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L’obbligo di interpretazione conforme alle norme di diritto comunitario: un dovere ancora in gestazione?

Nota a commento di i una sentenza in materia di impugnativa di un cd. intervento infrastrutturale pubblico (Cons. Stato n.4829/2009)
Secondo la pronuncia in commento, il procedimento di Valutazione Ambientale Strategica (cd. V.A.S.), alla stregua di quanto previsto dalla Direttiva 42/2001/CE del 27.06.2001, non trova immediata applicazione nell’ordinamento interno poiché, malgrado il decorso del termine previsto (21.07.2004), il Legislatore statale non ha ancora provveduto all’attuazione della medesima direttiva.

Inoltre, il procedimento di Valutazione di Impatto Ambientale (cd. V.I.A.), così come disciplinato dal D.P.R. del 12.04.1996 (vigente ratione temporis nel caso in esame), adottato ai sensi dell’art. 40, comma 1, L. 146/1994 in attuazione dell’Allegato II della Direttiva del Consiglio 85/337/CEE, può trovare applicazione in esclusivo riferimento alle opere dallo stesso contemplate, con esclusione pertanto delle categorie di interventi non previste dal medesimo decreto.

La vicenda

La fattispecie storica sussunta nella decisione in commento è caratterizzata dall’impugnativa promossa da un imprenditore esercente un’attività di distribuzione carburanti nei confronti di un permesso di costruire nonché di atti presupponenti di un progetto definitivo di un’opera pubblica di notevoli dimensioni, indicata come “intervento infrastrutturale pubblico”, assolvente la funzione di vero e proprio “piano di ambito” e contemplante la realizzazione di un parco commerciale destinato alla grande distribuzione.

In particolare, tale progetto ha previsto l’esproprio di parte del suolo di proprietà del ricorrente nonché la realizzazione di un nuovo impianto di distribuzione carburanti, il quale, com’è facilmente intuibile, è inevitabilmente destinato a ledere gli interessi “commerciali” vantati dall’imprenditore ricorrente.

Il T.A.R. campano, quale Giudice di prime cure, ha rigettato il gravame sollevato dal ricorrente, respingendo, per quanto qui interessa, le censure mosse in riferimento alla violazione della Direttiva 42/2001/CE del 27.06.2001 (disciplinante la procedura di V.A.S.) nonché del D.P.R. del 12.04.1996 (regolante il procedimento di V.I.A. in attuazione dell’Allegato II della Direttiva del Consiglio 85/337/CEE), malgrado i provvedimenti impugnati in giudizio non abbiano previsto l’esperimento di siffatte procedure o quantomeno la cd. verifica ad assoggettabilità degli interventi assentiti.

In seguito alla proposizione del ricorso in appello, il Consiglio di Stato ha confermato le statuizioni gravate rilevando che “in merito alla V.A.S., non è condivisibile la ricostruzione dell’appellante in merito alla diretta applicabilità della direttiva 42/01/CE, atteso che nello stesso testo normativo europeo si prevede un rinvio alle disposizioni nazionali, sia per la delimitazione dell’ambito (art. 3), sia per le necessarie integrazioni procedurali (art. 4), sia infine per l’espresso ordine di adempimento agli Stati membri di conformarsi alla direttiva (art.13). In merito alla V.I.A., va invece evidenziato come il progetto di realizzazione del centro commerciale in questione non appaia tra le opere contemplate dal D.P.R. 12 aprile 1996 ed in particolare, non rientra nelle categorie indicate dall’appellante (quelle dell’allegato “B”, art. 7, punti a-b)”.

I fondamenti normativi e l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza costituzionale ed amministrativa

I) Sulla V.A.S.

Occorre rammentare che la procedura di V.A.S. prevista dalla Direttiva 42/2001/CE del 27.06.2001 (“Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente”) è volta a garantire che gli effetti dell’attuazione di piani e programmi urbanistici siano ponderati durante l’elaborazione e prima dell’adozione degli stessi, così da anticipare, in sede di pianificazione o programmazione, la valutazione di compatibilità ambientale.

Invero, come ha spiegato sul punto la giurisprudenza amministrativa, qualora tale valutazione di compatibilità ambientale viene effettuata sulle singole realizzazioni progettuali (come avviene per la V.I.A.), la medesima procedura “non consente di compiere una effettiva valutazione comparativa, mancando in concreto la possibilità di disporre di soluzioni alternative per la localizzazione degli insediamenti e, in generale, per stabilire, nella prospettiva dello sviluppo sostenibile, le utilizzazioni del territorio” (cfr. T.A.R. Umbria, 19.06.2006, n° 325).

E’ pacifico che siffatta procedura, così come disciplinata dalla Direttiva 2001/42/CE, attiene alla materia «tutela dell’ambiente», in merito alla quale sussistono specifiche competenze attribuite alle Regioni. Difatti, come precisato dall’orientamento ermeneutico assunto dalla Corte Costituzionale, la peculiarità della materia in esame, caratterizzata dalla sua intrinseca “trasversalità”, determina che, “in ordine alla stessa, si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale” (Corte Costituzionale, 26.07.2002, n° 407); pertanto, “la competenza esclusiva dello Stato non è incompatibile con interventi specifici del legislatore regionale che si attengano alle proprie competenze” (Corte Costituzionale, 22.07.2004, n° 259).

Sul punto, è stato appositamente notato che “la “trasversalità” della materia «tutela dell’ambiente» emerge, con particolare evidenza, con riguardo alla valutazione ambientale strategica, che abbraccia anche settori di sicura competenza regionale” (Corte Costituzionale, 01.12.2006, n° 398).

Tant’è vero che, in riferimento alla Regione Campania, il Legislatore regionale ha appositamente attuato le disposizioni di cui alla richiamata direttiva comunitaria attraverso la L. Reg. Campania 16/2004, la quale, all’art. 47 (rubricato con la voce: Valutazione Ambientale dei piani), prevede che: “I piani territoriali di settore ed i piani urbanistici sono accompagnati dalla valutazione ambientale di cui alla direttiva 42/2001/CE del 27 giugno 2001, da effettuarsi durante la fase di redazione dei piani. La valutazione scaturisce da un rapporto ambientale in cui sono individuati, descritti e valutati gli effetti significativi dell’attuazione del piano sull’ambiente e le alternative, alla luce degli obiettivi e dell’ambito territoriale di riferimento del piano. La proposta di piano ed il rapporto ambientale sono messi a disposizione delle autorità interessate e del pubblico con le procedure di cui agli articoli 15, 20 e 24 della presente legge. Ai piani di cui al comma 1 è allegata una relazione che illustra come le considerazioni ambientali sono state integrate nel piano e come si è tenuto conto del rapporto ambientale di cui al comma 2”.

Di conseguenza, in omaggio al riparto della potestà legislativa delineato, ai sensi dell’art. 117 Cost., dall’esegesi del Giudice delle Leggi, è indubitabile che il Legislatore regionale abbia attuato in via legittima le prescrizioni riportate dalla Direttiva 42/2001/CE, annoverando espressamente la procedura di V.A.S. tra le procedure di valutazione di competenza regionale.

Ad ogni modo, è da rilevare che, secondo il dominante criterio ermeneutico elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, “dopo lo spirare del termine per il recepimento di una direttiva, essa, anche se rimasta inattuata e perciò inapplicabile nei rapporti interprivati, entra nel patrimonio giuridico nazionale ed incide sull’interpretazione degli istituti operanti nel settore di riferimento sotto il profilo, in particolare, del c.d. obbligo di interpretazione conforme” (ex plurimis, Corte Giust, 13.11.1990, n° 106).

Come ha sottolineato sul punto un autorevole orientamento dottrinale, la Corte di Lussemburgo ha da sempre adottato il predetto canone interpretativo al fine di configurare “il processo di responsabilizzazione degli Stati membri come garanzia di effettività delle norme europee e strumento per una piena realizzazione del primato del diritto comunitario”[1].

Invero, costituisce ormai ius receptum l’avviso che “nell’applicare il diritto interno, i giudici nazionali devono interpretarlo per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 249, terzo comma, CE (v., segnatamente, sentenza 5 ottobre 2004, cause riunite da C-397/01 a C-403/01, Pfeiffer e a., Racc. pag. I-8835, punto 113, e giurisprudenza ivi cit.). Tale obbligo di interpretazione conforme riguarda l’insieme delle disposizioni del diritto nazionale, sia anteriori sia posteriori alla direttiva di cui trattasi (v., in particolare, sentenze 13 novembre 1990, causa C-106/89, Marleasing, Racc. pag. I-4135, punto 8, e Pfeiffer e a., cit., punto 115). L’esigenza di un’interpretazione conforme del diritto nazionale è infatti inerente al sistema del Trattato, in quanto permette al giudice nazionale di assicurare, nel contesto delle sue competenze, la piena efficacia delle norme comunitarie quando risolve la controversia ad esso sottoposta (v., in particolare, sentenza Pfeiffer e a., cit., punto 114) […] Il principio di interpretazione conforme richiede nondimeno che i giudici nazionali si adoperino al meglio nei limiti della loro competenza, prendendo in considerazione il diritto interno nella sua interezza (pertanto, anche la legislazione regionale che è ovviamente pariordinata alla Legislazione statale, ndr) e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena effettività della direttiva di cui trattasi e pervenire ad una soluzione conforme alla finalità perseguita da quest’ultima (v. sentenza Pfeiffer e a., cit., punti 115, 116, 118 e 119)” (Corte Giust., 04.07.2006, n°212).

Occorre, pertanto, rilevare che sussiste in ogni caso a carico degli operatori di diritto interno (in primis, Autorità giurisdizionale e P.A.) l’obbligo di interpretare la disciplina normativa di matrice statale e regionale alla luce della lettera e dello spirito della direttiva comunitaria non attuata.

II) Sulla V.I.A.

Alla stregua della ratio evincibile dalla disciplina contemplata dal D.P.R. 12.04.1996 (attuante le prescrizioni di cui alla Direttiva del Consiglio 85/337/CEE), gli interventi infrastrutturali destinati a spiegare un “impatto significativo” sull’ambiente sono soggetti alla procedura di V.I.A. ovvero (quantomeno) ad una verifica di assoggettabilità delle realizzande opere al medesimo procedimento.

E’ da evidenziare che, con sentenza n° 1409/2009, la stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato ha recepito le indicazioni elaborate dalla Corte di Giustizia U.E. con ordinanza del 10.07.2008, alla cui stregua “l’art. 2, n. 1, della direttiva del Consiglio 27 giugno 1985, 85/337/CEE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, come modificata dalla direttiva del Consiglio 3 marzo 1997, 97/11/CE, deve essere interpretato nel senso che esso non richiede che tutti i progetti destinati ad avere un notevole impatto ambientale siano sottoposti alla procedura di valutazione dell’impatto ambientale prevista da questa direttiva, bensì che devono esserlo solo quelli che sono citati agli allegati I e II di detta direttiva, nelle condizioni previste all’art. 4 di quest’ultima e fatti salvi gli artt. 1, nn. 4 e 5, e 2, n. 3, della medesima direttiva; i criteri di selezione rilevanti citati all’allegato III della direttiva 85/337/CEE, come modificata dalla direttiva 97/11/CEE, sono vincolanti, per gli Stati membri, quando stabiliscono - per i progetti rientranti all’allegato II di quest’ultima, sulla base di un esame caso per caso ovvero sulla base delle soglie o dei criteri che essi fissano - se il progetto interessato debba essere sottoposto alla procedura di valutazione dell’impatto ambientale”.

Sul punto, i giudici di Palazzo Spada hanno appositamente chiarito che “lo Stato italiano, con il citato d.P.R. del 12 aprile 1996, ha predeterminato, in linea generale, quali interventi, corrispondenti a quelli di cui all’allegato II della direttiva, dovessero essere oggetto della preventiva valutazione, da parte della competente Autorità, in merito alla eventuale loro sottoposizione alla v.i.a.; ma, così operando, non ha tenuto alcun conto del predetto criterio comunitario del collegamento tra progetti di cui all’allegato III alla direttiva; criterio che, del resto, riconduce al criterio di carattere generale contenuto nell’art. 2 della direttiva stessa, a mente del quale “gli Stati membri adottano le disposizioni necessarie affinché, prima del rilascio dell’autorizzazione, per i progetti per i quali si prevede un notevole impatto ambientale, in particolare per la loro natura, le loro dimensioni o la loro ubicazione, sia prevista un’autorizzazione e una valutazione del loro impatto” (Cons. Stato, n° 1409/2009, cit.).

In particolare, va rammentato che l’art.1, comma 6, D.P.R. del 12.04.1996 prevede che “per i progetti elencati nell’allegato B, che non ricadono in aree naturali protette, l’autorità competente verifica, secondo le modalità di cui all’art. 10 e sulla base degli elementi indicati nell’allegato D, se le caratteristiche del progetto richiedono lo svolgimento della procedura di valutazione d’impatto ambientale”.

Orbene, alla stregua dell’orientamento espresso dalla Corte di Lussemburgo, la disciplina di cui al D.P.R. 12.04.1996 è palesemente incompatibile con le vigenti disposizioni comunitarie poiché integra gli estremi di una “incompleta attuazione della direttiva” (cfr. ordinanza del 10.07.2008). In particolare, con riferimento all’attività di accertamento degli elementi di cui agli allegati contemplati dal D.P.R. del 12.04.1996, la giurisprudenza amministrativa ha all’uopo precisato che “né l’allegato D (né altre disposizioni contenute nel decreto stesso) fa riferimento alcuno al ripetuto criterio di collegamento progettuale; né tale riferimento può, nel silenzio della normativa in esame, essere ritenuto in essa implicito, ché, altrimenti, il legislatore non avrebbe incluso, nell’allegato D, gli altri criteri previsti nell’allegato III alla direttiva, per sottacerne, invece, uno solo; trascurando detto preciso criterio il legislatore, evidentemente, ha ritenuto – in difformità con la direttiva – di non tenerne, illegittimamente, conto” (Cons. Stato, n° 1409/2009, cit.)[2].

Considerazioni sulla pronuncia commentata

Tirando le fila delle suesposte argomentazioni, emerge l’assoluta incongruità del canone interpretativo adottato dalla pronuncia esaminata, la quale non ha tenuto conto della cd. evoluzione integrativa della disciplina comunitaria in ordine alla fattispecie dedotta in giudizio.

Difatti, è ormai opinione unanime che, a prescindere dalla mancata attuazione di una direttiva non immediatamente applicabile, (quale la Direttiva 42/2001/CE), sussiste comunque ed in ogni caso a carico degli operatori di diritto interno l’obbligo di interpretare la normativa interna (sia essa di fonte statale o regionale) alla luce della lettera e dello spirito della direttiva non attuata, derivando siffatto obbligo dagli artt. 10, comma 2, e 249, comma 3, del Trattato istitutivo.

Inoltre, il contrasto della disciplina interna di cui al D.P.R. del 12.04.1996 con le prescrizioni di cui alla Direttiva del Consiglio 85/337/CEE non poteva che condurre ad accertare la nullità dei provvedimenti impugnati nel giudizio definito con la sentenza in commento, così come sottolineato dall’orientamento interpretativo invalso in dottrina[3] e nella stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato[4].



Cons. Stato, Sez. IV, 31.07.09, n° 4829 (Sud Impianti S.a.s.. c/o Comune di Napoli + 1)

“ […] Con il terzo profilo del secondo motivo di diritto, l’appellante reitera le censure attinenti la violazione della direttiva 42/01/CE del 27 giugno 2001, della legge regionale 16 del 2004 e del DPR 12 aprile 1996 in merito alle procedure di V.I.A. e di V.A.S.. Nel caso in esame, l’illegittimità deriverebbe dalla mancata sottoposizione del progetto alle dette valutazioni, nonostante la vigenza delle norme.La doglianza va respinta. Le due diverse valutazioni ambientali non sono applicabili alla fattispecie in esame. In merito alla V.A.S., non è condivisibile la ricostruzione dell’appellante in merito alla diretta applicabilità della direttiva 42/01/CE, atteso che nello stesso testo normativo europeo si prevede un rinvio alle disposizioni nazionali, sia per la delimitazione dell’ambito (art. 3), sia per le necessarie integrazioni procedurali (art. 4), sia infine per l’espresso ordine di adempimento agli Stati membri di conformarsi alla direttiva (art.13). In merito alla V.I.A., va invece evidenziato come il progetto di realizzazione del centro commerciale in questione non appaia tra le opere contemplate dal D.P.R. 12 aprile 1996 ed in particolare, non rientra nelle categorie indicate dall’appellante (quelle dell’allegato “B”, art. 7, punti a-b), sia perché non ricade, neanche parzialmente, all’interno di aree naturali protette sia perché le dimensioni dell’intervento (pari ad una superficie di mq. 35.343) sono inferiore ai limiti prescritti (ossia mq. 400.000 -40 ha- e mq. 100.000 -10 ha-). […]”

[1] Pasquinelli, “Illecito “comunitario” del legislatore”, Resp. civ. e prev. 2008

[2] Rebus sic stantibus, ad avviso dei Giudici di Palazzo Spada, competeva all’Amministrazione procedente di ponderare “– secondo una consentita, dalla direttiva, valutazione diretta caso per caso - la problematica dell’assoggettabilità dell’intervento in questione alla predetta valutazione preliminare di assoggettabilità alla v.i.a., se e in quanto il progetto all’esame, ancorché non espressamente rientrante tra quelli di cui all’allegato B, n. 7, lettera h), del d.P.R. 12 aprile 1996, fosse, non di meno, caratterizzato da una situazione di collegamento con altri progetti, tale da giustificarne la sottoposizione al predetto esame preventivo ai sensi dell’art. 4 e degli allegati II e III della direttiva n. 337/1985/CEE”.

[3] Franco, “Violazione del diritto comunitario, disapplicazione, nullità ed annullabilità”, Urb. e Appalti, 9/2009

[4] Sez. V, n° 3072 del 19.05.2009, al cui avviso “sul punto la sezione non intende discostarsi dagli approdi ermeneutici cui è giunta la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. Cons. St., sez. V, 8 settembre 2008, n. 4263; sez. IV, 21 febbraio 2005, n. 579; sez. V, 10 gennaio 2003, n. 35), secondo la quale la violazione del diritto comunitario implica un vizio di illegittimità – annullabilità dell’atto amministrativo con esso contrastante, mentre la nullità (o l’inesistenza) è configurabile nella sola ipotesi in cui il provvedimento nazionale sia stato adottato sulla base di una norma interna (attributiva del potere) incompatibile con il diritto comunitario (e quindi disapplicabile)”.

Secondo la pronuncia in commento, il procedimento di Valutazione Ambientale Strategica (cd. V.A.S.), alla stregua di quanto previsto dalla Direttiva 42/2001/CE del 27.06.2001, non trova immediata applicazione nell’ordinamento interno poiché, malgrado il decorso del termine previsto (21.07.2004), il Legislatore statale non ha ancora provveduto all’attuazione della medesima direttiva.

Inoltre, il procedimento di Valutazione di Impatto Ambientale (cd. V.I.A.), così come disciplinato dal D.P.R. del 12.04.1996 (vigente ratione temporis nel caso in esame), adottato ai sensi dell’art. 40, comma 1, L. 146/1994 in attuazione dell’Allegato II della Direttiva del Consiglio 85/337/CEE, può trovare applicazione in esclusivo riferimento alle opere dallo stesso contemplate, con esclusione pertanto delle categorie di interventi non previste dal medesimo decreto.

La vicenda

La fattispecie storica sussunta nella decisione in commento è caratterizzata dall’impugnativa promossa da un imprenditore esercente un’attività di distribuzione carburanti nei confronti di un permesso di costruire nonché di atti presupponenti di un progetto definitivo di un’opera pubblica di notevoli dimensioni, indicata come “intervento infrastrutturale pubblico”, assolvente la funzione di vero e proprio “piano di ambito” e contemplante la realizzazione di un parco commerciale destinato alla grande distribuzione.

In particolare, tale progetto ha previsto l’esproprio di parte del suolo di proprietà del ricorrente nonché la realizzazione di un nuovo impianto di distribuzione carburanti, il quale, com’è facilmente intuibile, è inevitabilmente destinato a ledere gli interessi “commerciali” vantati dall’imprenditore ricorrente.

Il T.A.R. campano, quale Giudice di prime cure, ha rigettato il gravame sollevato dal ricorrente, respingendo, per quanto qui interessa, le censure mosse in riferimento alla violazione della Direttiva 42/2001/CE del 27.06.2001 (disciplinante la procedura di V.A.S.) nonché del D.P.R. del 12.04.1996 (regolante il procedimento di V.I.A. in attuazione dell’Allegato II della Direttiva del Consiglio 85/337/CEE), malgrado i provvedimenti impugnati in giudizio non abbiano previsto l’esperimento di siffatte procedure o quantomeno la cd. verifica ad assoggettabilità degli interventi assentiti.

In seguito alla proposizione del ricorso in appello, il Consiglio di Stato ha confermato le statuizioni gravate rilevando che “in merito alla V.A.S., non è condivisibile la ricostruzione dell’appellante in merito alla diretta applicabilità della direttiva 42/01/CE, atteso che nello stesso testo normativo europeo si prevede un rinvio alle disposizioni nazionali, sia per la delimitazione dell’ambito (art. 3), sia per le necessarie integrazioni procedurali (art. 4), sia infine per l’espresso ordine di adempimento agli Stati membri di conformarsi alla direttiva (art.13). In merito alla V.I.A., va invece evidenziato come il progetto di realizzazione del centro commerciale in questione non appaia tra le opere contemplate dal D.P.R. 12 aprile 1996 ed in particolare, non rientra nelle categorie indicate dall’appellante (quelle dell’allegato “B”, art. 7, punti a-b)”.

I fondamenti normativi e l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza costituzionale ed amministrativa

I) Sulla V.A.S.

Occorre rammentare che la procedura di V.A.S. prevista dalla Direttiva 42/2001/CE del 27.06.2001 (“Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente”) è volta a garantire che gli effetti dell’attuazione di piani e programmi urbanistici siano ponderati durante l’elaborazione e prima dell’adozione degli stessi, così da anticipare, in sede di pianificazione o programmazione, la valutazione di compatibilità ambientale.

Invero, come ha spiegato sul punto la giurisprudenza amministrativa, qualora tale valutazione di compatibilità ambientale viene effettuata sulle singole realizzazioni progettuali (come avviene per la V.I.A.), la medesima procedura “non consente di compiere una effettiva valutazione comparativa, mancando in concreto la possibilità di disporre di soluzioni alternative per la localizzazione degli insediamenti e, in generale, per stabilire, nella prospettiva dello sviluppo sostenibile, le utilizzazioni del territorio” (cfr. T.A.R. Umbria, 19.06.2006, n° 325).

E’ pacifico che siffatta procedura, così come disciplinata dalla Direttiva 2001/42/CE, attiene alla materia «tutela dell’ambiente», in merito alla quale sussistono specifiche competenze attribuite alle Regioni. Difatti, come precisato dall’orientamento ermeneutico assunto dalla Corte Costituzionale, la peculiarità della materia in esame, caratterizzata dalla sua intrinseca “trasversalità”, determina che, “in ordine alla stessa, si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale” (Corte Costituzionale, 26.07.2002, n° 407); pertanto, “la competenza esclusiva dello Stato non è incompatibile con interventi specifici del legislatore regionale che si attengano alle proprie competenze” (Corte Costituzionale, 22.07.2004, n° 259).

Sul punto, è stato appositamente notato che “la “trasversalità” della materia «tutela dell’ambiente» emerge, con particolare evidenza, con riguardo alla valutazione ambientale strategica, che abbraccia anche settori di sicura competenza regionale” (Corte Costituzionale, 01.12.2006, n° 398).

Tant’è vero che, in riferimento alla Regione Campania, il Legislatore regionale ha appositamente attuato le disposizioni di cui alla richiamata direttiva comunitaria attraverso la L. Reg. Campania 16/2004, la quale, all’art. 47 (rubricato con la voce: Valutazione Ambientale dei piani), prevede che: “I piani territoriali di settore ed i piani urbanistici sono accompagnati dalla valutazione ambientale di cui alla direttiva 42/2001/CE del 27 giugno 2001, da effettuarsi durante la fase di redazione dei piani. La valutazione scaturisce da un rapporto ambientale in cui sono individuati, descritti e valutati gli effetti significativi dell’attuazione del piano sull’ambiente e le alternative, alla luce degli obiettivi e dell’ambito territoriale di riferimento del piano. La proposta di piano ed il rapporto ambientale sono messi a disposizione delle autorità interessate e del pubblico con le procedure di cui agli articoli 15, 20 e 24 della presente legge. Ai piani di cui al comma 1 è allegata una relazione che illustra come le considerazioni ambientali sono state integrate nel piano e come si è tenuto conto del rapporto ambientale di cui al comma 2”.

Di conseguenza, in omaggio al riparto della potestà legislativa delineato, ai sensi dell’art. 117 Cost., dall’esegesi del Giudice delle Leggi, è indubitabile che il Legislatore regionale abbia attuato in via legittima le prescrizioni riportate dalla Direttiva 42/2001/CE, annoverando espressamente la procedura di V.A.S. tra le procedure di valutazione di competenza regionale.

Ad ogni modo, è da rilevare che, secondo il dominante criterio ermeneutico elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, “dopo lo spirare del termine per il recepimento di una direttiva, essa, anche se rimasta inattuata e perciò inapplicabile nei rapporti interprivati, entra nel patrimonio giuridico nazionale ed incide sull’interpretazione degli istituti operanti nel settore di riferimento sotto il profilo, in particolare, del c.d. obbligo di interpretazione conforme” (ex plurimis, Corte Giust, 13.11.1990, n° 106).

Come ha sottolineato sul punto un autorevole orientamento dottrinale, la Corte di Lussemburgo ha da sempre adottato il predetto canone interpretativo al fine di configurare “il processo di responsabilizzazione degli Stati membri come garanzia di effettività delle norme europee e strumento per una piena realizzazione del primato del diritto comunitario”[1].

Invero, costituisce ormai ius receptum l’avviso che “nell’applicare il diritto interno, i giudici nazionali devono interpretarlo per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 249, terzo comma, CE (v., segnatamente, sentenza 5 ottobre 2004, cause riunite da C-397/01 a C-403/01, Pfeiffer e a., Racc. pag. I-8835, punto 113, e giurisprudenza ivi cit.). Tale obbligo di interpretazione conforme riguarda l’insieme delle disposizioni del diritto nazionale, sia anteriori sia posteriori alla direttiva di cui trattasi (v., in particolare, sentenze 13 novembre 1990, causa C-106/89, Marleasing, Racc. pag. I-4135, punto 8, e Pfeiffer e a., cit., punto 115). L’esigenza di un’interpretazione conforme del diritto nazionale è infatti inerente al sistema del Trattato, in quanto permette al giudice nazionale di assicurare, nel contesto delle sue competenze, la piena efficacia delle norme comunitarie quando risolve la controversia ad esso sottoposta (v., in particolare, sentenza Pfeiffer e a., cit., punto 114) […] Il principio di interpretazione conforme richiede nondimeno che i giudici nazionali si adoperino al meglio nei limiti della loro competenza, prendendo in considerazione il diritto interno nella sua interezza (pertanto, anche la legislazione regionale che è ovviamente pariordinata alla Legislazione statale, ndr) e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena effettività della direttiva di cui trattasi e pervenire ad una soluzione conforme alla finalità perseguita da quest’ultima (v. sentenza Pfeiffer e a., cit., punti 115, 116, 118 e 119)” (Corte Giust., 04.07.2006, n°212).

Occorre, pertanto, rilevare che sussiste in ogni caso a carico degli operatori di diritto interno (in primis, Autorità giurisdizionale e P.A.) l’obbligo di interpretare la disciplina normativa di matrice statale e regionale alla luce della lettera e dello spirito della direttiva comunitaria non attuata.

II) Sulla V.I.A.

Alla stregua della ratio evincibile dalla disciplina contemplata dal D.P.R. 12.04.1996 (attuante le prescrizioni di cui alla Direttiva del Consiglio 85/337/CEE), gli interventi infrastrutturali destinati a spiegare un “impatto significativo” sull’ambiente sono soggetti alla procedura di V.I.A. ovvero (quantomeno) ad una verifica di assoggettabilità delle realizzande opere al medesimo procedimento.

E’ da evidenziare che, con sentenza n° 1409/2009, la stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato ha recepito le indicazioni elaborate dalla Corte di Giustizia U.E. con ordinanza del 10.07.2008, alla cui stregua “l’art. 2, n. 1, della direttiva del Consiglio 27 giugno 1985, 85/337/CEE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, come modificata dalla direttiva del Consiglio 3 marzo 1997, 97/11/CE, deve essere interpretato nel senso che esso non richiede che tutti i progetti destinati ad avere un notevole impatto ambientale siano sottoposti alla procedura di valutazione dell’impatto ambientale prevista da questa direttiva, bensì che devono esserlo solo quelli che sono citati agli allegati I e II di detta direttiva, nelle condizioni previste all’art. 4 di quest’ultima e fatti salvi gli artt. 1, nn. 4 e 5, e 2, n. 3, della medesima direttiva; i criteri di selezione rilevanti citati all’allegato III della direttiva 85/337/CEE, come modificata dalla direttiva 97/11/CEE, sono vincolanti, per gli Stati membri, quando stabiliscono - per i progetti rientranti all’allegato II di quest’ultima, sulla base di un esame caso per caso ovvero sulla base delle soglie o dei criteri che essi fissano - se il progetto interessato debba essere sottoposto alla procedura di valutazione dell’impatto ambientale”.

Sul punto, i giudici di Palazzo Spada hanno appositamente chiarito che “lo Stato italiano, con il citato d.P.R. del 12 aprile 1996, ha predeterminato, in linea generale, quali interventi, corrispondenti a quelli di cui all’allegato II della direttiva, dovessero essere oggetto della preventiva valutazione, da parte della competente Autorità, in merito alla eventuale loro sottoposizione alla v.i.a.; ma, così operando, non ha tenuto alcun conto del predetto criterio comunitario del collegamento tra progetti di cui all’allegato III alla direttiva; criterio che, del resto, riconduce al criterio di carattere generale contenuto nell’art. 2 della direttiva stessa, a mente del quale “gli Stati membri adottano le disposizioni necessarie affinché, prima del rilascio dell’autorizzazione, per i progetti per i quali si prevede un notevole impatto ambientale, in particolare per la loro natura, le loro dimensioni o la loro ubicazione, sia prevista un’autorizzazione e una valutazione del loro impatto” (Cons. Stato, n° 1409/2009, cit.).

In particolare, va rammentato che l’art.1, comma 6, D.P.R. del 12.04.1996 prevede che “per i progetti elencati nell’allegato B, che non ricadono in aree naturali protette, l’autorità competente verifica, secondo le modalità di cui all’art. 10 e sulla base degli elementi indicati nell’allegato D, se le caratteristiche del progetto richiedono lo svolgimento della procedura di valutazione d’impatto ambientale”.

Orbene, alla stregua dell’orientamento espresso dalla Corte di Lussemburgo, la disciplina di cui al D.P.R. 12.04.1996 è palesemente incompatibile con le vigenti disposizioni comunitarie poiché integra gli estremi di una “incompleta attuazione della direttiva” (cfr. ordinanza del 10.07.2008). In particolare, con riferimento all’attività di accertamento degli elementi di cui agli allegati contemplati dal D.P.R. del 12.04.1996, la giurisprudenza amministrativa ha all’uopo precisato che “né l’allegato D (né altre disposizioni contenute nel decreto stesso) fa riferimento alcuno al ripetuto criterio di collegamento progettuale; né tale riferimento può, nel silenzio della normativa in esame, essere ritenuto in essa implicito, ché, altrimenti, il legislatore non avrebbe incluso, nell’allegato D, gli altri criteri previsti nell’allegato III alla direttiva, per sottacerne, invece, uno solo; trascurando detto preciso criterio il legislatore, evidentemente, ha ritenuto – in difformità con la direttiva – di non tenerne, illegittimamente, conto” (Cons. Stato, n° 1409/2009, cit.)[2].

Considerazioni sulla pronuncia commentata

Tirando le fila delle suesposte argomentazioni, emerge l’assoluta incongruità del canone interpretativo adottato dalla pronuncia esaminata, la quale non ha tenuto conto della cd. evoluzione integrativa della disciplina comunitaria in ordine alla fattispecie dedotta in giudizio.

Difatti, è ormai opinione unanime che, a prescindere dalla mancata attuazione di una direttiva non immediatamente applicabile, (quale la Direttiva 42/2001/CE), sussiste comunque ed in ogni caso a carico degli operatori di diritto interno l’obbligo di interpretare la normativa interna (sia essa di fonte statale o regionale) alla luce della lettera e dello spirito della direttiva non attuata, derivando siffatto obbligo dagli artt. 10, comma 2, e 249, comma 3, del Trattato istitutivo.

Inoltre, il contrasto della disciplina interna di cui al D.P.R. del 12.04.1996 con le prescrizioni di cui alla Direttiva del Consiglio 85/337/CEE non poteva che condurre ad accertare la nullità dei provvedimenti impugnati nel giudizio definito con la sentenza in commento, così come sottolineato dall’orientamento interpretativo invalso in dottrina[3] e nella stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato[4].



Cons. Stato, Sez. IV, 31.07.09, n° 4829 (Sud Impianti S.a.s.. c/o Comune di Napoli + 1)

“ […] Con il terzo profilo del secondo motivo di diritto, l’appellante reitera le censure attinenti la violazione della direttiva 42/01/CE del 27 giugno 2001, della legge regionale 16 del 2004 e del DPR 12 aprile 1996 in merito alle procedure di V.I.A. e di V.A.S.. Nel caso in esame, l’illegittimità deriverebbe dalla mancata sottoposizione del progetto alle dette valutazioni, nonostante la vigenza delle norme.La doglianza va respinta. Le due diverse valutazioni ambientali non sono applicabili alla fattispecie in esame. In merito alla V.A.S., non è condivisibile la ricostruzione dell’appellante in merito alla diretta applicabilità della direttiva 42/01/CE, atteso che nello stesso testo normativo europeo si prevede un rinvio alle disposizioni nazionali, sia per la delimitazione dell’ambito (art. 3), sia per le necessarie integrazioni procedurali (art. 4), sia infine per l’espresso ordine di adempimento agli Stati membri di conformarsi alla direttiva (art.13). In merito alla V.I.A., va invece evidenziato come il progetto di realizzazione del centro commerciale in questione non appaia tra le opere contemplate dal D.P.R. 12 aprile 1996 ed in particolare, non rientra nelle categorie indicate dall’appellante (quelle dell’allegato “B”, art. 7, punti a-b), sia perché non ricade, neanche parzialmente, all’interno di aree naturali protette sia perché le dimensioni dell’intervento (pari ad una superficie di mq. 35.343) sono inferiore ai limiti prescritti (ossia mq. 400.000 -40 ha- e mq. 100.000 -10 ha-). […]”

[1] Pasquinelli, “Illecito “comunitario” del legislatore”, Resp. civ. e prev. 2008

[2] Rebus sic stantibus, ad avviso dei Giudici di Palazzo Spada, competeva all’Amministrazione procedente di ponderare “– secondo una consentita, dalla direttiva, valutazione diretta caso per caso - la problematica dell’assoggettabilità dell’intervento in questione alla predetta valutazione preliminare di assoggettabilità alla v.i.a., se e in quanto il progetto all’esame, ancorché non espressamente rientrante tra quelli di cui all’allegato B, n. 7, lettera h), del d.P.R. 12 aprile 1996, fosse, non di meno, caratterizzato da una situazione di collegamento con altri progetti, tale da giustificarne la sottoposizione al predetto esame preventivo ai sensi dell’art. 4 e degli allegati II e III della direttiva n. 337/1985/CEE”.

[3] Franco, “Violazione del diritto comunitario, disapplicazione, nullità ed annullabilità”, Urb. e Appalti, 9/2009

[4] Sez. V, n° 3072 del 19.05.2009, al cui avviso “sul punto la sezione non intende discostarsi dagli approdi ermeneutici cui è giunta la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. Cons. St., sez. V, 8 settembre 2008, n. 4263; sez. IV, 21 febbraio 2005, n. 579; sez. V, 10 gennaio 2003, n. 35), secondo la quale la violazione del diritto comunitario implica un vizio di illegittimità – annullabilità dell’atto amministrativo con esso contrastante, mentre la nullità (o l’inesistenza) è configurabile nella sola ipotesi in cui il provvedimento nazionale sia stato adottato sulla base di una norma interna (attributiva del potere) incompatibile con il diritto comunitario (e quindi disapplicabile)”.