Il principio di sussidiarietà come sistema di allocazione delle competenze
Le tendenze evolutive nell’ultimo quarto di secolo sottolineano il successo politico del prototipo dello Stato a base decentrata; molti Paesi assumono, infatti, modelli intermedi tra l’assetto propriamente federale ed il rafforzamento delle istanze regionali.
La necessità di una decisa modifica delle strutture giuridiche ed economiche dello Stato ha come obiettivo quello di realizzare la sintesi di tre valori essenziali: democrazia, sviluppo, solidarietà.
Questo processo di graduale revisione si rafforza in Europa con il Trattato di Maastricht, entrato in vigore il 1 novembre 1993, ed in Italia con la l. cost. n.3/2001, che rappresenta l’inizio di un disegno riformatore tendente alla trasformazione in senso federale dell’ordinamento; l’intento è quello di configurare un assetto di democrazia partecipativa antitetico rispetto alla struttura monolitica dello Stato di matrice napoleonica.
L’ordinamento italiano si configura, quindi, come un sistema dal pluralismo istituzionale diffuso e differenziato, nel quale, cioè, accanto allo Stato e alle Regioni, gli enti territoriali minori (Comuni, Province e Città metropolitane) ottengono una propria dignità costituzionale in quanto rappresentano parti essenziali della Repubblica, nella diversità e pluralità dei livelli di governo in cui essa si articola.
Ciò è possibile solo grazie alla riduzione delle funzioni statali, alla riconquista di un ruolo delle comunità nello svolgimento di attività di interesse generale e all’allocazione delle funzioni pubbliche a quel livello istituzionale ragionevolmente più vicino ai cittadini interessati.
E’ la stessa genesi storica del termine “sussidiarietà” a fornire la “ratio” di tale assunto; possiamo infatti ricondurla a due cause principali: la dottrina sociale della Chiesa ed in particolare l’Enciclica “Quadragesimo Anno” del 1931, che pone il tema dei limiti all’azione dello Stato e quello del primato etico della persona; la tradizione liberale che ruota attorno al valore della libertà umana e che ha come suo corollario la libertà di iniziativa economica privata.
Per comprendere a fondo la portata innovativa della riforma introdotta dalla legge costituzionale n.3/2001 è utile ricollegarsi a quella che era la disciplina previgente.
L’originario Titolo V della Costituzione prevedeva per l’allocazione delle funzioni amministrative il principio del parallelismo, cioè le competenze amministrative coincidevano per ambito materiale con quelle legislative previste dall’art. 117, comma 1, Cost.; inoltre, per gli enti locali territoriali la determinazione delle funzioni era, invece, demandata dall’art. 128 a “principi fissati da leggi generali della Repubblica”.
Da tale quadro non poteva che desumersi la considerazione di avere di fronte uno Stato “tutore” che rendeva l’attività legislativa delle Regioni “eterodiretta”, quindi non libera nel fine e con una ridotta politicità.
Con l’entrata in vigore della riforma viene sancita una svolta radicale nell’assetto istituzionale italiano con il rovesciamento dell’enumerazione delle competenze legislative, la totale eliminazione dei controlli sugli atti regionali, l’introduzione del principio della “dissociazione”, tramite il quale le funzioni amministrative sono assegnate, di regola, ad enti diversi da quelli titolari delle potestà legislative sulle relative materie, e la costituzionalizzazione della potestà statutaria degli enti locali, che ad oggi incontra l’unico limite nei principi fissati dalla Costituzione.
A mio avviso, per introdurre concretamente il principio in esame dobbiamo ricollegarci ad una metafora altamente rappresentativa quale quella dell’“ascensore istituzionale” (R. Bin - G. Pitruzzella) per focalizzare l’attenzione su uno degli aspetti peculiari del tema trattato che è quello della sua mobilità.
Ciò comporta sul piano distributivo delle funzioni amministrative una chiara opzione in favore dello sviluppo del principio della competenza per interessi, rispetto al rigido criterio di un decentramento solo per funzioni enumerate. La sussidiarietà verticale viene enunciata nel primo comma dell’art. 118 Cost., il quale dispone:“
Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”.
I Comuni, quindi, hanno una competenza amministrativa generale secondo il c.d. municipalismo d’esecuzione, in quanto organi più vicini ai cittadini e, allo stesso tempo, viene circoscritto il potere derogatorio riconosciuto al legislatore ordinario, i cui eventuali interventi vengono vincolati a fini ben precisi. In sostanza, il legislatore utilizza tale criterio per realizzare la “fermata al piano”, prescegliendo il livello più adeguato al raggiungimento del fine. Il principio di sussidiarietà verticale ha la duplice veste di principio di organizzazione nella sua dimensione meramente statica, enunciato nella legge 15 marzo 1997, n.59 (con la quale si introduce il c.d. federalismo a Costituzione invariata), per il quale l’ente più vicino ai cittadini rappresenta il baricentro del sistema amministrativo, e di fattore di flessibilità (c.d. dimensione dinamica) dell’ordine di attribuzioni amministrative predeterminate, in vista del soddisfacimento di esigenze unitarie.
Inoltre, per garantire la completa attuazione dell’art. 118, comma 1, Cost. non possono non operare principi afferenti in modo più specifico al concetto di funzionalità quali quelli di differenziazione e di adeguatezza, per i quali si devono tenere nell’opportuno conto, da una parte, le diverse caratteristiche strutturali, territoriali, demografiche, associative dei vari livelli di governo, facendo così tramontare il principio di omogeneità della pubblica amministrazione, e, dall’altra, l’idoneità organizzativa a sostenerne l’esercizio da parte dell’amministrazione direttamente interessata.
Una volta enunciato il principio, è doveroso individuarne in chiave applicativa i contenuti in modo da ridurre drasticamente il rischio dell’arbitrarietà della decisione del giudice; infatti è da rilevare che la sussidiarietà, isolatamente considerata, assumendo connotati tipici di un’idea politica, porterebbe di conseguenza alla qualificazione dell’organo giudicante come un mero misuratore dell’efficienza.
E’ la sentenza n.303/2003 ad accreditare una concezione procedimentale e consensuale della sussidiarietà dinamica, governata dal principio di leale collaborazione tra gli enti interessati e ad affrontare un problema cruciale quale quello dell’interesse nazionale, “la cui sola allegazione non è ora sufficiente a giustificare l’esercizio da parte dello Stato di una funzione di cui non sia titolare in base all’art. 117 Cost.”. La lettura svalutativa dell’interesse nazionale, che “non costituisce più un limite, né di legittimità, né di merito, alla competenza legislativa regionale”, deve far propendere per “una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà”.
Un meccanismo da seguire per risolvere il delicato problema della giustiziabilità del principio di sussidiarietà potrebbe essere quello seguito in ambito comunitario: l’art. 5 T.U.E. viene attuato con un’istruttoria piuttosto approfondita da parte della Commissione, la quale è tenuta a procedere alla consultazione dei soggetti interessati; le risultanze di tale istruttoria devono confluire nella motivazione dell’atto in modo da far emergere il confronto fra i diversi interessi in gioco.
Questo tipo di procedimentalizzazione, avallato dal D’Atena, mette il giudice costituzionale in condizione di verificare il rispetto, in concreto, del principio. In questo modo si vuole evitare l’inizio di un conflitto permanente tra istituzioni non interrompendo i collegamenti fra i diversi livelli di governo e le diverse articolazioni sociali. Nella sentenza sopra menzionata viene attribuita alla sussidiarietà la possibilità di derogare il riparto di competenze normative di cui all’art. 117 Cost., che ad una prima analisi sembrerebbe voler delineare l’assetto istituzionale in modo netto e competitivo, anziché in senso cooperativo.
Tale ultima disposizione novellata attribuisce la potestà legislativa residuale in capo alle Regioni, riservando allo Stato la legislazione esclusiva in materie tassativamente elencate; vi è poi un elenco di materie a legislazione concorrente, che prevede norme di principio fissate dallo Stato e norme di dettaglio dettate dalla legge regionale; infine la potestà regolamentare è in capo alle Regioni, salvo quella attuativa di leggi di riserva statale.
L’aspetto è importante poiché l’ampiezza della competenza amministrativa discende dalla legge: è tale fonte che fissa limiti e scopi dell’azione amministrativa, attribuendo ad enti ed organi i relativi poteri. Ne consegue che le Regioni diventano il fulcro dell’attività amministrativa che di quella legislazione costituisce attuazione.
E’ naturale però, che permane in capo allo Stato, accanto al fondamentale ruolo di sintesi politica, la posizione di supremo garante dell’ordinamento giuridico.
Anzi lo Stato garantisce la funzione di salvaguardia dell’eguaglianza sociale proprio per contenere il rischio di una degenerazione della c.d. “diversità accettabile”, che può tradursi nella determinazione di forti disuguaglianze all’interno delle diverse realtà territoriali. Infatti la Carta costituzionale all’art. 5 ribadisce: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”; queste ultime non vengono calate dall’alto o create artificialmente ma sono preesistenti e messe a fondamento dell’unità intangibile dell’assetto istituzionale.
Inoltre, se da una parte la sentenza n. 285/2005 della Corte costituzionale ribadisce che la tesi della sopravvivenza del limite dell’interesse nazionale “urta palesemente con il vigente dettato costituzionale, per il quale è necessario che i limiti alle potestà regionali siano espressi”, dall’altra non possiamo non considerare la previsione di cui all’art. 120 Cost. Tale disposizione presuppone che le Regioni possano ledere i fondamentali interessi da essa menzionati e riconosce alla legge statale la disciplina delle procedure attraverso le quali i poteri sostitutivi saranno esercitati.
L’intervento statale non deve mai andare al di là di quanto strettamente necessario per il perseguimento degli obiettivi fissati e anche quando tale intervento è giustificato, esso deve attuarsi in un contesto di rapporti fra livelli di governo posti tutti sullo stesso piano e non organizzati gerarchicamente.
La legge n. 131/2003 precisa che ai principi di sussidiarietà e collaborazione deve ispirarsi l’azione del commissario incaricato di esercitare i poteri sostitutivi nei confronti degli enti locali, il quale provvede sentito il Consiglio delle autonomie locali (ultimo comma dell’art.123 Cost.).
L’intervento sostitutivo, peraltro, può anche essere attivato dalle Regioni e dagli enti locali, evidentemente nel caso in cui l’inerzia dell’ente territoriale può danneggiare anche gli interessi degli altri enti territoriali. In tale ipotesi viene sfumato il carattere esclusivamente statale del potere sostitutivo e si pone quest’ultimo come tutela di un interesse nazionale inteso come sintesi organica di interessi locali.
E’ proprio questa “tensione” fra l’intenzione unitaria ed il radicamento territoriale e regionale a contraddistinguere un ordinamento tendenzialmente federalista come quello italiano.
Possiamo riscontrare questo concetto di equiparazione tra i livelli, statale e regionale, di potestà legislativa anche nel nuovo testo dell’art. 127 Cost., in cui si dispone che sia il Governo sia la Regione possono promuovere la questione di legittimità, rispetto alle competenze costituzionalmente loro assegnate, dinanzi alla Corte costituzionale.
Nel vecchio testo ciò era consentito unicamente al Governo, tramite la figura del commissario.
La duplice dimensione del principio di sussidiarietà ci porta ad analizzare in particolar modo anche l’ultimo comma dell’art. 118 Cost. il quale dispone: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
Il punto da cui partire è l’attribuzione della sovranità al popolo, che, come ribadito nella sentenza n. 106/2002 della Corte costituzionale, è in grado di organizzarsi e di articolarsi in una pluralità di formazioni, associazioni, organizzazioni, istituzioni.
Ma è l’intera intelaiatura del testo costituzionale ad essere pervasa da questo ampio decentramento: infatti, attraverso un’interpretazione sistematica, se scorriamo gli artt. 1,3,5,114,117,118,119 Cost., ci accorgiamo di avere di fronte dei veri e propri “catalizzatori” della sovranità popolare.
Analizzando attentamente l’ultimo comma novellato dell’art. 118 Cost. emerge un ribaltamento del potere di iniziativa a favore dei cittadini e non più delle amministrazioni; questo aspetto non soddisfa soltanto esigenze ideologiche o politiche, ma rappresenta per i cittadini e per le loro organizzazioni il riconoscimento e la legittimazione costituzionale dell’attività svolta che permetterà inevitabilmente la crescita del terzo settore e, quindi, dell’associazionismo.
Questo risultato sarebbe stato impensabile al momento dell’entrata in vigore della Costituzione, quando cioè si dava per scontato il “paradigma bipolare”, secondo il quale esistevano due poli separati in contrapposizione ed una fondamentale distinzione tra soggetti attivi e passivi della potestà amministrativa.
Nel momento in cui si riconosce ai cittadini il ruolo di soggetti autonomamente attivi nel perseguimento dell’interesse generale si vuole erodere quella tradizionale posizione di preminenza riconosciuta alla pubblica amministrazione nei confronti degli amministrati.
E’ necessario ricercare un nuovo paradigma pluralista, paritario e relazionale, invece che gerarchico e conflittuale per garantire la piena realizzazione della persona umana che la nostra Costituzione ha voluto al centro dell’intero sistema istituzionale, con i suoi diritti e i suoi doveri.
Ciò non vuol dire approdare ad un risultato di carattere astratto, anzi si vogliono concretizzare le azioni di soggetti pubblici e privati per garantire proprio quella uguaglianza sostanziale di cui all’art.3, secondo comma, Cost.
L’obiettivo è quello di intrecciare nella società relazioni paritarie fra più soggetti autonomi, rappresentativi di interessi, secondo una logica di collaborazione tramite la quale tendano a coincidere interesse generale ed interesse individuale.
E’ proprio questa l’essenza del principio di sussidiarietà orizzontale, che richiede la presenza di almeno due soggetti, uno che sostiene, o meglio che “favorisce”, e l’altro che è sostenuto; si ha certamente il mantenimento di una distinzione ma non di una separazione egoistica tra amministrazione e cittadino in quanto entrambi partecipano dell’interesse generale.
Da ciò è possibile trarre un’ulteriore conclusione: l’amministrazione risolve i problemi che interessano la collettività utilizzando risorse appartenenti alla società tanto da evitare il ricorso sistematico all’assistenzialismo.
C’è un nesso inscindibile fra tale principio e la democrazia che porta al configurarsi di una nuova e più moderna forma di esercizio della sovranità popolare.
Naturalmente la disposizione di cui all’art. 118, ultimo comma, Cost. deve essere interpretata nel senso di legittimare i cittadini ad attivarsi per perseguire fini che sono nell’interesse generale non perché da essi stessi definiti come tali, ma perché già così qualificati da norme di legge.
Questa tendenza “policentrica” del sistema delle istituzioni ci conduce all’analisi di un rilevante fenomeno quale quello delle autonomie funzionali, conferma ulteriore della consapevolezza che la statualità tradizionale non è in grado di dare risposte adeguate a tutte le istanze che un sistema produttivo complesso come il nostro inevitabilmente esprime.
Un ruolo cruciale nel nostro ordinamento viene oggi assolto dalle Camere di commercio: lo sviluppo recente di queste ultime ha radici nella legge n. 580/1993, che riformando il sistema camerale contiene un’innovazione determinante legata al concetto di autonomia, che non è più necessariamente ancorato ad una rappresentanza generalizzata dei cittadini residenti su un dato territorio ma dà voce alle molteplici articolazioni sociali di cui è ricca la nostra società postulando, in tal modo, l’esistenza di comunità differenziate portatrici di esigenze specifiche.
Viene inevitabilmente superata la visione tradizionale di territorio che riduce gli spazi delle molteplici forme di sussidiarietà, contigue alla dimensione funzionale, quali l’associazionismo ed il privato organizzato.
Le Camere di commercio sono enti che vivono acutamente il duplice confine dello Stato e del privato ed esprimono un legame importante fra l’economia e le istituzioni, tra lo sviluppo individuale dei territori e il tessuto unitario del nostro Paese.
Non è da condividere, inoltre, una lettura restrittiva del primo comma dell’art. 118 Cost., che letteralmente non dà spazio agli enti pubblici non territoriali per l’esercizio di funzioni amministrative sia per una ragione di opportunità, quale la loro estesa e differenziata presenza nel tessuto istituzionale sia per una visione globale del nuovo quadro costituzionale.
Una riforma dello Stato che cominci a riallineare la società civile, il sistema economico e le istituzioni consente quindi anche agli enti dotati di autonomia funzionale di concorrere assieme alle autonomie territoriali al processo di ridistribuzione delle competenze all’interno dell’ordinamento amministrativo pubblico.
L’opportunità dell’introduzione del principio di sussidiarietà nel nostro ordinamento deve essere valutata alla luce di una nuova evoluzione del diritto che perde le sue caratteristiche di norma generale, immutevole ed impersonale per adeguarsi alla struttura complessa della società. Il fine della riforma è quello di apportare una filosofia suscettibile di influenzare non solo i rapporti fra le istituzioni, ma soprattutto i rapporti fra queste e le aggregazioni sociali di ogni tipo.
Il principio in esame permette, inoltre, di temperare l’importanza di aspetti finanziari e strutturali attraverso l’analisi di elementi umani e di benessere.
Per approdare ad un’analisi completa del nuovo art. 118 Cost. non dobbiamo sottovalutare, da una parte, la sua valenza prettamente culturale, che è pre ed extra-giuridica, né, dall’altra la sua portata prescrittiva in modo da ridimensionare il rischio che l’intera disciplina delle funzioni amministrative risulti decostituzionalizzata, risolvendosi nel riconoscimento alla legge ordinaria della “competenza della competenza”.
Stiamo assistendo ad una vera e propria “rivoluzione copernicana” che vedrà come protagoniste strutture lontane dal circuito della mediazione partitica e più vicine ai diversi settori della società civile in modo da garantire l’efficienza della propria azione e l’aderenza dei propri risultati alle domande che sono chiamate a soddisfare.
In ogni caso, la compresenza di più attori, di più competenze, di più funzioni con le relative risorse, è la condizione di base perché la sussidiarietà possa realizzarsi in programmi ed azioni concrete che non siano più scaricati esclusivamente sul binomio parlamento-governo.
Le tendenze evolutive nell’ultimo quarto di secolo sottolineano il successo politico del prototipo dello Stato a base decentrata; molti Paesi assumono, infatti, modelli intermedi tra l’assetto propriamente federale ed il rafforzamento delle istanze regionali.
La necessità di una decisa modifica delle strutture giuridiche ed economiche dello Stato ha come obiettivo quello di realizzare la sintesi di tre valori essenziali: democrazia, sviluppo, solidarietà.
Questo processo di graduale revisione si rafforza in Europa con il Trattato di Maastricht, entrato in vigore il 1 novembre 1993, ed in Italia con la l. cost. n.3/2001, che rappresenta l’inizio di un disegno riformatore tendente alla trasformazione in senso federale dell’ordinamento; l’intento è quello di configurare un assetto di democrazia partecipativa antitetico rispetto alla struttura monolitica dello Stato di matrice napoleonica.
L’ordinamento italiano si configura, quindi, come un sistema dal pluralismo istituzionale diffuso e differenziato, nel quale, cioè, accanto allo Stato e alle Regioni, gli enti territoriali minori (Comuni, Province e Città metropolitane) ottengono una propria dignità costituzionale in quanto rappresentano parti essenziali della Repubblica, nella diversità e pluralità dei livelli di governo in cui essa si articola.
Ciò è possibile solo grazie alla riduzione delle funzioni statali, alla riconquista di un ruolo delle comunità nello svolgimento di attività di interesse generale e all’allocazione delle funzioni pubbliche a quel livello istituzionale ragionevolmente più vicino ai cittadini interessati.
E’ la stessa genesi storica del termine “sussidiarietà” a fornire la “ratio” di tale assunto; possiamo infatti ricondurla a due cause principali: la dottrina sociale della Chiesa ed in particolare l’Enciclica “Quadragesimo Anno” del 1931, che pone il tema dei limiti all’azione dello Stato e quello del primato etico della persona; la tradizione liberale che ruota attorno al valore della libertà umana e che ha come suo corollario la libertà di iniziativa economica privata.
Per comprendere a fondo la portata innovativa della riforma introdotta dalla legge costituzionale n.3/2001 è utile ricollegarsi a quella che era la disciplina previgente.
L’originario Titolo V della Costituzione prevedeva per l’allocazione delle funzioni amministrative il principio del parallelismo, cioè le competenze amministrative coincidevano per ambito materiale con quelle legislative previste dall’art. 117, comma 1, Cost.; inoltre, per gli enti locali territoriali la determinazione delle funzioni era, invece, demandata dall’art. 128 a “principi fissati da leggi generali della Repubblica”.
Da tale quadro non poteva che desumersi la considerazione di avere di fronte uno Stato “tutore” che rendeva l’attività legislativa delle Regioni “eterodiretta”, quindi non libera nel fine e con una ridotta politicità.
Con l’entrata in vigore della riforma viene sancita una svolta radicale nell’assetto istituzionale italiano con il rovesciamento dell’enumerazione delle competenze legislative, la totale eliminazione dei controlli sugli atti regionali, l’introduzione del principio della “dissociazione”, tramite il quale le funzioni amministrative sono assegnate, di regola, ad enti diversi da quelli titolari delle potestà legislative sulle relative materie, e la costituzionalizzazione della potestà statutaria degli enti locali, che ad oggi incontra l’unico limite nei principi fissati dalla Costituzione.
A mio avviso, per introdurre concretamente il principio in esame dobbiamo ricollegarci ad una metafora altamente rappresentativa quale quella dell’“ascensore istituzionale” (R. Bin - G. Pitruzzella) per focalizzare l’attenzione su uno degli aspetti peculiari del tema trattato che è quello della sua mobilità.
Ciò comporta sul piano distributivo delle funzioni amministrative una chiara opzione in favore dello sviluppo del principio della competenza per interessi, rispetto al rigido criterio di un decentramento solo per funzioni enumerate. La sussidiarietà verticale viene enunciata nel primo comma dell’art. 118 Cost., il quale dispone:“
Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”.
I Comuni, quindi, hanno una competenza amministrativa generale secondo il c.d. municipalismo d’esecuzione, in quanto organi più vicini ai cittadini e, allo stesso tempo, viene circoscritto il potere derogatorio riconosciuto al legislatore ordinario, i cui eventuali interventi vengono vincolati a fini ben precisi. In sostanza, il legislatore utilizza tale criterio per realizzare la “fermata al piano”, prescegliendo il livello più adeguato al raggiungimento del fine. Il principio di sussidiarietà verticale ha la duplice veste di principio di organizzazione nella sua dimensione meramente statica, enunciato nella legge 15 marzo 1997, n.59 (con la quale si introduce il c.d. federalismo a Costituzione invariata), per il quale l’ente più vicino ai cittadini rappresenta il baricentro del sistema amministrativo, e di fattore di flessibilità (c.d. dimensione dinamica) dell’ordine di attribuzioni amministrative predeterminate, in vista del soddisfacimento di esigenze unitarie.
Inoltre, per garantire la completa attuazione dell’art. 118, comma 1, Cost. non possono non operare principi afferenti in modo più specifico al concetto di funzionalità quali quelli di differenziazione e di adeguatezza, per i quali si devono tenere nell’opportuno conto, da una parte, le diverse caratteristiche strutturali, territoriali, demografiche, associative dei vari livelli di governo, facendo così tramontare il principio di omogeneità della pubblica amministrazione, e, dall’altra, l’idoneità organizzativa a sostenerne l’esercizio da parte dell’amministrazione direttamente interessata.
Una volta enunciato il principio, è doveroso individuarne in chiave applicativa i contenuti in modo da ridurre drasticamente il rischio dell’arbitrarietà della decisione del giudice; infatti è da rilevare che la sussidiarietà, isolatamente considerata, assumendo connotati tipici di un’idea politica, porterebbe di conseguenza alla qualificazione dell’organo giudicante come un mero misuratore dell’efficienza.
E’ la sentenza n.303/2003 ad accreditare una concezione procedimentale e consensuale della sussidiarietà dinamica, governata dal principio di leale collaborazione tra gli enti interessati e ad affrontare un problema cruciale quale quello dell’interesse nazionale, “la cui sola allegazione non è ora sufficiente a giustificare l’esercizio da parte dello Stato di una funzione di cui non sia titolare in base all’art. 117 Cost.”. La lettura svalutativa dell’interesse nazionale, che “non costituisce più un limite, né di legittimità, né di merito, alla competenza legislativa regionale”, deve far propendere per “una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà”.
Un meccanismo da seguire per risolvere il delicato problema della giustiziabilità del principio di sussidiarietà potrebbe essere quello seguito in ambito comunitario: l’art. 5 T.U.E. viene attuato con un’istruttoria piuttosto approfondita da parte della Commissione, la quale è tenuta a procedere alla consultazione dei soggetti interessati; le risultanze di tale istruttoria devono confluire nella motivazione dell’atto in modo da far emergere il confronto fra i diversi interessi in gioco.
Questo tipo di procedimentalizzazione, avallato dal D’Atena, mette il giudice costituzionale in condizione di verificare il rispetto, in concreto, del principio. In questo modo si vuole evitare l’inizio di un conflitto permanente tra istituzioni non interrompendo i collegamenti fra i diversi livelli di governo e le diverse articolazioni sociali. Nella sentenza sopra menzionata viene attribuita alla sussidiarietà la possibilità di derogare il riparto di competenze normative di cui all’art. 117 Cost., che ad una prima analisi sembrerebbe voler delineare l’assetto istituzionale in modo netto e competitivo, anziché in senso cooperativo.
Tale ultima disposizione novellata attribuisce la potestà legislativa residuale in capo alle Regioni, riservando allo Stato la legislazione esclusiva in materie tassativamente elencate; vi è poi un elenco di materie a legislazione concorrente, che prevede norme di principio fissate dallo Stato e norme di dettaglio dettate dalla legge regionale; infine la potestà regolamentare è in capo alle Regioni, salvo quella attuativa di leggi di riserva statale.
L’aspetto è importante poiché l’ampiezza della competenza amministrativa discende dalla legge: è tale fonte che fissa limiti e scopi dell’azione amministrativa, attribuendo ad enti ed organi i relativi poteri. Ne consegue che le Regioni diventano il fulcro dell’attività amministrativa che di quella legislazione costituisce attuazione.
E’ naturale però, che permane in capo allo Stato, accanto al fondamentale ruolo di sintesi politica, la posizione di supremo garante dell’ordinamento giuridico.
Anzi lo Stato garantisce la funzione di salvaguardia dell’eguaglianza sociale proprio per contenere il rischio di una degenerazione della c.d. “diversità accettabile”, che può tradursi nella determinazione di forti disuguaglianze all’interno delle diverse realtà territoriali. Infatti la Carta costituzionale all’art. 5 ribadisce: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”; queste ultime non vengono calate dall’alto o create artificialmente ma sono preesistenti e messe a fondamento dell’unità intangibile dell’assetto istituzionale.
Inoltre, se da una parte la sentenza n. 285/2005 della Corte costituzionale ribadisce che la tesi della sopravvivenza del limite dell’interesse nazionale “urta palesemente con il vigente dettato costituzionale, per il quale è necessario che i limiti alle potestà regionali siano espressi”, dall’altra non possiamo non considerare la previsione di cui all’art. 120 Cost. Tale disposizione presuppone che le Regioni possano ledere i fondamentali interessi da essa menzionati e riconosce alla legge statale la disciplina delle procedure attraverso le quali i poteri sostitutivi saranno esercitati.
L’intervento statale non deve mai andare al di là di quanto strettamente necessario per il perseguimento degli obiettivi fissati e anche quando tale intervento è giustificato, esso deve attuarsi in un contesto di rapporti fra livelli di governo posti tutti sullo stesso piano e non organizzati gerarchicamente.
La legge n. 131/2003 precisa che ai principi di sussidiarietà e collaborazione deve ispirarsi l’azione del commissario incaricato di esercitare i poteri sostitutivi nei confronti degli enti locali, il quale provvede sentito il Consiglio delle autonomie locali (ultimo comma dell’art.123 Cost.).
L’intervento sostitutivo, peraltro, può anche essere attivato dalle Regioni e dagli enti locali, evidentemente nel caso in cui l’inerzia dell’ente territoriale può danneggiare anche gli interessi degli altri enti territoriali. In tale ipotesi viene sfumato il carattere esclusivamente statale del potere sostitutivo e si pone quest’ultimo come tutela di un interesse nazionale inteso come sintesi organica di interessi locali.
E’ proprio questa “tensione” fra l’intenzione unitaria ed il radicamento territoriale e regionale a contraddistinguere un ordinamento tendenzialmente federalista come quello italiano.
Possiamo riscontrare questo concetto di equiparazione tra i livelli, statale e regionale, di potestà legislativa anche nel nuovo testo dell’art. 127 Cost., in cui si dispone che sia il Governo sia la Regione possono promuovere la questione di legittimità, rispetto alle competenze costituzionalmente loro assegnate, dinanzi alla Corte costituzionale.
Nel vecchio testo ciò era consentito unicamente al Governo, tramite la figura del commissario.
La duplice dimensione del principio di sussidiarietà ci porta ad analizzare in particolar modo anche l’ultimo comma dell’art. 118 Cost. il quale dispone: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
Il punto da cui partire è l’attribuzione della sovranità al popolo, che, come ribadito nella sentenza n. 106/2002 della Corte costituzionale, è in grado di organizzarsi e di articolarsi in una pluralità di formazioni, associazioni, organizzazioni, istituzioni.
Ma è l’intera intelaiatura del testo costituzionale ad essere pervasa da questo ampio decentramento: infatti, attraverso un’interpretazione sistematica, se scorriamo gli artt. 1,3,5,114,117,118,119 Cost., ci accorgiamo di avere di fronte dei veri e propri “catalizzatori” della sovranità popolare.
Analizzando attentamente l’ultimo comma novellato dell’art. 118 Cost. emerge un ribaltamento del potere di iniziativa a favore dei cittadini e non più delle amministrazioni; questo aspetto non soddisfa soltanto esigenze ideologiche o politiche, ma rappresenta per i cittadini e per le loro organizzazioni il riconoscimento e la legittimazione costituzionale dell’attività svolta che permetterà inevitabilmente la crescita del terzo settore e, quindi, dell’associazionismo.
Questo risultato sarebbe stato impensabile al momento dell’entrata in vigore della Costituzione, quando cioè si dava per scontato il “paradigma bipolare”, secondo il quale esistevano due poli separati in contrapposizione ed una fondamentale distinzione tra soggetti attivi e passivi della potestà amministrativa.
Nel momento in cui si riconosce ai cittadini il ruolo di soggetti autonomamente attivi nel perseguimento dell’interesse generale si vuole erodere quella tradizionale posizione di preminenza riconosciuta alla pubblica amministrazione nei confronti degli amministrati.
E’ necessario ricercare un nuovo paradigma pluralista, paritario e relazionale, invece che gerarchico e conflittuale per garantire la piena realizzazione della persona umana che la nostra Costituzione ha voluto al centro dell’intero sistema istituzionale, con i suoi diritti e i suoi doveri.
Ciò non vuol dire approdare ad un risultato di carattere astratto, anzi si vogliono concretizzare le azioni di soggetti pubblici e privati per garantire proprio quella uguaglianza sostanziale di cui all’art.3, secondo comma, Cost.
L’obiettivo è quello di intrecciare nella società relazioni paritarie fra più soggetti autonomi, rappresentativi di interessi, secondo una logica di collaborazione tramite la quale tendano a coincidere interesse generale ed interesse individuale.
E’ proprio questa l’essenza del principio di sussidiarietà orizzontale, che richiede la presenza di almeno due soggetti, uno che sostiene, o meglio che “favorisce”, e l’altro che è sostenuto; si ha certamente il mantenimento di una distinzione ma non di una separazione egoistica tra amministrazione e cittadino in quanto entrambi partecipano dell’interesse generale.
Da ciò è possibile trarre un’ulteriore conclusione: l’amministrazione risolve i problemi che interessano la collettività utilizzando risorse appartenenti alla società tanto da evitare il ricorso sistematico all’assistenzialismo.
C’è un nesso inscindibile fra tale principio e la democrazia che porta al configurarsi di una nuova e più moderna forma di esercizio della sovranità popolare.
Naturalmente la disposizione di cui all’art. 118, ultimo comma, Cost. deve essere interpretata nel senso di legittimare i cittadini ad attivarsi per perseguire fini che sono nell’interesse generale non perché da essi stessi definiti come tali, ma perché già così qualificati da norme di legge.
Questa tendenza “policentrica” del sistema delle istituzioni ci conduce all’analisi di un rilevante fenomeno quale quello delle autonomie funzionali, conferma ulteriore della consapevolezza che la statualità tradizionale non è in grado di dare risposte adeguate a tutte le istanze che un sistema produttivo complesso come il nostro inevitabilmente esprime.
Un ruolo cruciale nel nostro ordinamento viene oggi assolto dalle Camere di commercio: lo sviluppo recente di queste ultime ha radici nella legge n. 580/1993, che riformando il sistema camerale contiene un’innovazione determinante legata al concetto di autonomia, che non è più necessariamente ancorato ad una rappresentanza generalizzata dei cittadini residenti su un dato territorio ma dà voce alle molteplici articolazioni sociali di cui è ricca la nostra società postulando, in tal modo, l’esistenza di comunità differenziate portatrici di esigenze specifiche.
Viene inevitabilmente superata la visione tradizionale di territorio che riduce gli spazi delle molteplici forme di sussidiarietà, contigue alla dimensione funzionale, quali l’associazionismo ed il privato organizzato.
Le Camere di commercio sono enti che vivono acutamente il duplice confine dello Stato e del privato ed esprimono un legame importante fra l’economia e le istituzioni, tra lo sviluppo individuale dei territori e il tessuto unitario del nostro Paese.
Non è da condividere, inoltre, una lettura restrittiva del primo comma dell’art. 118 Cost., che letteralmente non dà spazio agli enti pubblici non territoriali per l’esercizio di funzioni amministrative sia per una ragione di opportunità, quale la loro estesa e differenziata presenza nel tessuto istituzionale sia per una visione globale del nuovo quadro costituzionale.
Una riforma dello Stato che cominci a riallineare la società civile, il sistema economico e le istituzioni consente quindi anche agli enti dotati di autonomia funzionale di concorrere assieme alle autonomie territoriali al processo di ridistribuzione delle competenze all’interno dell’ordinamento amministrativo pubblico.
L’opportunità dell’introduzione del principio di sussidiarietà nel nostro ordinamento deve essere valutata alla luce di una nuova evoluzione del diritto che perde le sue caratteristiche di norma generale, immutevole ed impersonale per adeguarsi alla struttura complessa della società. Il fine della riforma è quello di apportare una filosofia suscettibile di influenzare non solo i rapporti fra le istituzioni, ma soprattutto i rapporti fra queste e le aggregazioni sociali di ogni tipo.
Il principio in esame permette, inoltre, di temperare l’importanza di aspetti finanziari e strutturali attraverso l’analisi di elementi umani e di benessere.
Per approdare ad un’analisi completa del nuovo art. 118 Cost. non dobbiamo sottovalutare, da una parte, la sua valenza prettamente culturale, che è pre ed extra-giuridica, né, dall’altra la sua portata prescrittiva in modo da ridimensionare il rischio che l’intera disciplina delle funzioni amministrative risulti decostituzionalizzata, risolvendosi nel riconoscimento alla legge ordinaria della “competenza della competenza”.
Stiamo assistendo ad una vera e propria “rivoluzione copernicana” che vedrà come protagoniste strutture lontane dal circuito della mediazione partitica e più vicine ai diversi settori della società civile in modo da garantire l’efficienza della propria azione e l’aderenza dei propri risultati alle domande che sono chiamate a soddisfare.
In ogni caso, la compresenza di più attori, di più competenze, di più funzioni con le relative risorse, è la condizione di base perché la sussidiarietà possa realizzarsi in programmi ed azioni concrete che non siano più scaricati esclusivamente sul binomio parlamento-governo.