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Le associazioni non riconosciute e l’esercizio di attività economica

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L’espresso riconoscimento del diritto dei cittadini di associarsi, liberamente e senza autorizzazione, sancito dall’articolo 18 della Costituzione, unitamente al più generale principio espresso dalla stessa all’articolo 2, hanno influenzato, tanto nella loro interpretazione quanto nella loro applicazione, le norme contenute nel Libro Primo Capo III (artt. 36 – 42) relative alle associazioni non riconosciute ed ai comitati.

A ciò si aggiunga l’impatto costituito dalle prescrizioni contenute nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’U.E. dove è espressamente previsto (all’articolo  12 comma I) che “Ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione pacifica ed alla libertà di associazione a tutti i livelli, segnatamente in campo politico, sindacale e civico …”.

Norme di simile portata hanno legittimato ed incentivato il fenomeno dell’associazionismo e ciò a prescindere dal formale riconoscimento della personalità giuridica degli enti coinvolti. Tuttavia, seppure l’introduzione della disciplina della associazioni non riconosciute è stata considerata, a ragione, come una delle principali innovazioni apportate dal Codice del 1942, è indubbio che le scarne prescrizioni della disciplina codicistica necessitassero, e necessitino tutt’oggi, di fonti integrative e di un profondo lavoro ermeneutico, che permetta ai soggetti privi di personalità giuridica di operare.

Del resto, quelli che possiamo identificare come “enti non personificati” partecipano oggi alla vita di relazione in modo sempre più crescente, perseguendo scopi sia duraturi che temporanei, in ambiti territorialmente delimitati, ovvero estesi all’intero contesto nazionale (e non solo).

Il successo inarrestabile del settore non profit e la conseguente esplosione di poliedriche realtà riconducibili al panorama degli enti intermedi tra Stato ed individui, hanno reso più evidente, da un lato, la peculiarità e centralità delle poche norme dedicate dal codice civile alle associazioni non riconosciute e, dall’altro, il parallelo declino della categoria della personalità giuridica. Peraltro, è indubbio come la forma giuridica più utilizzata nell’area non profit sia stata, nel corso degli ultimi decenni, proprio quella dell’associazione non riconosciuta.

Ciò premesso, ormai da tempo, tanto la dottrina quanto la giurisprudenza hanno superato il dogma civilistico della personalità giuridica, così come originariamente codificato dal legislatore del 1942. Allora, infatti, venivano considerati soggetti di diritto, accanto alle persone fisiche, soltanto quelle realtà dotate di personalità giuridica (attribuita ex lege, ovvero attraverso il procedimento di riconoscimento previsto dallo stesso codice civile) e, quindi, conseguentemente, di soggettività giuridica. Ciò comportava, per gli enti che ne fossero privi, una situazione di esistenza di “mero fatto”, comunque riconosciuta dall’art 36 e, tuttavia, priva di qualsivoglia inquadramento giuridico.

Tale situazione, e la parallela evidente non irrilevanza di tali enti rispetto all’ordinamento, non poteva che portare, così com’è stato, ad una approfondita riflessione sul significato da riconoscersi al concetto di personalità giuridica ed a quello di soggettività giuridica, prima considerati, sostanzialmente, un unicum.           

Da essa è scaturito un totale ripensamento, ed un radicale ridimensionamento, del concetto di personalità giuridica, a cui è seguita la distinzione tra quest’ultimo ed il concetto di soggettività giuridica, inteso come “centro unitario di imputazione di effetti giuridici”.

Con il definitivo superamento del dogma della personalità giuridica, si è giunti al pacifico riconoscimento della soggettività giuridica anche agli enti privi di tale personalità, in particolare alle associazioni non riconosciute, che sono oggi considerati, a tutti gli effetti, soggetti di diritto.

La Suprema Corte di cassazione, in una storica pronunzia del 1976, aderendo all’ormai prevalente e qualificato indirizzo dottrinario, sanciva espressamente che “gli enti non riconosciuti sono dotati di soggettività giuridica”.

Il processo, in realtà, non è stato semplice.

Tuttavia, come inizialmente sottolineato, la circostanza che la Costituzione non menzioni tra i requisiti per associarsi quello di possedere la personalità giuridica ha rappresentato un baluardo formidabile che ha garantito, a tutti gli enti che ne fossero privi, una loro rilevanza giuridica, impossibile da ignorare.

In tal senso, seppure è pacifico che, nel caso di enti privi di personalità giuridica, si debba comunque, parlare di soggettività incompleta, è altrettanto pacifico che ciò riguardi l’aspetto qualitativo e non quantitativo.

In effetti, così come puntualmente chiarito sempre dalla Cassazione, poiché la stessa soggettività delle persone giuridiche non corrisponde a quella delle persone fisiche (in quanto esse sono tali in senso traslato e la loro qualificazione avviene necessariamente per analogia), ne deriva che la soggettività dei gruppi, dotati o meno di personalità, è sempre una soggettività incompleta, diversa a sua volta da quella delle persone giuridiche.

È, quindi, evidente che le associazioni non riconosciute costituiscano soggetti autonomi, vuoi sul piano sostanziale, vuoi sul piano processuale, con l’ulteriore conseguenza della loro legittimazione anche a stare in giudizio, senza che debbano essere rappresentate dai propri associati.

Una volta riconosciuta la “soggettività giuridica” delle associazioni non riconosciute, è necessario affrontare il tema della loro costituzione ed organizzazione.

Per quanto riguarda il primo aspetto, seppure l’origine delle associazioni debba comunque considerarsi di natura contrattuale (per tale intendendosi l’accordo tra gli associati), mentre l’associazione riconosciuta ha la sua fonte costitutiva in un negozio formale, cioè nell’atto pubblico, l’associazione non riconosciuta non è soggetta ad alcuna forma costitutiva particolare, tanto che viene ritenuta sufficiente, per la sua costituzione, anche una forma orale, potendo essa risultare tacitamente dall’esercizio concordato dell’attività da parte del gruppo organizzato.

Per quanto riguarda, invece, l’aspetto organizzativo, l’articolo  36 comma I Codice Civile richiama espressamente gli accordi tra gli associati, che dovrebbero, quindi, rappresentare la fonte regolatrice  dell’organizzazione interna.

La suddetta norma si riferisce non soltanto al contratto dal quale prende vita l’associazione, cioè l’atto costitutivo, ma anche allo statuto, che è atto unilaterale proveniente dall’ente già costituito. E’ di tutta evidenza come lo statuto possa anche mancare, qualora l’atto costitutivo contenga elementi sufficienti ad identificare scopo e funzionamento dell’associazione.

Ciò premesso, qualora gli accordi tra gli associati omettano di regolamentare, in tutto o in parte, l’aspetto organizzativo interno, dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che debbano comunque applicarsi, in via analogica e non solo, le norme sulle associazioni riconosciute e sulle società di persone.

In effetti, secondo parte autorevole della dottrina, non soltanto gli accordi tra gli associati non costituirebbero la fonte esclusiva della regolamentazione interna dell’organizzazione, ma non ne rappresenterebbero neppure la fonte primaria, poiché la libertà associativa dovrebbe, comunque, sempre conformarsi alle prescrizioni previste per le associazioni riconosciute. Queste ultime andrebbero, dunque, applicate in via diretta, prima che analogica.

In buona sostanza, volendo seguire tale impostazione sistematica, anche per le associazioni non riconosciute, analogamente a quanto previsto per quelle riconosciute, sarebbe comunque necessaria la presenza sia di una assemblea, sia di amministratori: cioè di un organo sovrano deliberativo e di un organo esecutivo.

Tale ragionamento si fonda sul presupposto interpretativo che le associazioni non riconosciute avrebbero una struttura identica a quelle dotate di personalità giuridica, in base all’assioma che esisterebbe una sola figura, unitaria, di associazione, con medesima struttura contrattuale ed identità di disciplina.

Rispetto ad una simile impostazione, se è indubbio che il richiamo ad un organo deliberativo ed ad uno esecutivo sia necessario (quantomeno ai fini della concreta operatività dell’associazione), ritengo che la fonte primaria dell’associazione non riconosciuta debba, comunque, sempre rinvenirsi nell’accordo tra gli associati, rispetto al quale, in caso di lacune, soccorre in via analogica la normativa in materia di associazioni riconosciute e società di persone.

Ciò non significa riconoscere una valenza illimitata all’autonomia contrattuale dell’associazione, che deve, in ogni caso, uniformarsi ai principi generali dell’ordinamento: a tutela dell’associato, dell’ente e dei soggetti terzi. Significa, semplicemente, prendere atto della valenza primaria degli accordi tra gli associati e della matrice contrattualistica delle associazioni non riconosciute.

Di certo, una valutazione sistematica è imprescindibile rispetto a qualsivoglia soluzione interpretativa che, peraltro, resta ancora oggi controversa.

Al contrario, non sembrano esserci ostacoli al riconoscimento della possibilità per le associazioni non riconosciute di svolgere attività economica.

La già citata crescita del fenomeno dell’associazionismo e del settore del non profit ha fatto sorgere la questione della legittimità ed opportunità da parte degli enti non riconosciuti di svolgere attività economica. Storicamente, nel silenzio del legislatore, si riteneva che gli stessi non potessero svolgere attività economica organizzata, dovendosi limitare ad una attività di tipo satisfattivo.

Oggi tale interpretazione deve ritenersi definitivamente superata. Dottrina e giurisprudenza hanno ritenuto pienamente legittimo l’esercizio da parte della associazioni non riconosciute di attività economica, purché strumentale al perseguimento dello scopo ideale, senza che da ciò derivi l’attribuzione della natura giuridica di società.

Appare, pertanto, fondamentale mantenere una chiara linea di demarcazione tra scopo dell’associazione e attività da quest’ultima svolta.

La Cassazione, in particolare, ha precisato che lo svolgimento di un attività economica a fine di lucro da parte di una associazione non riconosciuta non è sufficiente da sola ad attribuire a tale organismo collettivo la natura giuridica di società, se non si accompagni alla comune volontà di ripartire gli utili tra gli associati, nella cui assenza l’attività economica assolve una funzione meramente accessoria o strumentale e, comunque, non prevalente rispetto al perseguimento dello scopo dell’associazione.

Pertanto, il discrimine tra associazioni e società non va ravvisato nella tipologia di attività svolta (economica o meno) quanto nello scopo perseguito: ideale nel primo caso, di lucro nel secondo. La differenza coinvolge, cioè, l’aspetto della distribuzione degli utili.

In buona sostanza, lo scopo non lucrativo, peraltro considerato da parte della dottrina come la causa fondante della categoria generale delle associazioni, riguarda esclusivamente il divieto di distribuire gli utili (più correttamente l’obbligo a non distribuirli tra gli associati) che, peraltro, deve essere rispettato anche qualora l’organismo venga sciolto.

Pertanto, qualora ci si conformi all’obbligo di non ripartire gli utili, l’attività economica svolta si configurerebbe, secondo la giurisprudenza richiamata, sempre come accessoria, strumentale e non prevalente.

Alla luce delle considerazioni svolte, e del chiaro indirizzo dottrinario e giurisprudenziale citato, appare evidente come le associazioni non riconosciute possono svolgere attività di impresa, con l’unico limite che l’utile percepito da tale attività venga reinvestito nel perseguimento dello scopo sociale e non venga diviso tra gli associati.

Da ciò consegue, altresì, che tali associazioni possano anche costituire società, ovvero assumere partecipazioni in esse, sempre purché gli utili ricavati dall’attività svolte dalle stesse non vengano poi distribuiti tra gli associati.

Senza dubbio la forma giuridico-organizzativa prevista per gli enti di cui al libro primo non sembra del tutto idonea all’esercizio di attività economica organizzata. Tuttavia, in presenza di una evidente lacuna legislativa ed in assenza di una disciplina organica, la giurisprudenza ha ritenuto di adottare un indirizzo che utilizzi soluzioni interpretative omogenee rispetto a quelle previste per le società. Tale indirizzo appare condivisibile.

In effetti, anzitutto il rispetto del principio di uguaglianza e di tutela dei creditori impone che, in caso di esercizio di attività di impresa da parte delle associazioni non riconosciute ed a fronte di carenze dell’atto costitutivo e/o dello statuto, vengano osservate analogicamente le norme previste nel libro quinto del Codice Civile.

Ciò chiarito, è fuori di dubbio che, proprio a fronte della citata carenza normativa, l’esercizio di attività d’impresa da parte di associazioni non riconosciute e, più in generale, di enti non profit, ferma la sua legittimità, pone una rilevante serie di interrogativi, tanto a livello sostanziale quanto procedurale. 

In particolare, rispetto al generale principio della non distribuzione degli utili, continuano ad affastellarsi interpretazioni più o meno condivisibili.

Perplessità insorgono, anzitutto, qualora l’associazione svolga l’attività commerciale in maniera abituale e professionale, ovvero svolga l’attività economica in via esclusiva o principale, e comunque quando i proventi che scaturiscono dallo svolgimento di tale attività superino quelli conseguiti nello svolgimento dell’attività in favore degli associati.

Mentre, infatti, l’associazione che svolga (in via diretta o attraverso una società controllata o partecipata) l’attività di impresa in via non principale, a completamento, integrazione o miglioramento dell’attività oggetto dello scopo sociale, sicuramente resta e deve essere considerata, ad ogni effetto di legge, ente non commerciale, nel caso di svolgimento di attività d’impresa esclusiva o principale, da cui scaturiscono proventi prevalenti rispetto a quelli derivanti dall’attività istituzionale svolta, alcuni autori ritengono che, a prescindere dal reinvestimento dei proventi nello scopo associativo, ciò comporti la qualifica dell’associazione come ente commerciale. Con tutto quanto ne consegue.

Da ciò deriverebbe, in particolare, l’obbligo dell’associazione di sottoporre tutte le sue attività al regime fiscale dell’impresa, di tenere le scritture contabili ordinarie e predisporre il bilancio e, ovviamente, di iscriversi al registro delle imprese.

Al contrario, qualora l’attività d’impresa svolta resti del tutto marginale o sussidiaria rispetto all’attività principale a carattere assistenziale, l’ente dovrebbe comunque iscriversi al REA (Repertorio delle notizie economiche ed amministrative).

In ogni caso, anche a volere accogliere tale restrittiva interpretazione, occorre comunque precisare, a scanso di equivoci, come non possano, e non debbano, considerarsi attività commerciali (escluse dalla detassazione prevista per quelle non profit) tutte quelle attività, anche a pagamento, volte al raggiungimento dello scopo associativo.

Ciò significa che l’esame circa la prevalenza dei ricavi da attività commerciale deve sempre essere svolto con riferimento alle attività di impresa alternative o diverse rispetto a quelle connaturate al perseguimento dell’oggetto istituzionale.  

Tale chiarimento è doveroso, per sgomberare il campo da qualunque interpretazione distorta o strumentale.

Ulteriori problematiche, di ordine pratico ed interpretativo, sono poi legate alla possibilità di configurare il fallimento dell’associazione non riconosciuta esercente attività d’impresa ed alla responsabilità personale degli associati rispetto alle obbligazioni assunte dall’organismo. Anche su tali punti il dibattito è ancora aperto.

In conclusione, la figura dell’associazione non riconosciuta ha acquisito, e continua ad acquisire, sempre maggiore rilevanza applicativa e ciò a fronte del frequente ricorso a tale istituto da parte di organismi ed enti non profit, che svolgono cioè la propria attività senza fini di lucro.

Rilevanti passi avanti sono stati fatti sia attraverso l’esplicito riconoscimento di una loro effettiva soggettività giuridica, sia attraverso la possibilità di svolgimento di attività di impresa. L’auspicio è quello che l’evoluzione legislativa ed interpretativa proceda in maniera coerente con i bisogni manifestatisi nel corso degli ultimi anni dalle associazioni.

Purtroppo l’intervenuta riforma del c.d. Terzo settore, oltre ad essere legata all’emanazione di 20 decreti ministeriali, ad avviso dello scrivente sostanzialmente non convince, mantenendo numerose zone d’ombra in un impianto tanto generalizzato quanto, nel contempo, caotico e frammentario.

All’originario Decreto Legislativo 117/2017 (Codice del terzo settore), introdotto con l’ambizione di un riordino complessivo della materia, già modificato dal successivo Decreto Legislativo 115/2018, si sono aggiunte le ulteriori modificazioni ed integrazioni contenute nel c.d. Decreto semplificazioni (D.L. 135/2018). Questo senza contare i paralleli interventi legislativi sulla revisione dell’impresa sociale.

La proliferazione normativa, specie se non adeguatamente ragionata, rischia di essere soltanto controproducente per l’operatore, che si trova a dovere interpretare un numero elevatissimo di prescrizioni spesso, peraltro, contraddittorie tra loro.

Anche in questo intervento di “riordino”, come spesso avvenuto nel corso degli ultimi anni, il legislatore non ha mostrato né univocità di azione, né capacità di sintesi. L’impressione è quella di trovarsi di fronte all’ennesimo tentativo fallito di fornire un quadro normativo organico in una materia tecnica e complessa.

La finalità, espressamente prevista all’articolo 1 del decreto, di favorire “l’autonoma iniziativa dei cittadini che concorrono, anche in forma associata, a perseguire il bene comune” rischia di rimanere lettera morta, sepolta dal numero e dalla complessità delle nuove previsioni.              

Riferimenti bibliografici e giurisprudenziali

 

Commentario al Codice Civile Schlesinger - Busnelli. Le associazioni non riconosciute Artt. 36 - 42. A cura di Giulio Ponzanelli – GIUFFRE’

Commentario al Codice Civile Scialoja - Branca. Associazioni non riconosciute e comitati Artt. 36 - 42. Franco Galgano – ZANICHELLI

Persone giuridiche e associazioni non riconosciute. Giuseppe Tamburrino - UTET

L’associazione non riconosciuta. Modelli normativi ed esperienze atipiche. Andrea Fusaro - CEDAM

Partecipazioni e attività. Contributo allo studio delle associazioni. Marcello D’Ambrosio - EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE

Diritto Civile. C. Massimo Bianca - GIUFFRE’

L’impresa collettiva non societaria. Antonio Cetra - GIAPPICHELLI

Le persone giuridiche e le organizzazioni senza personalità giuridica. Francesca Loffredo - GIUFFRE’

Cassazione Civile - Sentenza n. 4252 del 16.11.1976

Cassazione Civile - Sentenza n.5642 del 08.11.1984

Cassazione Civile - Sentenza n. 8239 del 16.06.2000

Cassazione Civile - Sentenza n. 1476 del 23.01.2007

Cassazione Civile - Sentenza n. 5836 del 08.03.2013

Cassazione Civile - Sentenza n. 25210 del 08.11.2013

Cassazione Civile - Sentenza n. 3420 del 14.02.2014