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Inutili monologhi

Jacques-Louis David, La morte di Seneca, 1773, Parigi, Petit-Palais
Jacques-Louis David, La morte di Seneca, 1773, Parigi, Petit-Palais

In questo periodo storico sta accadendo con una certa evidenza che le opinioni personali stiano diventando causa di un attrito insanabile e quel che mi colpisce di più è che amici di una vita spesso siano disposti a chiudere i rapporti in nome di una diversità di vedute. Ma come è possibile?

Se solo ci fermassimo a pensare e ipotizzassimo un mondo in cui fossimo tutti d’accordo su tutto, avremmo subito un moto di fastidio e allontaneremmo in fretta da noi questa idea. In una totale omogeneità di pensiero infatti ci sarebbe sempre qualcuno più intransigente dell’altro e forse la paradossale situazione ci appiattirebbe fino alla nausea o ci spronerebbe a una estrema ribellione.

Nonostante ciò, la diversità ci urta e un vero dialogo è ormai raro, a tratti impossibile. Il preconcetto è diventato il giudizio definitivo, la pazienza latita e a fatica si riesce ormai a rintuzzare il proprio disappunto di fronte a un’idea diversa dalla propria.

Vige quella visione che Anselmo Paleari ne “Il fu Mattia Pascal” definiva “lanterninosofia”: ognuno illumina con il suo lanternino un pezzo di mondo e tanto gli basta per dire di saperne, ma in realtà quello che non viene illuminato resta completamente ignoto.

A meno che non ci si incontri.

Nella mia fanciullezza ho vissuto un luogo in cui si dialogava e si litigava con amore, in cui si facevano carne le parole del poeta cantante brasiliano Vinicius de Moraesla vita è l’arte dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita”.

Una delle frasi più frequenti era: “Bussano, vai ad aprire!” E chi era ormai solito, non aspettava neppure, apriva la porta e salutava con un sorriso. Nella mia casa c’era spazio per tutti, ognuno portava la sua storia, si sedeva davanti a un caffè o a un buon piatto e si sentiva libero di parlare, di essere ascoltato, di ascoltare a sua volta.

Si intavolavano discussioni di qualunque tipo.

Quando il clima era sereno e quando era tempestoso, nessuno si scandalizzava di quella variegata normalità, a volte caotica, della mia famiglia; allo stesso tavolo si trovavano a condividere un pasto vescovi, atei, generali e soldati semplici. L’apporto di ciascuno diventava interessante e fondamentale, la libera argomentazione era bellissima: ognuno aveva da raccontare la sua e, ascoltando con avidità, facevo esperienza di altre storie, diverse dalla mia, e paragonavo tutto con me. A volte ero attratta da atteggiamenti e pensieri antitetici a quelli in cui ero cresciuta, nonostante intuissi, in modo ancora confuso, che fosse proprio la fede di mia mamma e mio papà a dare spazio alla diversità, grazie a un dialogo intelligente in cui si riconosceva all’altro il diritto di essere se stesso e di essere diverso. Così tanti pezzi di mondo venivano illuminati e offerti a chi era disposto ad affacciarsi nell’originalità dell’altro e, dopo quegli scontri, l’amicizia era ritemprata.