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Confronto

Come attivare un dialogo e un confronto sani, anche sul luogo di lavoro?
confronto e dialogo
confronto e dialogo

In questi ultimi tempi osservavo quanto, nei nostri racconti, sia presente il confronto. Come se, le persone che ci ruotano intorno, rappresentassero modelli a cui tendere o fossero portatori di standard ai quali ha senso ispirarsi.

Certo, niente di nuovo sotto il sole perché, già nel 1954, Leon Festinger[1] elaborò proprio la “teoria del confronto sociale”, che evidenzia quanto, le persone, abbiano in fondo una innata propensione a valutare sé stesse in relazione agli altri; ciò proprio nell’intento di ottenere una sorta di valutazione, di misurazione del proprio valore, nel lavoro, nelle relazioni, nella società. Questo atteggiamento opera poi a due livelli, diciamo così, di bilanciamento; questo perché, da un lato (verso il basso), tendiamo “a ricomporre a noi stessi” quei risultati che riteniamo elevati, ma che nei fatti non lo sono. Dall’altro lato (verso l’alto), interveniamo sulla nostra autostima, prendendo come esempio performance inferiori alle nostre e gratificandoci così dei nostri migliori risultati.

È un meccanismo, questo, che può produrre anche risultati utili perché, quando ci confrontiamo con persone che riteniamo migliori di noi, a nostra volta, ne riceviamo una spinta a migliorarci. Al contempo, quando il confronto è attuato verso “il basso”, è una scelta che facciamo, in modo più o meno consapevole, per restituire a noi stessi una sorta di gratificazione.

A partire da questi semplici concetti, riflettevo su quanto, queste stesse dinamiche, possano incidere, in positivo o in negativo, all’interno di un processo di feedback; questo in quanto, osservavo, è un registro che si ripete, in modo analogo, nelle relazioni duali, fra colleghi, ma anche nella relazione fra capo e collaboratore.

Mi spiego meglio. Quando un nostro collega o collaboratore, ci rappresenta un proprio stato emotivo o un evento che riguarda il proprio percorso di vita o professionale, probabilmente lo sta facendo nell’intento di fornirci informazioni che ha la necessità di decodificare, o sui quali ha bisogno di un indirizzo.

La nostra tentazione innata – proprio perché, come ci spiega Leon Festinger, sono registri comunicativi tanto radicati in noi stessi – è che rispondiamo alla disamina di questi accadimenti, riportando fatti, situazioni o reazioni, che appartengono o sono appartenuti, alla nostra o altrui, esperienza di vita.

Vi è mai capitato?!

Lo stesso Leon Festinger evidenzia come, venire a conoscenza di date caratteristiche (esperienze e vissuti di altri) non sia di per sé un’esperienza informativa. Dal mio punto di vista notavo anche quanto, seppure posto con le migliori intenzioni, rispondere ad una narrazione con questo tipo di registro realizzi nei fatti come una sorta di distacco emotivo fra noi e i nostri stessi interlocutori, con il risultato che probabilmente non si sentiranno compresi e scatenando così, reazioni più o meno composte o nessuna reazione.

Di fatto, il confronto con l’esperienza di altri non definirà quindi la via di uscita, la soluzione ai loro problemi, dubbi o indecisioni.

Questo avviene semplicemente perché ciascuno di noi è unico: la nostra e loro storia, è diversa da quella di chiunque altro. Sono diversi i percorsi di vita, radici, valori, ambizioni, priorità e progetti. Possono essere diversi i valori, le opportunità che la vita ci ha negato o le possibilità di cui ci ha fatto dono.

Nei mesi scorsi ho avuto l’opportunità di venire a conoscenza del modello delle quattro intelligenze relazionali proposte dal Complexity Institutes[2] ed ho compreso quanto possa essere importante, in situazioni analoghe, fare leva – prima ancora che sulla nostra intelligenza sociale – sulla nostra intelligenza emotiva.

L’intelligenza emotiva, infatti, si manifesta facendo leva sulla nostra capacità di riconoscere e utilizzare, in modo consapevole e costruttivo, le proprie emozioni; ciò al fine di comprendere le emozioni dell’altro e facilitarne così uno sviluppo che sia costruttivo.

Nel libro “Intelligenza Emotiva – Teoria, ricerca e intervento nei contesti psico-educativi”, Giacomo Mancini e Elena Trombini evidenziano come periodi di cambiamento o di trasformazione possano comportare alterazioni della propria esperienza emozionale che attivano, da un lato, meccanismi difensivi, dall’altro una rinnovata attenzione al proprio mondo interiore o esteriore, alla ricerca di una risposta dotata di significato. Questa attivazione ha la finalità di orientare il proprio comportamento e fronteggiare così la propria esperienza emozionale sul versante dell’azione.

Quando si attivano dinamiche di questo tipo, soprattutto quando, appunto, rivestiamo ruoli di guida o di mentorship, diventa quindi importante riuscire ad attivare nuove leve che ci consentano di entrare meglio in contatto con le nostre emozioni e con le emozioni delle persone con cui siamo in relazione o che stanno cercando di attivare una relazione con noi. Riuscire a conoscere meglio sé stessi e chi ci sta di fronte, ci consentirà di prendere coscienza dei diversi vissuti e dei ritorni, che questi stessi vissuti, hanno sul nostro modo di pensare e agire.

Inoltre, evidenziano gli autori, riuscire a comprendere gli stati d’animo personali attiverà la nostra capacità empatica, che implica l’assunzione della prospettiva emotiva dell’altro e attiverà di conseguenza, una maggiore e reciproca, comprensione.

Naturalmente, arrivare a questo grado di consapevolezza e abilità relazionale, richiederà lo sviluppo di rinnovate competenze, a volte anche molto complesse.

Secondo Daniel Goleman[3], infatti, sviluppare la nostra intelligenza emotiva implica la “capacità di motivare sé stessi e di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione, modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare, ed essere empatici”. Tutto questo comporta agire su più livelli che lo stesso Goleman individua, fra gli altri, nella capacità di esercitare le nostre abilità sociali, nell’acquisire consapevolezza e padronanza di sé, e sullo sviluppo della nostra capacità empatica.

E allora, come può muoversi ciascuno di noi all’interno di queste variabili e complessità relazionale?

Nell’esemplificazione che riportavo poco sopra e quindi all’interno di una relazione duale e nel rapporto capo-collaboratore, penso sia importante, prima di tutto, riuscire a superare l’effetto prodotto da un (non) dialogo incentrato sul paragone, perché, come accennavo, l’esito di questa dinamica, probabilmente, sarà quello di far sentire il nostro interlocutore, prima ancora che non compreso, non ascoltato.

Dunque, per superare questo livello di impasse, credo sia importante compiere uno sforzo per cogliere, prima di tutto, il bisogno di chi ci sta parlando. Marshall B. Rosenberg[4], nella sua “teoria della comunicazione nonviolenta” spiega che i bisogni sono le risorse che la vita richiede per sostenersi e evidenzia come, tutti noi, abbiamo certamente bisogni fisiologici, ma anche il bisogno di ricevere comprensione, sostegno, onestà e significato.

Penso che, per comprendere i bisogni di chi ci sta di fronte, la prima leva che abbiamo a disposizione, sta nel riuscire a raffinare la nostra capacità di ascolto.

Riuscire ad ascoltare gli altri, sospendendo il giudizio e l’interpretazione del messaggio - a partire dal nostro punto di vista, dalle nostre convinzioni e appunto, dalle nostre esperienze, implica adoperarsi per cercare di capire cosa, l’altra persona, ci vuole realmente comunicare.

Mi rendo conto non sia facile e che sia un’abilità che richiede, una buona dose di consapevolezza e un’altrettanta buona dose di esercizio; ciò detto, condivido alcuni indirizzi che potrebbero rivelarsi utili. Nel suo libro “Arte di ascoltare e mondi possibili: come si esce dalle cornici di cui siamo parte”, Marianella Sclavi[5] parla di sette regole per mettere in atto un ascolto consapevole (e attivo). Sono queste:

1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più effimera della ricerca.

2. Quel che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista, devi cambiare punto di vista.

3. Se vuoi comprendere quello che l’altro ti sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere, cose ed eventi, dalla sua prospettiva.

4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali, se sai comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi. Il loro codice è relazionale e analogico.

5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui sono quelli che si presentano alla coscienza come, al tempo stesso, trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti, perché incongruenti con le proprie certezze.

6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione interpersonale. Affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un campo che lo appassiona e questo implica una gestione, anche creativa, dei conflitti.

7. Per divenire esperto nell’arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica. Ma quando hai imparato ad ascoltare, l’umorismo viene da sé.

L’invito di Marianella Sclavi che faccio mio è quindi quello di sforzarsi di uscire dalla c.d. “retorica del controllo” che ci lega a un punto di vista che è solo nostro, perché ha origine dalle nostre sole esperienze; così facendo, cediamo il passo ad un atteggiamento teso all’esplorazione del mondo di chi ci sta di fronte, per conoscerlo, comprenderlo, sostenerlo, guidarlo, tutelando e facendo crescere una relazione, di cui siamo, parte attiva, integrante, e spesso anche responsabili.

 

 

[1] Leon Festinger (New York, 8 maggio 1919 – New York, 11 febbraio 1989) è stato uno psicologo e sociologo statunitense - https://it.wikipedia.org/wiki/Leon_Festinger

[2] Il Complexity Institute è un’associazione di promozione sociale fondata nel 2010 il cui scopo è diffondere il pensiero complesso e l’etica nei comportamenti per aiutare le persone e le organizzazioni a comprendere meglio il contesto in cui vivono per esserne parte attiva e co-generatrice - https://www.complexityinstitute.it/

[3] Daniel Goleman (Stockton, 7 marzo 1946) è uno psicologo, scrittore e giornalista statunitense - https://it.wikipedia.org/wiki/Daniel_Goleman

[4] Marshall Bertram Rosenberg (Canton, 6 ottobre 1934 – Albuquerque, 7 febbraio 2015) è stato uno psicologo statunitense - https://it.wikipedia.org/wiki/Marshall_Rosenberg

[5] Marianella Pirzio Biroli Sclavi (Rimini, 1943) è un'etnografa, attivista e accademica italiana - https://it.wikipedia.org/wiki/Marianella_Sclavi