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Il terzo settore ed il carcere

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Il terzo settore ed il carcere

 

Per “terzo settore” intendiamo l'insieme di quegli enti privati che perseguono, senza scopo di lucro, finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che promuovono e realizzano attività di interesse generale. Il sistema penitenziario è, invece, quel complesso sistema che si occupa di garantire l’esecuzione di una pena detentiva. Essendo uno spazio che limita, nel vero senso della parola, la libertà dei suoi ospiti, è necessario indagare a fondo e capire come le varie influenze esterne possano concretamente entrare nelle mura di un istituto e come possano, a loro volta, permettere alla sua popolazione di uscirne gradualmente.

Appare rilevante ed utile, ai fini di un corretto studio della materia, richiamare il portato dell’art. 27 della Costituzione, il quale afferma che:

“La responsabilità penale è personale.

L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Non è ammessa la pena di morte”.

In ossequio di tale norma, la l. 26 luglio 1975, n. 354, recante “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”, ha dettato una nuova disciplina dell’ordinamento penitenziario stesso, prestando particolare attenzione al trattamento rieducativo del condannato. L’obiettivo del legislatore giace sulla necessità di bilanciamento tra la finalità afflittiva e quella di reinserimento del detenuto all’interno della società civile. Ad ulteriore conferma di tale orientamento teleologico, l’art. 17 della l. 354/1975 disciplina la partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa affermando che

“La finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all'associazione rieducativa. Sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari con l'autorizzazione e secondo le direttive del magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore, tutti coloro che avendo concreto interesse per l'opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera”. Parallelamente, l’art. 78 del medesimo ordinamento stabilisce che “L'amministrazione penitenziaria può, su proposta del magistrato di sorveglianza, autorizzare persone idonee all'assistenza e all'educazione a frequentare gli istituti penitenziari allo scopo di partecipare all'opera rivolta al a sostegno morale dei detenuti e degli internati, e al futuro reinserimento nella vita sociale. Gli assistenti volontari possono cooperare nelle attività culturali e ricreative dell'istituto sotto la guida del direttore, il quale ne coordina l'azione con quella di tutto il personale addetto al trattamento. (…) Gli assistenti volontari possono collaborare coi centri di servizio sociale per l'affidamento in prova, per il regime di semilibertà e per l'assistenza ai dimessi e alle loro famiglie”. Questi due articoli hanno concretamente permesso alla società civile di entrare, sia fisicamente sia idealmente, nel mondo penitenziario, anche grazie ad una serie di evoluzioni registratesi nel tempo che hanno agevolato tale decorso. Si pensi alla L. n. 663/1986 (“Legge Gozzini”) o alla successiva L. 266/1991 (Legge quadro sul volontariato) le quali hanno, progressivamente, ridisegnato i confini del trattamento penale, aprendo concrete possibilità sul lavoro all’esterno coinvolgendo, fattivamente, le associazioni e le organizzazioni di volontariato nei percorsi rieducativi. A tali, fondamentali, introduzioni normative, si sono, poi, aggiunti altri interventi rilevanti come la sottoscrizione del protocollo d’intesa tra il Ministero della Giustizia e la Conferenza nazionale volontariato e giustizia, tramite la quale il volontariato penitenziario è divenuto un interlocutore diretto per l’Amministrazione. L’attività penitenziaria del terzo settore, per il tramite dei suoi operatori, si traduce nell’espletamento di diverse attività rivolte alla popolazione detenuta che ne è destinataria, attraverso progetti specifici riguardanti il lavoro, la formazione e/o lo sport oppure attraverso il supporto a compiti istituzionali dell’amministrazione.  Il rapporto tra terzo settore e sistema carcerario, seppur rimanga un esempio virtuoso di collaborazione tra “Stato” ed enti privati, soffre, suo malgrado, della mancanza di infrastrutture adeguate e di fondi che ne permettano la totale riuscita. Difatti, la condizione degli istituti e degli spazi a disposizione incidono non poco sulla realizzazione dei progetti. Non di meno, l’Italia soffre di una disomogeneità tale da rendere l’esperienza detentiva molto diversa per i condannati, sulla base, anche, della mera posizione geografica dell’istituto ospitante. In effetti, se è vero che uno dei primi problemi riguarda proprio la carenza di spazi fisici, è anche di difficile smentita la, talvolta, inadeguata gestione delle strutture stesse. A seguito della pandemia da Covid-19 che ha investito il mondo nel 2020, peraltro, il terzo settore ha trovato cospicui finanziamenti all’interno del piano di inclusione e coesione del Recovery Plan predisposto dal Governo di maggioranza del tempo. In questo senso, il legame, ormai imprescindibile, con il mondo penitenziario ha trovato nuova conferma. L’attenzione all’inclusione sociale e alla rieducazione attiva ha assunto, del resto, una rilevanza sempre maggiore e ha dato spazio ed importanza ad attività culturali, di animazione e sportive dei detenuti stessi.  Da ultimo, anche la c.d. “Riforma Cartabia” ha toccato il tema di odierna trattazione, operando un esteso riferimento alla giustizia riparativa prevedendo una disciplina organica in un titolo a ciò dedicato. Si tratta del Titolo IV, rubricato “Disciplina organica della giustizia riparativa”, composto da X Capi, a loro declinati in Sezioni e che dettano i Principi e disposizioni generali (Capo I), Garanzie dei programmi di giustizia riparativa (Capo II), Programmi di giustizia riparativa (Capo III), Formazione dei mediatori esperti in programmi di giustizia riparativa e requisiti per l’esercizio dell’attività (Capo IV), Servizi per la giustizia riparativa (Capo V). In conclusione, ciò che è certo, è che nel terzo settore si riconosce un agire “spontaneamente altruistico” che tende “all’integrazione spontanea del soggetto nel gruppo, alla tensione all’azione per finalità non egoistiche” (Pezzini B. 2005) e che tale agire assume una rilevanza fondamentale se inserito in un contesto tanto complesso come quello in cui la sua popolazione viene privata della propria libertà personale. Di certo, però, “il ruolo del terzo settore deve confrontarsi con le cautele dovute al paventato rischio di privatizzare la giustizia e al potenziale sacrificio o compressione della finalità della pena come “rieducazione”, o meglio risocializzazione del condannato, portando con sé il rischio – che spetta agli operatori schivare- dell’indebolimento ulteriore della posizione della vittima e del reo (Lorenzetti A. 2021).