutico, vincolante per l’interprete. In altri termini, il dubbio interpretativo o applicativo sul significato e sulla portata di qualsiasi disposizione tributaria, che attenga ad ambiti materiali disciplinati dalla Legge 212 del 2000 deve essere risolto dall’interprete nel senso più conforme ai principi statutari”.

Tali principi, peraltro, sono confermati nella successiva sentenza n. 7080 del 14/04/2004, sempre della Corte di Cassazione – Sezione Tributaria – secondo cui: “ogni qual volta una normativa fiscale sia suscettibile di una duplice interpretazione, una che ne comporti la retroattività ed una che l’escluda, l’interprete dovrà dare preferenza a questa seconda interpretazione come conforme a criteri generali introdotti con lo Statuto del contribuente, e attraverso di esso ai valori costituzionali intesi in senso ampio ed interpretati direttamente dello stesso legislatore attraverso lo Statuto” .

Del resto il principio della tutela della ragionevolezza e dell’affidamento, posto legittimamente sulla certezza dell’ordinamento giuridico, ha trovato già riconoscimento non solo nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. civ., 23 maggio 2003, n. 8146), ma anche in quella della Corte Costituzionale (sentenze nn. 211/97, 416/99, 525/2000) ed in quelle della Corte di Giustizia CEE (24 settembre 2002, C. 255/2000, Gr. It. S.p.A. C. Ministero delle Finanze) e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (30 maggio 2000, Ca. e Ve. C. Italia)”.

Questi corretti principi della Corte di Cassazione, peraltro, valorizzati con la succitata ordinanza n. 377 del 2007 della Corte Costituzionale, devono sempre rappresentare il faro interpretativo di tutte le leggi tributarie, per cui se, come nel caso di specie, lo Statuto richiede tassativamente un requisito è chiaro che la mancanza di tale requisito determina necessariamente la nullità dell’atto o della cartella esattoriale.

La cartella di pagamento essendo un atto amministrativo autoritativo, per mezzo del quale l’ente impositore va ad incidere negativamente sulla sfera giuridico – patrimoniale del contribuente, deve contenere determinati requisiti, affinché possa essere ritenuta un atto valido ed efficace. Questo, proprio in virtù dell’art. 7 dello Statuto cit. che attua i principi costituzionali di trasparenza, buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione sanciti nell’art. 97 Cost.

Ai sensi dell’art. 7 dello Statuto cit., gli atti dei concessionari, tra cui la cartella esattoriale, devono riportare la sottoscrizione del Funzionario investito dall’Ufficio avente competenza ad emanare l’atto e l’indicazione dell’Ufficio presso il quale è possibile ottenere informazioni in merito all’atto stesso ed il responsabile del procedimento.

La suddetta informativa è necessaria:

- per assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa, in quanto, soprattutto in un complesso sistema tributario come il nostro, non si possono emettere e notificare atti o cartelle esattoriali “anonimi”, stampati in modo meccanico dai computers, con il rischio delle c.d. “cartelle pazze”;

- per la prima informazione del cittadino-contribuente, anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile, soprattutto oggi che sono state potenziate al massimo le procedure di riscossione e di esecuzione, con l’utilizzo, alcune volte inopportuno, di ipoteche e fermi amministrativi;

- infine, per la garanzia del diritto di difesa, perché deve consentire al cittadino-contribuente di conoscere “a priori” il responsabile del procedimento cui chiedere specifiche motivazioni, soprattutto nel calcolo delle indennità di mora e degli interessi.

Tale disposizione di legge, avendo rango costituzionale, non può assolutamente essere ignorata, né aggirata per mezzo di interpretazioni estemporanee, fondate sulla base di altre fondamentali disposizioni di legge (vedi quelle contenute nella Legge n. 241 del 1990), che a ben vedere potrebbero cedere il passo innanzi ad una normativa a carattere speciale, come quella contenuta nello Statuto dei diritti del contribuente.

L’art. 7 dello Statuto, infatti, è norma speciale e, pertanto, in virtù del principio lex specialis derogat lex generalis, si deve ritenere che quanto disposto da tale norma di legge prevalga sulle disposizioni contenute nella legge n. 241 del 1990 e, quindi anche dell’art. 21 octies cit.

3. L’ordinanza della Corte Costituzionale n. 377 del 9 novembre 2007.

L’ordinanza della Corte Costituzionale n. 377 del 2007 trae origine dalla Commissione Tributaria Regionale del Veneto che, nel giudizio di appello in riferimento alla legittimità o meno della cartella di pagamento emessa dal Concessionario, ha sollevato la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 2, lett. a), della Legge n. 212 del 27 luglio 2000, nella parte in cui prevede che gli atti dei Concessionari della riscossione devono, così come gli atti emessi dall’Amministrazione finanziaria, tassativamente indicare, tra le altre cose, il responsabile del procedimento.

Il giudice rimettente ha rilevato, altresì, come le disposizioni del tipo di quella censurata, proprio perché si adattano bene all’attività procedimentale svolta dagli Uffici della pubblica amministrazione, al fine di emettere un provvedimento amministrativo destinato ad incidere sulla sfera giuridico – patrimoniale del destinatario, non possono essere rivolte nello stesso modo all’attività del Concessionario della riscossione, poiché l’attività di formazione della cartella di pagamento non sarebbe equiparabile a quella di un vero e proprio procedimento[3].

La Corte Costituzionale, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 2, lett. a), della Legge n. 212 del 2000, ha statuito quanto segue:

* l’art. 7 della Legge n. 212/2000 si applica ai procedimenti tributari non solo dell’amministrazione finanziaria, ma anche dei concessionari della riscossione, in quanto soggetti privati cui compete l’esercizio di funzioni pubbliche. Tali procedimenti comprendono sia quelli che il giudice definisce “procedimenti di massa” (i quali culminano in provvedimenti di contenuto omogeneo o standardizzato nei confronti di innumerevoli destinatari), sia di quelli di natura non discrezionale;

* l’obbligo imposto ai concessionari di indicare nelle cartelle di pagamento il responsabile del procedimento, lungi dall’essere un inutile adempimento, ha lo scopo di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa, che sono altrettanti aspetti del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione predicati dall’art. 97, primo comma, Cost. (si veda l’art. 1, comma 1, della Legge n. 241 del 1990, come modificato dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, recante “Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa”);

* anche prima dell’entrata in vigore della legge n. 212 del 2000, e cioè dello Statuto dei diritti del contribuente, la Corte ha statuito l’applicabilità ai procedimenti tributari della legge generale sul procedimento amministrativo n. 241 del 1990 (ordinanza n. 117 del 2000, relativa all’obbligo di motivazione della cartella di pagamento).

4. La posizione dell’Avvocatura dello Stato.

In relazione alla questione della nullità delle cartelle mute è bene tener presente, altresì, la posizione dell’Avvocatura dello Stato, la quale, costituendosi per la Presidenza del Consiglio dei Ministri nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 2, della legge n. 212 del 2000, ha, opportunamente, precisato che: “l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità della norma raggiungerebbe l’effetto contrario a quello indicato dal giudice de quo (l’accoglimento dell’appello), giacchè, facendo venir meno l’obbligo di indicare il responsabile del procedimento, comporterebbe che la mancanza o l’insufficienza di tale indicazione non sarebbe più oggetto di un dovere sanzionabile con la declaratoria di illegittimità della cartella di pagamento”.

In sostanza, dal tenore della succitata nota dell’Avvocatura dello Stato si deve ritenere che è lo Stato stesso, per mezzo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, a ribadire la tesi che la mancata indicazione del responsabile del procedimento determina l’illegittimità della cartella di pagamento, così come l’art. 7 definisce tale indicazione come tassativa e la Corte Costituzionale nega che consista in un inutile adempimento.

In assenza di una espressa previsione legislativa, quindi, si era venuta a creare una polemica intorno alla necessità o meno di statuire la nullità delle ”cartelle c.d. mute”, prive cioè dell’indicazione del responsabile del procedimento[4].

5. Giurisprudenza di merito: le pronunce favorevoli al contribuente.

La prima pronuncia di merito favorevole al contribuente è da individuarsi nella sentenza n. 517/2/7 della Commissione Tributaria provinciale di Lecce – Sezione II- pronunciata il 12 dicembre 2007 e depositata il 14 gennaio 2008[5].

La sentenza trae spunto dalla notifica a un contribuente di una cartella di pagamento, da parte del concessionario della riscossione, per un ruolo emesso dall’Agenzia dell’Entrate. Tuttavia, nella sezione destinata alle informazioni su quando e come presentare il ricorso contro il ruolo e, più nello specifico, nella parte dedicata dalle indicazioni sulla richiesta di informazioni e di riesame in autotutela dello stesso, il concessionario aveva omesso di indicare le generalità del responsabile del procedimento.

In questa sede, infatti, il Giudice ha ritenuto che il requisito dell’indicazione del responsabile sia un elemento indefettibile della cartella di pagamento, tale per cui la sua omissione abbia come conseguenza l’illegittimità della cartella medesima.

Il principio, che in realtà è consolidato nella giurisprudenza dei Giudici di pace, trova il suo primo riconoscimento, nell’ambito della giustizia tributaria, con la sentenza de qua.

Il Collegio leccese ha stabilito la nullità della cartella di pagamento che non rechi l’indicazione del responsabile del procedimento, in virtù dell’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente (Legge n. 212 del 2000), aderendo, così, agli importantissimi principi statuiti, in materia, dall’ordinanza della Corte Costituzionale n. 377 del 09/11/2007.

Ed infatti, la Commissione di Lecce ha ritenuto che il Legislatore, con l’art. 7 dello Statuto, abbia espresso, chiaramente, la volontà di predisporre determinate garanzie ai destinatari di un’iscrizione a ruolo e, quindi di una cartella di pagamento. Il mancato rispetto anche di una sola prescrizione dettata dalla legge non può essere ritenuta una mera irregolarità, quando tali cautele legislative sono finalizzate ad apprestare una tutela di rango costituzionale.

Anche la Commissione Tributaria Provinciale di Bari, Sezione IV, con la sentenza n. 445/4/07, depositata il 14/01/2008, ha aderito ai principi statuiti dalla Corte Costituzionale, ribadendo che l’indicazione del responsabile del procedimento, lungi dall’essere definito come un inutile adempimento, ha la funzione di fornire all’utente ogni informazione utile sull’atto che gli è stato notificato.

Il Collegio barese ha correttamente evidenziato come l’obbligo imposto all&rsqu