Il Ghost. l'identità nella Digital transformation

Ghost
Ph. Stefano Lazzari / Ghost

La Digital transformation non è un aspetto generale della globalizzazione, ma entra nel nostro personale attraverso i nostri dispositivi, la nostra realtà lavorativa e privata.

Sembrerebbe un’ovvietà, ma in effetti è una constatazione della cruda e nuda realtà, la scarsa percezione fra decisori e imprenditori di questo semplice assunto: è tutta la filiera, dall'individuo alla società che ne va a far parte; se solo un segmento di questa partecipa al cambiamento, allora la trasformazione non avviene, o si esaurisce, o ha breve durata.

Di questa disomogeneità non c'è da stupirsi, anzi è la regola. L'innovazione non procede in tutti gli strati della società a ondate omogenee, piuttosto va per balzi e sovrapposizioni, seguendo come l'acqua la via più breve, seguendo la migliore pendenza, penetrando in profondità là dove il territorio lo consente. Eppure, è un processo che agisce indipendentemente dalla presa di coscienza di individui, organizzazioni e istituzioni, agendo su di noi.

La definizione che da Wikipedia della Digital transformation è chiara:

"indica un insieme di cambiamenti prevalentemente tecnologici, culturali, organizzativi, sociali, creativi e manageriali, associati con le applicazioni di tecnologia digitale, in tutti gli aspetti della società umana. Agendo in maniera organica e combinata su questi elementi la digital transformation va oltre la semplice adozione di nuove tecnologie [...] creando pervasivamente nuove connessioni tra persone, luoghi e cose".

Dunque, è anche la persona a essere necessariamente al centro di questo processo, che coinvolge sempre più da vicino il corpo in tutte le sue manifestazioni: la fisicità del movimento (le tecnologie indossabili, lo spatial computing che la presuppone), la propriocezione e l'espressione del volto (le tecnologie del Facial Recognition, unite al motion capture), la fisiologia delle sue manifestazioni vitali (i sensori che registrano ogni funzione dell'organismo). Non mi stupirei della nascita di una scienza cyberantropologica a breve, ad oggi costituita da avanguardie di subculture tecnofile, che ne tracci e riveli i comportamenti sociali e culturali.

Se al centro c'è il corpo e attorno a esso la società, al suo interno, per così dire c'è la sua identità, che per dargli una connotazione lontana dalla morale e dalla filosofia chiameremo ghost, in omaggio all'opera el fumettista giapponese Musamune Shirow che con il manga "Ghost in the shell" descrive una forma digitale di identità, il ghost (la coscienza, l'Io, l'anima, pensatela come volete) indipendente dal corpo cha la raccoglie in un guscio, che sia umano, cyborg o robotico, e fra questi si può spostare a piacere.

Anche se non siamo ancora giunti a questo momento tecno-evolutivo, ghost rimane  il nome perfetto a mio parere, per rappresentare il concetto di forma in cui risiede la nostra identità digitale. Possiamo esserlo individualmente, come persona o in forma collettiva. Come azienda, istituzione, organizzazione, che si formalizza in un corpo immaginario è vero, ma non per questo meno tangibile e influente. La storia, neanche tanto recente, ha già i suoi casi studio.

Le aziende hanno da lungo tempo, almeno da quando la parola Marketing ha fatto la sua comparsa assieme a Media, creato delle identità immaginarie nella quale riflettere le caratteristiche e la qualità che le contraddistinguono. Pensiamo a Bibendum, l'Omino Michelin che dal 1898 rappresenta (ed è anche uno dei più antichi marchi registrati) l'azienda di pneumatici, o a Sonic the Hedgehog , il riccio che contraddistingue da testimonial, oltre ad essere esso stesso un personaggio di avventure autonome e indipendenti, la nipponica softwarehouse videoludica SEGA.

Ma se le icone aziendali (un tempo si sarebbero chiamate Mascotte) hanno da lungo tempo hanno assunto nel loro corpo l'identità dell'impresa, da qualche tempo sono gli imprenditori stessi a diventare icone della propria azienda, Pensiamo a Ennio Doris di Banca Mediolanum che traccia "tutto attorno a te" il perimetro della sua banca, o a Giovanni Rana che sperimenta ricette e vende i suoi tortellini direttamente da testimonial di se stesso, in una forma tutta moderna e laica di transustanziazione da persona a icona.

Se questi casi potevano essere limitati a un ambito preciso sino a poco, pochissimo tempo fa, la pandemia ci ha fatto scoprire quanto sia importante per tutti, indipendentemente dall'essere imprenditori, della necessità di definire una immagine identitaria di noi stessi, e con la nostra immagine, iconizzata amplificata e diffusa nell'esperienza quotidiana delle call conference e delle chat, si sta affermando l'idea (o la necessità) di avere una icona di noi stessi, un rappresentante digitale. E notizia di poco tempo fa che Zoom sta preparando nuovi tool per far sentire il lavoratore da remoto sempre più immerso nella realtà virtuale: "Alle riunioni parteciperanno i nostri avatar".

Le tecnologie dell'identità, così le abbiamo chiamate, ci portano a considerare il prossimo passo, la virtualità, e dunque l'ufficio virtuale e tutte le sue attività mediate da quello che viene chiamato avatar. Avatar ovviamente non è che l'espressione che contraddistingue una entità digitale animato da un ghost, che prende parte al processo di identità con la persona o l'impresa. Questo è un processo già in atto da anni, sviluppatosi di pari passo con l'introduzione delle tecnologie. Il profilo sociale di una persona fisica o giuridica è già di per sé un Avatar.

L'immagine con cui ci presentiamo è una immagine che ci rappresenta e che sta richiedendo le necessarie tutele, esattamente come per un marchio.

Di fatto esistono già iniziative volte, non tanto a tutelare, quanto a fornire un servizio che permetta di rendere ovunque siamo presenti in rete, profili, accessi personali, commenti, mail, ovunque siamo presenti, una immagine univoca e certificata.

Ad esempio, L'americana Gravatar, Globally Recognized Avatars è un progetto Automattic dal 2007, dunque dagli albori del web sociale e 2.0 in avanti parallelamente allo sviluppo del web, ci permette (oggi) di passare da un profilo social a una chat, a un indirizzo di posta, a un cloud server, (domani) a un avatar di un mondo virtuale mantenendo riconoscibile e univoca la nostra identità.

Questo processo identitario potrà avvenire per i ghost collettivi in Avatar che rappresentano organizzazioni, entità, istituzioni? Sicuramente, a mio avviso.

Anzi, è già accaduto, e ne sono stato testimone e parte in causa.

È stato un progetto antesignano, del 2008 probabilmente unico per quello che mi risulta, nel panorama delle aziende italiane, che vide luce in Second Life, allora l'unica realtà virtuale disponibile, ai tempi giovanissima ma in cui esistevano già tutti i presupposti della sua attuale complessa e vivacissima società digitale.

Kejo Iperpop Lab è stato un progetto per Kejo, un brand di abbigliamento outdoor realizzato da 2ndK by Maison the in partecipazione con Style Magazine Corriere della Sera, 2LifeCast, Museo del Metaverso.

Il progetto kejo hyperlab era un concorso di creativi per la realizzazione di prototipi di capi di abbigliamento virtuali tridimensionali ma con tutte le caratteristiche degli oggetti reali.

Il laboratorio che ne nacque, si pose l'obbiettivo di usare le caratteristiche grafiche proprie degli ambienti immersivi (la modellizzazione tridimensionale, l'uso di texture, ecc.) e le caratteristiche di user generated content tipiche delle comunità creative in Second Life, per la realizzazione di tutto il processo pre-produttivo sviluppato virtualmente dal centro stile di Kejo.
Dal laboratorio virtuale uscirono i modelli reali che saranno poi realizzati e commercializzati.

2ndK by Maison the ebbe l'idea di creare un avatar che la rappresentasse, ma in una forma ancora mai vista. L'avatar non fu pensato come una mascotte tradizionale, come l'icona di un marchio, bensì come la rappresentazione in personaggio dell'impresa, con cui dialogare e confrontarsi. Nacque così Rick Xue-Kejo Creative leader and Fashion Revolution Commander, il primo - di cui io ho conoscenza - avatar con un ghost collettivo, rappresentante de facto dell'impresa.

Qui trovate il blog del laboratorio, da cui trarre una viva testimonianza.

Dal 2008 di acqua ne è passata sotto i ponti. La moda, così come altre aree della creatività, ha sviluppato una forte sensibilità verso gli ambienti virtuali: è di qualche giorno fa la notizia della presentazione della nuova collezione firmata Balenciaga in Fortnite, con abiti e accessori sotto forma di skin e dorsi decorativi. Al contempo, la popolare firma spagnola lancia una linea per il mondo reale dedicata proprio al celebre titolo Epic Games.

Voler vestire gli abiti del proprio Avatar potrebbe sembrare banale, ma non vi è dubbio quanto sia forte il processo identitario che il ghost attua fra le rappresentazioni del sé digitale a quello fisico.
Se poi questo risultato della globalizzazione sia un bene o un male, è ancora presto per dirlo.