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Costituzione nell’opposizione a decreto ingiuntivo: ubi ius ibi remedium?

Nota a Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili, Sentenza 9 settembre 2010, n.19246
Breve nota a commento della recente pronuncia delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione inerente ai termini di costituzione dell’opponente a decreto ingiuntivo ex art. 645, comma 2, c.p.c.

Uno dei fondamentali principi consacrati dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948 è contemplato dall’art. 8, il quale espressamente prevede che “ogni individuo ha diritto ad un’effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali nazionali contro atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti dalla costituzione o dalla legge”.

Tale canone, riassunto nel principio di common law secondo cui “there is no right without an effective remedy”, è stato recepito dall’art. 13 C.E.D.U., il quale statuisce che “ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone agenti nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”.

L’effettività della guarentigia giurisdizionale rappresenta dunque un prius di tutela che antecede ed indirizza, conformandola, la disciplina positiva; del resto, già gli antichi giuristi romani ammonivano che ubi ius ibi remedium, ovverosia che il diritto sostanziale non può non accompagnarsi ad una tutela di carattere omogeneo.

Com’è ovvio, l’esperimento del rimedio processuale è soggetto alle prescrizioni volte a disciplinare l’esercizio dell’azione giurisdizionale, in particolar modo sotto il profilo della stretta osservanza dei termini che, per espressa previsione di legge o per la funzione che gli stessi sono destinati ad assolvere, siano qualificati come perentori.

In particolare, la giurisprudenza costituzionale e di legittimità hanno chiarito che il carattere perentorio di un termine non deve necessariamente risultare in forma esplicita dalla disposizione normativa, potendosi desumere dalla funzione, ricavabile con chiarezza dal testo della legge, che il termine è chiamato a svolgere (Corte Cost., ord. 107/2003; Cass. Civ., SS.UU., 1111/1994).

Secondo la pronuncia in commento, è meritevole di conferma l’orientamento costante della Suprema Corte, al cui avviso il termine di costituzione per l’opponente a decreto ingiuntivo è “automaticamente” ridotto a cinque giorni dalla notificazione dell’atto di citazione in opposizione allorquando sia stato indicato un termine di comparizione inferiore a quello ordinario.

Com’è noto, le conseguenze di tale impostazione interpretativa sono particolarmente gravose per l’opponente, poiché è altrettanto consolidato l’orientamento giurisprudenziale che sancisce l’equiparazione tra mancata costituzione e tardiva costituzione, con susseguente ed inevitabile improcedibilità dell’opposizione al titolo monitorio (su tutte, Cass. Civ. 849/2000).

Non è un caso, dunque, che sia in dottrina sia in giurisprudenza siano stati più volte prospettati notevoli aspetti di criticità dell’esegesi offerta dai giudici del Palazzaccio, poiché, in estrema sintesi, da un lato, la disposizione codicistica enucleata nell’art. 645, comma 2, c.p.c. non riconosce alcuna facoltà di dimidiazione dei termini di comparizione a favore dell’opponente, ma predispone un apposito dimezzamento ex lege di siffatti termini (“In seguito all’opposizione il giudizio si svolge secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito; ma i termini di comparizione sono ridotti a metà”); dall’altro, per quel che più interessa in questa analisi, la medesima previsione del codice di rito non statuisce alcunché in ordine alla (presunta) dimidiazione dei termini di costituzione a carico dell’opponente.

E’ da segnalare che l’ordinanza 26998/2008 adottata dalla I Sez. Civ. della Cassazione (con cui è stata rimessa la vexata quaestio alle Sezioni Unite) definisce, senza mezzi termini, contraria alla lettera dell’art. 645, comma 2, c.p.c. la costante interpretazione della Suprema Corte, la quale, pur in assenza di una espressa prescrizione relativa al dimezzamento dei termini di costituzione, rileva che la stessa si poggerebbe sulla (sempre presunta) esistenza di un principio di adeguamento dei termini di costituzione a quelli di comparizione, il quale, a sua volta, scaturirebbe dalla disciplina normativa di cui agli artt. 163-bis e 165 c.p.c.

Tuttavia, com’è noto, le predette disposizioni codicistiche sanciscono la dimidiazione dei termini di costituzione solo ed esclusivamente quale conseguenza dell’abbreviazione dei termini di comparizione per effetto di un provvedimento giurisdizionale che, nella ricorrenza dei presupposti indicati dall’art. 163-bis c.p.c., abbia disposto, su istanza dell’attore, la riduzione sino alla meta (e dunque non necessariamente un dimezzamento) del termine di comparizione.

Invece, come già visto, l’art. 645, comma 2, c.p.c. dispone in via generale la riduzione dei soli termini di comparizione e nulla dispone in ordine alla (sempre e solo presunta) dimidiazione dei termini di costituzione.

Sul punto, la pronuncia in esame riconosce esplicitamente che siffatta disposizione normativa, introdotta dal D.P.R. 857/1950, sia stata coniata in ragione dell’allora sopravvenuto sistema della citazione ad udienza fissa; tuttavia, si sottolinea che “non esiste, peraltro, nessuna ragione oggettiva che giustifichi l’opposta opinione che reputa che il silenzio del Legislatore in ordine alla disciplina dei termini di costituzione, a fronte della espressa previsione contenuta nella disciplina previgente, sia significativo della volontà di cambiare la regola, espressamente affermata dall’art. 165 c.p.c., comma 1, che stabilisce un legame tra termini di comparizione e termini di costituzione, al fine di rendere coerente il sistema nei procedimenti che esigono pronta trattazione. Ne deriva che tale regola, non può certo ritenersi di natura eccezionale o derogatoria, ma espressione di un principio generale di razionalità e coerenza con la conseguenza che l’espresso richiamo nell’art. 645 di tale principio sarebbe stata del tutto superflua”.

Delle due l’una: o la Suprema Corte ha clamorosamente errato nell’individuazione della base normativa a supporto della succitata esegesi, oppure tra i criteri interpretativi della voluntas legis occorrerebbe annoverare anche le disposizioni normative abrogate e quindi eliminate dalle fonti del diritto (nel caso di specie, la disciplina previgente al sistema di citazione ad udienza fissa introdotto, come appena visto, dalla novella del 1950).

Invece, ad avviso di autorevole dottrina, l’evidente silenzio del Legislatore sui termini di costituzione non può che essere interpretato come tale, ovverosia come rinvio all’applicazione della disciplina ordinaria prevista dall’art. 165 c.p.c. (termine di costituzione pari a 10 giorni).

Invero, come è stato appositamente specificato, contrariamente al consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità (recepito piuttosto acriticamente nella pronuncia in esame), gli stessi lavori preparatori alla stesura del D.P.R. 857/1950 non offrono indicazioni nel senso indicato dalla Suprema Corte, poiché la relazione ministeriale afferma che “si introduce una lieve modificazione del secondo comma dell’art. 645 del codice, come necessaria conseguenza della citazione ad udienza fissa” ; tant’è che pochi anni dopo il Bianchi d’Espinosa ammoniva che siffatta relazione non contiene “alcun chiarimento circa la portata della modificazione ed i riflessi di essa sul termine di costituzione” .

Né appare conferente il richiamo ad una (sempre ed esclusivamente presunta) regola generale ricavabile dagli artt. 163-bis e 165 c.p.c., in cui, come appena visto, l’abbreviazione (e non il dimezzamento tout court) dei termini di comparizione e la dimidiazione dei termini di costituzione non operano ipso iure, bensì per effetto di un provvedimento giurisdizionale (palesemente discrezionale), i cui presupposti di legittimità sono ancorati ad una valutazione di sussistenza delle esigenze di pronta spedizione da recepire in un apposito decreto motivato.

Pertanto, gli ambiti applicativi degli artt. 163-bis e 165 c.p.c. sono totalmente diversi da quelli contemplati dall’art. 645, comma 2, c.p.c. e, di conseguenza, se è vero che, come afferma la pronuncia in commento, è identica la funzione di accelerazione della durata del giudizio in ragione dell’abbreviazione dei termini di comparizione, è altrettanto vero che totalmente differenti risultano essere le relative modalità di realizzazione (nel primo caso, come visto, occorre un provvedimento dell’autorità giurisdizionale cui segue la dimidiazione dei termini di costituzione; nel secondo caso, invece, stante l’“assordante” silenzio del Legislatore, la predetta funzione acceleratoria è assicurata dal possibile dimezzamento dei termini di comparizione con contestuale applicazione della disciplina ordinaria in ordine ai termini di costituzione: qui tacet neque negat neque utique fatetur).

Ma, soprattutto, la sussistenza di un’ipotetica dimidiazione dei termini di costituzione non può certo ricavarsi dalla funzione assolta dalla disciplina normativa di cui all’art. 645, comma 2, c.p.c. poiché la lettera della legge è univoca e chiara nel riconoscere che l’accelerazione del giudizio è assicurata dal dimezzamento (sia pure ex lege) dei soli termini di comparizione.

A contrario, dovrebbe ritenersi che il grave ed irrimediabile effetto preclusivo a carico dell’opponente (improcedibilità dell’azione) discenderebbe dal combinato disposto di cui agli artt. 163-bis e 165 c.p.c. che, lungi dal configurarsi quale regola iuris di carattere generale, necessita, come visto, di presupposti e derivazioni applicative completamente diversi dalla disciplina espressamente predisposta dall’art. 645 c.p.c.

In altri termini, non è rinvenibile in alcun modo un’obiettiva volontà del Legislatore derogante in modo chiaro ed univoco alla regolamentazione ordinaria apprestata dal codice di rito in ordine ai termini di costituzione dell’attore (formale).

A tal punto, si potrebbe rilevare, adottando l’espressione contenuta nell’ordinanza n° 18/2008 della Corte Costituzionale, “una compromissione dell’euritmia dell’ordinamento positivo”, ma è a tutti evidente che la relativa definizione “non può che essere rimessa all’opera del Legislatore” e non certo ad un’attività nomopoietica dell’autorità giurisdizionale, la quale, oltretutto, propugna un asserito bilanciamento degli interessi delle parti in conflitto con evidente svantaggio dell’opponente che, in difetto di una espressa previsione normativa, subisce una falcidiazione dei termini di costituzione.

Di sicuro, è a dir poco inammissibile che un’ipotetica regolamentazione speciale dei termini di costituzione sia applicata nel silenzio della legge, poiché, nonostante il contrario avviso della decisione in commento, la relativa previsione positiva non può essere in alcun modo valutata “del tutto superflua”, allorché si considerino gli effetti nefasti in tema di utilità e proficuità dell’esperimento del rimedio giurisdizionale.

Inoltre, risulta ancora insoluto il quesito promosso dalla succitata ordinanza 26998/2008 della I Sez. della Corte di Cassazione, la quale, esattamente, rileva che se è vero che la ratio della riduzione dei termini di comparizione è quella di accelerare la definizione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, allora “non può non rilevarsi che a detta finalità risulta non utilmente riconducibile la riduzione alla metà dei termini di costituzione, posto che il termine di costituzione del creditore opposto decorre non già dalla costituzione dell’opponente, ma dalla data della udienza di comparizione (art. 166 c.p.c.)”.

Oltretutto, non appare condivisibile la considerazione conclusiva della pronuncia in esame, la quale asserisce che “la diversa ampiezza dei termini di costituzione dell’opponente rispetto a quelli dell’opposto non appare irragionevole posto che la costituzione del primo è successiva alla elaborazione della linea difensiva che si è già tradotta nell’atto di opposizione rispetto al quale la costituzione in giudizio non richiede che il compimento di una semplice attività materiale”.

Si tratta, com’è evidente, di una petizione di principio la cui direttrice di pensiero potrebbe condurre perfino ad una negazione della necessità di previsione dei termini di costituzione, poiché si potrebbe coerentemente ammettere che gli stessi termini ineriscono ad un’attività processuale connotata da mera materialità e priva, in quanto tale, di qualsivoglia profilo di problematicità e criticità a carico della parte onerata.

In definitiva, emerge l’assoluta incongruenza ed il totale appiattimento critico del dictum della Suprema Corte, che finisce irragionevolmente con il minare l’effettiva e proficua possibilità di accesso alla tutela giurisdizionale.

Breve nota a commento della recente pronuncia delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione inerente ai termini di costituzione dell’opponente a decreto ingiuntivo ex art. 645, comma 2, c.p.c.

Uno dei fondamentali principi consacrati dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948 è contemplato dall’art. 8, il quale espressamente prevede che “ogni individuo ha diritto ad un’effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali nazionali contro atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti dalla costituzione o dalla legge”.

Tale canone, riassunto nel principio di common law secondo cui “there is no right without an effective remedy”, è stato recepito dall’art. 13 C.E.D.U., il quale statuisce che “ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone agenti nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”.

L’effettività della guarentigia giurisdizionale rappresenta dunque un prius di tutela che antecede ed indirizza, conformandola, la disciplina positiva; del resto, già gli antichi giuristi romani ammonivano che ubi ius ibi remedium, ovverosia che il diritto sostanziale non può non accompagnarsi ad una tutela di carattere omogeneo.

Com’è ovvio, l’esperimento del rimedio processuale è soggetto alle prescrizioni volte a disciplinare l’esercizio dell’azione giurisdizionale, in particolar modo sotto il profilo della stretta osservanza dei termini che, per espressa previsione di legge o per la funzione che gli stessi sono destinati ad assolvere, siano qualificati come perentori.

In particolare, la giurisprudenza costituzionale e di legittimità hanno chiarito che il carattere perentorio di un termine non deve necessariamente risultare in forma esplicita dalla disposizione normativa, potendosi desumere dalla funzione, ricavabile con chiarezza dal testo della legge, che il termine è chiamato a svolgere (Corte Cost., ord. 107/2003; Cass. Civ., SS.UU., 1111/1994).

Secondo la pronuncia in commento, è meritevole di conferma l’orientamento costante della Suprema Corte, al cui avviso il termine di costituzione per l’opponente a decreto ingiuntivo è “automaticamente” ridotto a cinque giorni dalla notificazione dell’atto di citazione in opposizione allorquando sia stato indicato un termine di comparizione inferiore a quello ordinario.

Com’è noto, le conseguenze di tale impostazione interpretativa sono particolarmente gravose per l’opponente, poiché è altrettanto consolidato l’orientamento giurisprudenziale che sancisce l’equiparazione tra mancata costituzione e tardiva costituzione, con susseguente ed inevitabile improcedibilità dell’opposizione al titolo monitorio (su tutte, Cass. Civ. 849/2000).

Non è un caso, dunque, che sia in dottrina sia in giurisprudenza siano stati più volte prospettati notevoli aspetti di criticità dell’esegesi offerta dai giudici del Palazzaccio, poiché, in estrema sintesi, da un lato, la disposizione codicistica enucleata nell’art. 645, comma 2, c.p.c. non riconosce alcuna facoltà di dimidiazione dei termini di comparizione a favore dell’opponente, ma predispone un apposito dimezzamento ex lege di siffatti termini (“In seguito all’opposizione il giudizio si svolge secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito; ma i termini di comparizione sono ridotti a metà”); dall’altro, per quel che più interessa in questa analisi, la medesima previsione del codice di rito non statuisce alcunché in ordine alla (presunta) dimidiazione dei termini di costituzione a carico dell’opponente.

E’ da segnalare che l’ordinanza 26998/2008 adottata dalla I Sez. Civ. della Cassazione (con cui è stata rimessa la vexata quaestio alle Sezioni Unite) definisce, senza mezzi termini, contraria alla lettera dell’art. 645, comma 2, c.p.c. la costante interpretazione della Suprema Corte, la quale, pur in assenza di una espressa prescrizione relativa al dimezzamento dei termini di costituzione, rileva che la stessa si poggerebbe sulla (sempre presunta) esistenza di un principio di adeguamento dei termini di costituzione a quelli di comparizione, il quale, a sua volta, scaturirebbe dalla disciplina normativa di cui agli artt. 163-bis e 165 c.p.c.

Tuttavia, com’è noto, le predette disposizioni codicistiche sanciscono la dimidiazione dei termini di costituzione solo ed esclusivamente quale conseguenza dell’abbreviazione dei termini di comparizione per effetto di un provvedimento giurisdizionale che, nella ricorrenza dei presupposti indicati dall’art. 163-bis c.p.c., abbia disposto, su istanza dell’attore, la riduzione sino alla meta (e dunque non necessariamente un dimezzamento) del termine di comparizione.

Invece, come già visto, l’art. 645, comma 2, c.p.c. dispone in via generale la riduzione dei soli termini di comparizione e nulla dispone in ordine alla (sempre e solo presunta) dimidiazione dei termini di costituzione.

Sul punto, la pronuncia in esame riconosce esplicitamente che siffatta disposizione normativa, introdotta dal D.P.R. 857/1950, sia stata coniata in ragione dell’allora sopravvenuto sistema della citazione ad udienza fissa; tuttavia, si sottolinea che “non esiste, peraltro, nessuna ragione oggettiva che giustifichi l’opposta opinione che reputa che il silenzio del Legislatore in ordine alla disciplina dei termini di costituzione, a fronte della espressa previsione contenuta nella disciplina previgente, sia significativo della volontà di cambiare la regola, espressamente affermata dall’art. 165 c.p.c., comma 1, che stabilisce un legame tra termini di comparizione e termini di costituzione, al fine di rendere coerente il sistema nei procedimenti che esigono pronta trattazione. Ne deriva che tale regola, non può certo ritenersi di natura eccezionale o derogatoria, ma espressione di un principio generale di razionalità e coerenza con la conseguenza che l’espresso richiamo nell’art. 645 di tale principio sarebbe stata del tutto superflua”.

Delle due l’una: o la Suprema Corte ha clamorosamente errato nell’individuazione della base normativa a supporto della succitata esegesi, oppure tra i criteri interpretativi della voluntas legis occorrerebbe annoverare anche le disposizioni normative abrogate e quindi eliminate dalle fonti del diritto (nel caso di specie, la disciplina previgente al sistema di citazione ad udienza fissa introdotto, come appena visto, dalla novella del 1950).

Invece, ad avviso di autorevole dottrina, l’evidente silenzio del Legislatore sui termini di costituzione non può che essere interpretato come tale, ovverosia come rinvio all’applicazione della disciplina ordinaria prevista dall’art. 165 c.p.c. (termine di costituzione pari a 10 giorni).

Invero, come è stato appositamente specificato, contrariamente al consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità (recepito piuttosto acriticamente nella pronuncia in esame), gli stessi lavori preparatori alla stesura del D.P.R. 857/1950 non offrono indicazioni nel senso indicato dalla Suprema Corte, poiché la relazione ministeriale afferma che “si introduce una lieve modificazione del secondo comma dell’art. 645 del codice, come necessaria conseguenza della citazione ad udienza fissa” ; tant’è che pochi anni dopo il Bianchi d’Espinosa ammoniva che siffatta relazione non contiene “alcun chiarimento circa la portata della modificazione ed i riflessi di essa sul termine di costituzione” .

Né appare conferente il richiamo ad una (sempre ed esclusivamente presunta) regola generale ricavabile dagli artt. 163-bis e 165 c.p.c., in cui, come appena visto, l’abbreviazione (e non il dimezzamento tout court) dei termini di comparizione e la dimidiazione dei termini di costituzione non operano ipso iure, bensì per effetto di un provvedimento giurisdizionale (palesemente discrezionale), i cui presupposti di legittimità sono ancorati ad una valutazione di sussistenza delle esigenze di pronta spedizione da recepire in un apposito decreto motivato.

Pertanto, gli ambiti applicativi degli artt. 163-bis e 165 c.p.c. sono totalmente diversi da quelli contemplati dall’art. 645, comma 2, c.p.c. e, di conseguenza, se è vero che, come afferma la pronuncia in commento, è identica la funzione di accelerazione della durata del giudizio in ragione dell’abbreviazione dei termini di comparizione, è altrettanto vero che totalmente differenti risultano essere le relative modalità di realizzazione (nel primo caso, come visto, occorre un provvedimento dell’autorità giurisdizionale cui segue la dimidiazione dei termini di costituzione; nel secondo caso, invece, stante l’“assordante” silenzio del Legislatore, la predetta funzione acceleratoria è assicurata dal possibile dimezzamento dei termini di comparizione con contestuale applicazione della disciplina ordinaria in ordine ai termini di costituzione: qui tacet neque negat neque utique fatetur).

Ma, soprattutto, la sussistenza di un’ipotetica dimidiazione dei termini di costituzione non può certo ricavarsi dalla funzione assolta dalla disciplina normativa di cui all’art. 645, comma 2, c.p.c. poiché la lettera della legge è univoca e chiara nel riconoscere che l’accelerazione del giudizio è assicurata dal dimezzamento (sia pure ex lege) dei soli termini di comparizione.

A contrario, dovrebbe ritenersi che il grave ed irrimediabile effetto preclusivo a carico dell’opponente (improcedibilità dell’azione) discenderebbe dal combinato disposto di cui agli artt. 163-bis e 165 c.p.c. che, lungi dal configurarsi quale regola iuris di carattere generale, necessita, come visto, di presupposti e derivazioni applicative completamente diversi dalla disciplina espressamente predisposta dall’art. 645 c.p.c.

In altri termini, non è rinvenibile in alcun modo un’obiettiva volontà del Legislatore derogante in modo chiaro ed univoco alla regolamentazione ordinaria apprestata dal codice di rito in ordine ai termini di costituzione dell’attore (formale).

A tal punto, si potrebbe rilevare, adottando l’espressione contenuta nell’ordinanza n° 18/2008 della Corte Costituzionale, “una compromissione dell’euritmia dell’ordinamento positivo”, ma è a tutti evidente che la relativa definizione “non può che essere rimessa all’opera del Legislatore” e non certo ad un’attività nomopoietica dell’autorità giurisdizionale, la quale, oltretutto, propugna un asserito bilanciamento degli interessi delle parti in conflitto con evidente svantaggio dell’opponente che, in difetto di una espressa previsione normativa, subisce una falcidiazione dei termini di costituzione.

Di sicuro, è a dir poco inammissibile che un’ipotetica regolamentazione speciale dei termini di costituzione sia applicata nel silenzio della legge, poiché, nonostante il contrario avviso della decisione in commento, la relativa previsione positiva non può essere in alcun modo valutata “del tutto superflua”, allorché si considerino gli effetti nefasti in tema di utilità e proficuità dell’esperimento del rimedio giurisdizionale.

Inoltre, risulta ancora insoluto il quesito promosso dalla succitata ordinanza 26998/2008 della I Sez. della Corte di Cassazione, la quale, esattamente, rileva che se è vero che la ratio della riduzione dei termini di comparizione è quella di accelerare la definizione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, allora “non può non rilevarsi che a detta finalità risulta non utilmente riconducibile la riduzione alla metà dei termini di costituzione, posto che il termine di costituzione del creditore opposto decorre non già dalla costituzione dell’opponente, ma dalla data della udienza di comparizione (art. 166 c.p.c.)”.

Oltretutto, non appare condivisibile la considerazione conclusiva della pronuncia in esame, la quale asserisce che “la diversa ampiezza dei termini di costituzione dell’opponente rispetto a quelli dell’opposto non appare irragionevole posto che la costituzione del primo è successiva alla elaborazione della linea difensiva che si è già tradotta nell’atto di opposizione rispetto al quale la costituzione in giudizio non richiede che il compimento di una semplice attività materiale”.

Si tratta, com’è evidente, di una petizione di principio la cui direttrice di pensiero potrebbe condurre perfino ad una negazione della necessità di previsione dei termini di costituzione, poiché si potrebbe coerentemente ammettere che gli stessi termini ineriscono ad un’attività processuale connotata da mera materialità e priva, in quanto tale, di qualsivoglia profilo di problematicità e criticità a carico della parte onerata.

In definitiva, emerge l’assoluta incongruenza ed il totale appiattimento critico del dictum della Suprema Corte, che finisce irragionevolmente con il minare l’effettiva e proficua possibilità di accesso alla tutela giurisdizionale.