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Parresia

Instambul
Ph. Simona Balestra / Instambul

Virtù politica, diritto di libertà, esercizio di potere, virtù morale o artificio retorico: che cos’è la parresia?

Di etimologia greca, questa parola indica la libertà di dire tutto.

Sulla scia degli antichi greci dovremmo raccordare la parresia all’esercizio della democrazia, accostandola alla isegoria, cioè all’eguale diritto di parola di ciascuno. Se così è, la parresia ha a che fare con l’esercizio del potere nell’ambito del governo della polis: ma “potere” è un termine ambiguo e, per certi aspetti, inquietante perché, concettualmente, al potere fa sempre da contraltare una soggezione. E il linguaggio è, in effetti, il primo veicolo di dominio.

Che cosa è dunque la parresia?

Socrate ne fa una questione di vita o di morte. Come filosofo amico della verità, si sente obbligato moralmente a dirla e la sua verità sta nel negare le accuse, attaccando la tenuta logica del discorso dell’accusatore. Pagherà con la vita la sua parresia.

A partire dall’Antico testamento, la parresia attraversa il pensiero teologico dei padri della Chiesa fino a Giovanni Crisostomo, poi sembra rimanere nell’ombra.

Foucault la riscopre muovendo dall’analisi della tragedia greca e individua tre tipi di parresia: la parresia politica, cioè il dire il vero nell’esercizio del potere e del governo, la parresia giudiziaria, che è il valore della verità nell’amministrazione della giustizia, e, infine, la parresia morale, che richiede il confessare la colpa che grava sulla coscienza.

Ma torniamo al significato letterale del termine: se la parresia è la libertà di dire tutto, quali limiti incontra tale libertà? Quanta verità le persone sono capaci di sopportare? Quanta attenzione occorre avere nel parlare e nel tacere, anche a seconda dell’età o della vulnerabilità dell’interlocutore?

Indiscussa virtù morale, la parresia va coordinata con altre virtù: la temperanza, la prudenza, la forza, per restare alla classe delle virtù cardinali. Una verità violenta può essere distruttiva quanto la negazione o la copertura della verità, laddove queste ultime frustrino un diritto a conoscere il vero o un bisogno di riconoscimento. Lo sanno bene i mediatori dei conflitti. La verità è un crinale importante: più che scavalcarlo a volte è meglio percorrerlo. Talvolta la verità, più che essere accertata incontrovertibilmente, come accade nel processo, chiede di essere narrata in uno spazio protetto di ascolto e prende corpo dalla condivisione delle memorie, con il supporto di un mediatore, che incoraggia a parlare con rispetto e con parresia anche delle proprie emozioni.

Nelle relazioni di lavoro la parresia è una bussola, anche se la rotta che indica esige dei contemperamenti. Può accadere, infatti, che la parresia venga utilizzata come alibi per colpire, per ferire o per umiliare. Altre volte, quando c’è un’aspettativa di verità, i silenzi si rivelano pesanti, ambigui, generano sospetto e apprensione, attese e timori, tanto che sono a pieno titolo tra le componenti della cosiddetta comunicazione perversa.

La parresia è, in definitiva, un bene ma dovrebbe essere custodita e sostenuta da almeno due buoni consiglieri: il coraggio e la gentilezza. Occorre il coraggio della verità ma anche la gentilezza di saperla proporre. Occorre il coraggio di affrontare la sofferenza ma anche la gentilezza di saperla accogliere. Occorre il coraggio del silenzio ma anche la gentilezza di una parola di conforto.

Nei rapporti di lavoro, con il leader o tra colleghi, la parresia è fedele servitore della lealtà, comportamento morale unanimemente apprezzato in quanto generatore di affidamento, di confidenza e di fiducia.

Occorre dunque riscoprire il valore della parresia e metterlo in rapporto dialettico con altri valori morali affinché nessuno di essi diventi egemone, finendo con il comportarsi come un despota, e, per converso, ciascuno sia capace di operare nel rispetto e nel contemperamento di tutti gli altri.