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Bani

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In questi giorni sono stata coinvolta in un progetto formativo, di respiro pluriennale, che introduce e guida un percorso di riorganizzazione aziendale. È in contesto, questo, che ho vissuto di frequente; sia in prima persona, come lavoratrice, sia nel ruolo di formatrice. A ben vedere, i processi di riorganizzazione sono ormai talmente frequenti che penso sia un tema che, chi prima o dopo, chi più chi meno, abbia coinvolto o coinvolgerà tutti noi.

Altrettanto di frequente questi percorsi sono accompagnati, appunto, da azioni formative di sostegno al cambiamento. Progetti, questi, spesso volti a fornire set di nuove competenze (conoscenze e capacità), che potranno aiutare le persone ad agire i propri ruoli, nel migliore dei modi possibili, all’interno dei contesti riorganizzati.

Approcciare il cambiamento facendo leva su dimensioni di sviluppo professionale, dettate dall’approccio per competenze, è una strada possibile, ma non è l’unica percorribile.

Nel pensare a come avrei potuto impostare il mio intervento, mi è venuta in mente una performance di Maria Lai di qualche tempo fa: “Legarsi alla montagna” del 1981.

Ma direte voi: cosa c’entra questo con le riorganizzazioni e con il cambiamento organizzativo?!

 “Legarsi alla montagna” è considerata la prima opera internazionale di Arte Relazionale. Nell’Arte Relazionale, chi partecipa al progetto non è semplice spettatore, ma è anche e soprattutto, attore creativo e generativo dell’opera stessa; andando oltre l’osservazione, il partecipante è invitato, infatti, ad interagire con l’opera, attivando così un processo che guida la sua evoluzione e la realizzazione finale.

L’Arte Relazionale non si sofferma, dunque, sulle semplici leve hard che sostengono il cambiamento (nel caso di specie il nastro azzurro utilizzato dall’artista, non ha un senso in sé), ma fa leva, appunto, sulle dimensioni di processo che generano una nuova attribuzione di senso e significato attraverso l’interazione delle persone, fra di loro e con l’opera. Il risultato va quindi oltre l’elemento fisico (quello oggettivamente o più facilmente qualificabile), per riportare al centro dell’azione, la scoperta dell’altro e del legame che ne deriva.

In buona sostanza, nella sua opera, Maria Lai decise di legare insieme le case di Ulassai; di legarle l’una all’altra, e insieme, al Monte che sovrasta il Paese. Certo, un’azione fisica, ma che sottende un fortissimo valore simbolico del gesto stesso. Tanto forte che servì un anno e mezzo di trattative per fare sì che tutti gli abitanti di Ulassai accettassero di sentirsi fisicamente legati a persone con le quali esistevano rancori e inimicizie ormai radicate nel tempo. Il compromesso che raggiunse l’artista fu quello di integrare l’opera con un ulteriore elemento simbolico per cui, le famiglie in buoni rapporti, poterono aggiungere, al nastro che legava le loro case, un pezzo di pane decorato, per contro, le famiglie che in buoni rapporti non lo erano più da tempo, accettarono il nastro come traccia di un confine rispettoso delle parti[1].

Attraverso l’opera si riuscirono così a creare rinnovate relazioni tra i paesani, e Il nastro azzurro, rappresentò per il paese la speranza dell’andare avanti e oltre, sciogliendo così, i spesso futili conflitti, che segnavano da tempo queste stesse relazioni.

Per tornare dunque al punto di partenza, anche all’avvio di processi di cambiamento che ci riguardano in prima persona e quando possibile, preferisco partire da un punto di vista diverso, certamente più ampio, apparentemente indefinito. Un punto di vista che rappresenta il nastro azzurro che simbolicamente avvolge tutti noi ma che, nella creazione del senso e significato ci sostiene nel costruire nuove narrazioni che guardano al futuro, lasciandosi alle spalle un passato che non esiste più.

 Nei fatti, tutti noi, ogni giorno, siamo mossi dal bisogno di trovare un senso alla realtà che ci circonda.

La vera sfida è riuscire ad andare oltre la costruzione di senso che ciascuno di noi può fornire agli eventi; oltre quindi un senso dettato dalla propria esperienza e dal vissuto personale. Questo passaggio è importante in quanto, la realtà che ci circonda, non ha di per sé un senso intrinseco, bensì, il suo significato cambia in base al punto di osservazione. Guidare un cambiamento, implica quindi il riuscire a superare le direzioni potenzialmente disfunzionali che potrebbe prendere applicando modelli interpretativi soggettivi, per lo più recuperati dalle esperienze del passato.

Il clima e il benessere dell’organizzazione, e con essa delle persone che la animano, va sostenuto e progettato con cura. Per questo penso che, agire al livello della creazione e condivisione del senso e significato, rappresenti una fra le principali leve motivazionali, in quanto adatta a creare quel terreno di consapevolezza sul quale poi si innesterà il cambiamento. Contestualizzare il cambiamento aiuterà le persone a comprendere il rinnovato perimetro di azione all’interno del quale si collocherà il proprio contributo per sostenerne le rinnovate direzioni.

 

Attivare processi di “sensemaking” all’interno di processi di cambiamento organizzativo si colloca dunque in una dimensione più ampia e che va oltre la sfera soggettiva per includere la dimensione organizzativa nelle variabili (soft) mosse dai principi ispiratori e dai valori guida. In questo contesto, semplificando la definizione data da Karl Edward Weick[2], attivare processi di sensemaking, implica l’attenta organizzazione di dati e informazioni all’interno, appunto, di una cornice di senso che sia in grado di restituire così un perimetro di consapevolezza ai fatti e accadimenti che stanno avvenendo intorno a noi e che ci vedono coinvolti in prima persona. In questa direzione, lo sforzo da compiere, è quello di andare oltre le visioni personali e personalistiche per riportare al centro le ragioni stesse che muovono il cambiamento e i relativi impatti, attesi o auspicati.

 

Ciò premesso, all’interno delle organizzazioni, comprendere il senso di ciò che sta avvenendo intorno a noi e attribuirne un significato, contribuirà a renderci maggiormente consapevoli delle ragioni stesse del cambiamento e di come, all’interno di questo rinnovato contesto, si collocherà il nostro ruolo e il nostro contributo. Il valore di ciò che sappiamo fare e potremo fare per la “nuova organizzazione”.

Tenuto conto degli indirizzi forniti dallo stesso Karl Weick, le leve da attivare per sostenere un percorso di creazione di senso e significato sono fondamentalmente queste:

  • selezionare accuratamente dati e informazioni sapendole collocare all’interno del contesto di riferimento, politico, sociale e organizzativo;
  • attivare frame che colleghino passato e futuro, questo, per riuscire a superare l’alveo delle ipotesi soggettive e la nostra ovvia e naturale propensione a comprendere il vero senso delle cose solo a posteriori;
  • favorire percorsi di interazione sociale che accompagnino questo stesso percorso di cambiamento e sostengano la riprogrammazione graduale del significato che stiamo dando agli eventi intorno a noi;
  • sostenere la ricomposizione della propria identità professionale in modo coerente al proprio background e in relazione agli altri, restituendo così un quadro di coerenza.

 

Per riassumere, la costruzione di senso e significato è un processo organizzativo e sociale, continuativo e retrospettivo, che si basa su informazioni e dati che siano in grado di riposizionarci all’interno delle rinnovate attese dell’organizzazione. Un processo questo che occorre sia plausibile piuttosto che accurato; soprattutto nelle fasi iniziali, deve quindi prendere a riferimento il quadro completo, il contesto appunto, andando oltre i particolari. In questa direzione occorre quindi che, nelle fasi iniziali, il processo sia guidato, in modo consapevole, dal livello top-down; ciò affinché siano definiti e chiariti gli indirizzi comuni che, nel medio termine - vale a dire nella fase realizzativa del cambiamento - siano in grado di attivare e coinvolgere le persone in processi bottom-up che permettano al singolo individuo di mettere in gioco le competenze adatte a portare a compimento il percorso di cambiamento e innovazione. Ovviamente, in tutto ciò, un ruolo essenziale sarà quello esercitato dalle così dette “seconde linee”, ma ne parlerò più avanti.

 

Al momento mi vorrei infatti soffermare su un ulteriore elemento che reputo utile nella costruzione di senso e significato nelle organizzazioni. In questo, infatti, ci vengono in soccorso alcuni frame concettuali che in parte ho già utilizzato parlando di incertezza e introducendo il concetto di scenario VUCA[3].

Ho scoperto di recente l’interessante descrizione degli scenari BANI. Il concetto di VUCA, insieme a quello di BANI penso rappresentino utili chiavi di lettura per decodificare ciò che sta accadendo intorno a noi e prepararci così a riconoscere, affrontare e  gestire il cambiamento in modo, appunto, più consapevole.

 

Ma cos’è il BANI?

È un concetto - introdotto dall’antropologo, autore e futurista americano Jamais Cascio[4] - per descrivere i cambiamenti portati dalla pandemia ma che, per trasposizione, possiamo applicare anche ai contesti organizzativi in evoluzione.

In estrema sintesi, Jamais Cascio ritiene che gli scenari BANI siano caratteristici di contesti e situazioni in cui le condizioni non sono solo instabili, sono caotiche. In cui i risultati non sono semplicemente difficili da prevedere, sono completamente imprevedibili. Le situazioni che viviamo non sono semplicemente ambigue, più di frequente sono incomprensibili.

Detto ciò, anche BANI è un acronimo e significa:

B – Brittle: fragile, costruito su fondamenta fragili, cedevoli e facili rompere in modo, spesso, anche improvviso e imprevisto.

A – Anxious: ansioso, caratterizzato dalla paura di compiere scelte che potrebbero rivelarsi sbagliate e la premessa è che l’ansia, di per sé, potrebbe indurre all’inerzia e questo, proprio nel momento in cui è più alto il bisogno di scegliere e agire.

N – Nonlinear: non lineare, il presente è in forte discontinuità col passato, non si è pronti a decodificare causa ed effetto perché si tratta di eventi che ci prendono alla sprovvista. L’azione è concomitante al sopravvento di un fenomeno fino ad allora non noto e che non è quindi possibile affrontare e risolvere con routine già sperimentate. 

I – Incomprehensible: incomprensibile, perché impossibile da decodificare con i frame ereditati dal passato. Occorre quindi leggere il presente con rinnovati schemi concettuali, interpretativi e di azione.

Ciò premesso, quali strumenti abbiamo per agire all’interno di questi scenari e nella loro complessità?

Probabilmente le leve sono più di una, fra tutte, penso che il modello delle quattro intelligenze relazionali definito dal Complexity Institutes[5] possa fornirci gli strumenti adatti per un utile indirizzo dei nostri comportamenti; ciò in quanto tutti noi possediamo queste intelligenze che, se conosciute e agite in modo consapevole, possono sostenerci nel definire azioni efficaci nel cambiamento.

Secondo le parole di Marinella De Simone e Dario Simoncini – rispettivamente, Presidente e Vice Presidente del Complexity Institutes – “La capacità di relazionarci nel mondo è la più importante e potente forma di intelligenza che abbiamo a disposizione: essere intelligenti vuol dire saper leggere tra le persone, tra gli eventi e tra le cose, con lo scopo di comprendere il contesto e le sue adiacenze; formare, raccogliere ed elaborare idee ed informazioni, riguardo a qualcuno e a qualcosa in relazione”.

All’interno delle organizzazioni, è importante che chi esercita ruoli direzionali (le c.d. prime linee) e gestionali (le seconde linee), sappiano riconoscere e favoriscano, per sé stessi e nei propri collaboratori un’attivazione, consapevole e finalizzata, di queste stesse intelligenze e correlate competenze. Dunque, al pari dei concetti espressi poco sopra, anche il punto di vista del Complexity Institutes si colloca in una dimensione forse molto ampia e che va certamente oltre il suggerire la trasposizione di facili modelli organizzativi o dal trasferire indirizzi sul corretto esercizio dei ruoli per competenze; questo in quanto, quegli stessi modelli, ruoli e set di competenze, probabilmente efficaci in un dato momento, oggi potrebbero non esserlo più efficaci, semplicemente perché quel tempo e quel contesto, probabilmente non esistono più o non ci appartengono più.

Difatti, la premessa al modello esplicita chiaramente che “non esiste una ricetta né un catalogo dei principi da mettere in pratica per essere un management intelligente. Nelle relazioni, infatti, non esiste un modo di agire più intelligente di un altro; esiste, invece, un modo di agire più coerente di un altro nell’attivare le intelligenze relazionali a seconda della situazione e del contesto”.

E dunque, quali sono le quattro intelligenze relazionali che tutti noi potremmo mettere in campo, per comprendere e gestire gli attuali contesti BANI, contesti dove il senso e significato che governa il nostro agire è rimesso totalmente in discussione?

Innanzitutto il modello del Complexity Institutes distingue fra intelligenze relazionali, rispettivamente, interpersonali e eco-sistemiche

Le intelligenze interpersonali sono quella emotiva, che pone il focus sulla relazione della persona con l’altro, e quella sociale, che pone il focus sulla relazione della persona nei gruppi; entrambe vanno attivate in base alla situazione, perché è solo nella loro fluida combinazione che la persona può esprimere pienamente le proprie capacità nel relazionarsi ad altri.

Le intelligenze eco-sistemiche sono invece di tipo percettivo e collettivo. L’intelligenza percettiva, si focalizza sulla lettura del contesto, delle situazioni e delle dinamiche che animano questo stesso contesto e per come si presentano nello spazio fisico che abitiamo. La seconda, vale a dire l’intelligenza collettiva, sposta l’accento sul tempo, sull’evoluzione del contesto e delle situazioni nel tempo. In buona sostanza, queste ultime due intelligenze, integrano le dimensioni spazio-temporale e contribuiscono a ridisegnare i nostri schemi di riferimento e poter così immaginare l’evoluzione stessa delle dinamiche che stiamo vivendo.

Come ci spiegano Marinella De Simone e Dario Simoncini “qualsiasi azione assume un significato relazionale, al di là del suo contenuto tecnico e operativo, sulla base dei comportamenti di tutte le parti coinvolte nella relazione stessa. Dunque, a seconda della loro coerenza e del loro allineamento, il confronto fra modelli relazionali darà vita a rapporti più o meno conflittuali o creativi tra le persone e tra i gruppi sociali”

Tutto ciò premesso, so bene quanto sia difficile navigare le acque del cambiamento. Per questo tengo a precisare che, come riportavo nell’articolo citato poco sopra, occorre prima di tutto avere fiducia nel fatto che nei nostri contesti professionali, anche quando riorganizzati, mai si tratterà di inventare attività totalmente nuove o di esercitare abilità che non ci appartengono, ma piuttosto ci sarà richiesto di re-interpretare scenari diversi, verosimilmente, anche mai sperimentati prima d’ora; contesti rinnovati nei quali potremo ricollocare, in una nuova veste, le competenze, il dominio di conoscenze e abilità, che ci appartengono e che hanno guidato la nostra azione fino ad oggi.

Infine, ancorandomi ad un principio di realtà, concludo con una trasposizione e ricordando le tre possibilità di scelta definite da Hirschman[6]: Loyalty, Voice ed Exit. All’interno di un quadro di senso e significato, nella cornice tracciata dal nastro azzurro che definisce il nostro rinnovato perimetro di azione, lo spazio per scegliere dunque ci sarà sempre (ma di questo ne parleremo in una prossima occasione …).