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Il reato corruttivo: riflessioni a margine della sentenza n. 3314/2023, Trib. Milano, sez. X penale, nella vicenda Johnson & Johnson S.p.A.

corruzione farmaceutica
corruzione farmaceutica

Il reato corruttivo: riflessioni a margine della sentenza n. 3314/2023, Trib. Milano, sez. X penale, nella vicenda Johnson & Johnson S.p.A.

 

ABSTRACT

E’ stata recentemente pubblicata la sentenza del Tribunale di Milano a carico della società farmaceutica Johnson & Johnson Medical S.p.A. per le vicende di carattere corruttivo che hanno visto coinvolti soggetti subordinati dell’ente, dalle quali la Società avrebbe tratto vantaggio.

La sentenza, nella parte conclusiva delle motivazioni, affronta tematiche di notevole interesse in tema di responsabilità dell’Ente, sempre oggetto di costante dibattito, che concernono, in particolare, i criteri sulla base dei quali accertare l’idoneità e l’efficace attuazione del Modello nell’ipotesi in cui l’autore del reato presupposto sia un soggetto sottoposto
 

LA RESPONSABILITÀ DELL’ENTE NEL CASO DI REATO PRESUPPOSTO COMMESSO DAL SOTTOPOSTO

Preliminarmente, appare opportuno fornire alcune nozioni generali in materia di responsabilità dell’ente nel caso di reato dei sottoposti, così come approntata dal d.lgs. 231/2001.

Come noto, l’art. 5, comma 1, lett. b) d.lgs. 231/2001 qualifica tali soggetti come persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a), comunemente identificati con gli “apicali”; dunque, soggetti che pur non esprimendo (in linea teorica) la politica aziendale, sono comunque in grado di impegnare l’Ente.

Le ragioni dell’inclusione di tali soggetti derivano principalmente da osservazioni di politica criminale: le indagini criminologiche, infatti, hanno evidenziato che “la criminalità d’impresa spesso si colloca nelle posizioni intermedie all’interno dell’organigramma dell’ente”. Ciò considerato, per evitare fenomeni di irresponsabilità organizzata e di “scaricamento verso il basso” della responsabilità, si è reso necessario allineare il novero dei soggetti destinatari del Decreto con le sempre nuove acquisizioni dell’economia aziendale [C. DEMAGLIE, L’etica e il mercato, La responsabilità penale delle società, Milano, Giuffrè, 2002].

Con riferimento all’individuazione dei soggetti sottoposti all’altrui direzione o vigilanza, rientrano sicuramente, come confermato anche dalla Relazione ministeriale al Decreto che vi fa espressa menzione, i lavoratori subordinati o dipendenti: si tratta, infatti, dei destinatari naturali ex art. 2094 c.c. e ss. del potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro. C’è chi fa rientrare, all’interno di questa categoria, benché presentino alcune differenze con i lavoratori subordinati, i lavoratori c.d. parasubordinati - legati da rapporti di collaborazione coordinata e continuativa - ex art. 409, comma 1, n. 3, c.p.c.: ci si riferisce a coloro che, inseriti stabilmente nell’organizzazione aziendale, e pur organizzando autonomamente la loro propria attività, sono comunque sottoposti all’ingerenza del committente [M. RIVERDITI, La responsabilità degli enti: un crocevia tra repressione e specialprevenzione: circolarità ed innovazione dei modelli sanzionatori”, Jovene, Napoli, 2009].

Più in generale, fanno sicuramente parte di questa categoria tutti coloro che, legati da vincoli più o meno forti di dipendenza, sono “inseriti con qualche nota di continuità all’interno della compagine dell’ente”.

Merita rammentare, in ogni caso, onde evitare comportamenti marcatamente elusivi della normativa ex Decreto, che, in forza del principio dell’indisponibilità del tipo costantemente affermato dalla giurisprudenza giuslavorista, pur non potendo disconoscere completamente la qualificazione formale che le parti hanno inteso dare al proprio rapporto negoziale/di lavoro, occorrerà guardare, in una prospettiva di prevalenza della sostanza sulla forma, alla configurazione assunta dal rapporto nel suo concreto svolgimento. Se ciò è vero, allora, destinatario della lett. b), comma 1, dell’art. 5 sarà “chiunque si trovi ad operare nell’ente in una posizione anche non formalmente inquadrabile in un rapporto di lavoro dipendente, purché sottoposto alla direzione o alla vigilanza altrui”.

Con il D. Lgs. 231/2001 il legislatore delegato, come confermato anche dalla Relazione ministeriale al Decreto stesso, ha contemplato le due ipotesi sopra citate (reato espressione della politica criminale dell’ente vs. reato derivante da un difetto di organizzazione e controllo dell’ente), rispettivamente, agli artt. 6 e 7 del Decreto stesso, prevedendo per entrambe un criterio unitario di responsabilità, di natura colposa, per colpa - specifica- di organizzazione; tuttavia, sebbene unitario, l’accertamento del giudizio di colpevolezza della societas rimane parzialmente differente a seconda che si tratti di un reato, doloso o colposo, commesso da un apicale o di un reato, doloso o colposo, commesso da un sottoposto [O. DI GIOVINE, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo in Reati e responsabilità degli enti, (a cura di) G. Lattanzi, 2010, Giuffrè].

Sebbene ancora non obbligatorio (quantomeno non con una espressa previsione all’interno del d.lgs. 231) tanto l’art. 6 quanto l’art. 7 prevedono che il modello organizzativo, oltre ad essere adottato, debba essere efficacemente attuato e risultare idoneo a prevenire reati della specie di quelli verificatosi o, più in generale, ai fini della predisposizione del modello, di qualsiasi reato-presupposto che potrebbe coinvolgere la responsabilità dell’ente.

Nel dettaglio, all’art. 7, comma 1, il D. Lgs. 231 ha disciplinato la responsabilità dell’ente nell’ipotesi in cui l’inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza, cui sono preposti gli organi apicali del soggetto collettivo, renda possibile (o agevoli) la commissione di un reato da parte di un soggetto a loro ‘sottoposto’. Il comma 2 del medesimo articolo contempla, invece, l’ipotesi di esonero della responsabilità (rectius, di esclusione dell’inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza), nonostante l’avvenuta commissione del reato, quando, prima della sua commissione, sia stato adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.

Da un primo raffronto con l’ipotesi di reato degli ‘apicali’, è agevole desumere che mentre nella situazione delineata dall’art. 6 esiste una presunzione di riferibilità del reato all’ente, per via del rapporto di immedesimazione organica che lega quest’ultimo all’autore del reato, superabile solo con la dimostrazione della presenza di determinate condizioni, ben diverso è qui il rapporto funzionale che lega il reato commesso da un ‘sottoposto’ e l’adempimento (o il mancato adempimento) degli obblighi di sorveglianza su di esso che incombono sugli organi di vertice della persona giuridica.

Come intuibile, il fulcro dell’illecito, nell’ipotesi ora considerata, ruota attorno alla scarsa e negligente organizzazione  che l’ente si è dato, ovvero, nelle ipotesi più gravi, nella sua totale assenza, tale da lasciare scoperto il soggetto collettivo dal rischio di consumazione di reati al suo interno da parte di soggetti subalterni; dunque, un’autentica colpa d’organizzazione per non aver predisposto e implementato adeguati sistemi di controllo con riferimento all’operato di quest’ultimi. Ecco, quindi, che il rimprovero mosso nei confronti dell’ente per non aver osservato gli obblighi in materia di vigilanza e controllo (culpa in vigilando), assume natura quasi ‘impersonale’, ‘propria’ del soggetto collettivo in quanto tale, senza dover necessariamente indagare l’elemento soggettivo alla base della condotta della persona fisica/controllore e senza che la colpevolezza dell’ente possa identificarsi con quella dell’autore del reato,

Come anticipato, una delle possibilità  mediante le quali l’ente può assolvere l’adempimento degli obblighi di direzione e vigilanza è costituita, prima della commissione del reato, dall’adozione ed efficace attuazione di un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quelli verificatisi; in altri termini, il legislatore ha ritenuto ‘sufficiente’ l’adozione di un modello preventivo idoneo  per escludere la culpa in vigilando in capo all’ente, e quindi la sua responsabilità ex D. Lgs . 231, a nulla rilevando le eventuali inosservanze degli obblighi di direzione e vigilanza [A. PARROTTA, La gestione del rischio e i sistemi di prevenzione del reato, Pacini Giuridica, 2019].. 

La valutazione del giudice circa l’idoneità del modello andrà svolta necessariamente secondo una prospettiva ex ante, tipica del metodo di accertamento della colpa; tale valutazione, secondo autorevole dottrina , non potrà prescindere dall’accertamento del nesso causale tra la violazione dello standard cautelare e la commissione del reato: non basterà infatti desumere, dal verificarsi del fatto del ‘sottoposto’, una generica inadeguatezza preventiva del modello ma occorrerà che, in sede di elaborazione e successiva attuazione dello stesso, si sia verificata una specifica carenza organizzativa da parte dell’ente che, di fronte ad una oggettiva e concreta possibilità di evitare il fatto del ‘sottoposto’, abbia omesso di considerare “nello spettro preventivo” [F. B. GIUNTA, Attività bancaria e responsabilità ex crimine degli enti collettivi, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2004] del modello di organizzazione, gestione e controllo il reato del tipo di quello commesso. Al contrario, l’ente non sarà rimproverabile quando, pur avendo diligentemente osservato gli obblighi di direzione e vigilanza, il reato, benché realizzatosi, non risultava concretamente prevenibile agli occhi del soggetto collettivo [M. PELISSERO, La responsabilità degli enti, in Manuale di diritto penale. Leggi complementari. XIV ed. vol. II, (a cura di) C. F. GROSSO, M. PELISSERO, D. PETRINI, P. PISA, Milano, Giuffrè, 2018].

 

SULLE IMPUTAZIONI (cenni)

Come anticipato in esordio, la vicenda penale di cui alla sentenza del Tribunale di Milano a carico della società farmaceutica Johnson&Johnson vedeva imputati – nel parallelo procedimento a carico delle persone fisiche – alcuni ex dipendenti della Società, i quali si sarebbero resi responsabili di diversi fatti corruttivi per aver favorito l'acquisto di protesi ortopediche prodotte da Johnson&Johnson Medical S.p.A. in forza di un «accordo occulto» con l’ex primario di ortopedia di un noto ospedale pubblico milanese (finalizzato, nella sostanza, a mantenere la fornitura e l’utilizzo di prodotti medicali della Società, anche al di fuori delle prescritte autorizzazioni) in cambio di «periodici compensi in denaro», «l'invito a programmi televisivi e a eventi scientifici», nonché «viaggi e soggiorni» a margine di congressi nazionali e all’estero.

Alla società, dunque, veniva ascritta la commissione dell’illecito ex artt. 5, comma 1, lett. b), 7, 25, comma 2, d.lgs. 231/2001 in relazione al reato presupposto di cui agli artt. 110, 321 c.p. (artt. 319 e 319 bis c.p.), per non aver correttamente ed esaustivamente adempiuto agli obblighi di controllo e vigilanza, rendendo così possibile la commissione dell’illecito da reato dell’ente.

LE PRICIPALI STATUIZIONI IN PUNTO D.LGS. 231/2001 DI CUI ALLA SENTENZA DEL TRIBUNALE DI MILANO

Come affermato dalla stessa sentenza in esame, la pronuncia si colloca – all’interno del panorama 231 – tra le poche ad essersi interessata specificamente della responsabilità dell’ente nell’ipotesi di reato presupposto commesso non da un soggetto apicale bensì da un soggetto sottoposto.

A parere di chi scrive, meritano in particolare attenzione le conclusioni cui perviene il Giudicante con riferimento alla natura della responsabilità dell’ente e al contenuto dell’art. 7 nel sistema di ascrizione dell’illecito all’ente.

Imprescindibile punto di partenza, ai fini dell’esclusione della responsabilità dell’ente, concerne la valutazione dell’idoneità ed efficace attuazione del MOG. Il Tribunale, per inciso, aderisce alla tesi maggioritaria dell’unitarietà del modello 231 (nella sua struttura e nella sua concreta attuazione) e non a quella del cd. “doppio modello”, che vedrebbe l’adozione da parte dell’Ente e di un modello per la prevenzione e gestione del rischio-reato degli apicali e un modello per la prevenzione e gestione del rischio-reato dei sottoposti. Come posto in evidenza, la valutazione circa l’efficace attuazione e idoneità del modello 231, nella parte in cui si rivolge ai reati dei non-apicali, deve necessariamente concentrarsi sull’aspetto del controllo richiesto sugli stessi da parte degli apicali (in questo senso, il modello di organizzazione, gestione e controllo), che giustifica – in sua assenza – il rimprovero per colpevolezza/colpa di organizzazione nei confronti della societas (nei termini, per l’appunto, di inosservanza del dovere di direzione e vigilanza).

In tal senso – argomenta il Giudicante – “il combinato disposto dei commi 3 e 4 dell’art. 7 (n.d.r. che traccia le linee-guida per poter attuare efficacemente il modello nella parte in esame,) non solo non implica la configurazione di un modello organizzativo autonomo, ma neppure individua parametri di valutazione diversi dall’idoneità e efficace attuazione: quelli esplicitati tanto all’art. 6 quanto all’art. 7”.

Ricordando opportunamente come il giudizio di colpevolezza dell’ente – in sede di istruttoria dibattimentale – debba necessariamente essere caratterizzato dal carattere prognostico, di prognosi postuma, il Tribunale ha enucleato tutti gli elementi consegnati , nel caso di specie, dal dibattimento al fine di dimostrare come l’organizzazione adottata dell’Ente, ex ante, non sia stata – in concreto - sufficientemente idonea ed efficace a prevenire lo specifico rischio reato corruttivo da parte dei soggetti sottoposti, e dunque che sussistesse la colpa di organizzazione.

In particolare, il Giudicante ha posto l’attenzione su alcune delle maggiori “anomalie” (es. in materia di procedure per il conferimento di un contratto di consulenza retribuita ad un professionista sanitario) in punto (assenza) flussi informativi, osservando come sarebbe stato dimostrato che plurimi furono i “momenti in cui soggetti interni all’ente e diversi dagli autori del reato, con specifiche funzioni di direzione e vigilanza, hanno avuto esplicita manifestazione di tali anomalie”, senza – tuttavia – che a fronte di numerosi segnali d’allarme siano scattate, nel tempo, le doverose contromisure, “anomalie che non sono state rilevate da chi aveva obblighi di direzione e vigilanza e, quando lo sono state, non sono confluite in flussi informativi idonei affinché il modello operasse nel senso di “scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio” secondo quanto richiesto dall’art. 7, comma 3”.

Un’efficace attuazione del modello (i.e. un efficace sistema di controlli) deve necessariamente essere “dinamico”, che significa che deve essere in grado di operare “in corsa”, anche quando il fumus di una violazione al Modello sia integrato, e dunque un “meccanismo bloccante” in grado di impedire che venga o possa essere portata a compimento la fase di una procedura connotata da una violazione. Questo, ad avviso del Tribunale, il nucleo di una tempestiva scoperta ed eliminazione delle situazioni di rischio.
 

CONCLUSIONI

Riprendendo le argomentazioni iniziali svolte dal Tribunale come premesse introduttive, il Collegio, riconoscendo autonoma dignità al contenuto precettivo tanto delle regole dettate dall’art. 6 quanto di quelle dell’art. 7 ex d.lgs. 231 – non costituendo quest’ultime mere ripetizioni di quelle di cui all’art. 6, ma dettando invece autonome regole ai commi 3 e 4 per l’apprezzamento della idoneità del modello organizzativo nelle ipotesi di reato presupposto commesso da un non-apicale – ribadisce come i criteri dettati per accertare l’idoneità e l’efficace attuazione del Modello si equivalgano, essendo unicamente “declinati con sequenze diverse per la necessità di adattarli alla diversa posizione ricoperta dai responsabili del reato presupposto”.